Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Da dove la vita è perfetta di Silvia Avallone, romanzo edito in Italia da Rizzoli con un prezzo di copertina di 19,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 9,99.
Da dove la vita è perfetta: trama del libro
C’è un quartiere vicino alla città ma lontano dal centro, con molte strade e nessuna via d’uscita. C’è una ragazzina di nome Adele, che non si aspettava nulla dalla vita, e invece la vita le regala una decisione irreparabile. C’è Manuel, che per un pezzetto di mondo placcato oro è disposto a tutto ma sembra nato per perdere. Ci sono Dora e Fabio, che si amano quasi da sempre ma quel “quasi” è una frattura divaricata dal desiderio di un figlio. E poi c’è Zeno, che dei desideri ha già imparato a fare a meno, e ha solo diciassette anni. Questa è la loro storia, d’amore e di abbandono, di genitori visti dai figli, che poi è l’unico modo di guardarli. Un intreccio di attese, scelte e rinunce che si sfiorano e illuminano il senso più profondo dell’essere madri, padri e figli. Eternamente in lotta, eternamente in cerca di un luogo sicuro dove basta stare fermi per essere altrove. Silvia Avallone ha parole come sentieri allungati oltre un orizzonte che davamo per scontato. Fa deflagrare la potenza di fuoco dell’età in cui tutto accade, la forza del destino che insegue chi vorrebbe solo essere diverso. Apre finestre, prende i dettagli della memoria e ne fa mosaici. Sedetevi con lei su una panchina e guardate lontano, per scoprire che un posto da dove la vita è perfetta, forse, esiste.
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E aumentava, s’irradiava dall’ombelico a dismisura. Esatta, regolare: sessanta secondi interi. Lei lo sapeva che le avrebbe schiantato le reni. E poi, sarebbe cresciuta ancora. Si sarebbe fatta gigante come sua madre la sera prima abbandonata sul divano, come il telefono in corridoio che non aveva squillato per anni; gli occhi di Zeno quando le aveva detto: «Sì, andiamo via».
Le avrebbe fermato il cuore, come tutte le cose che non potevano guarire. Adele lo sapeva.
Respira. Era quello che le ripetevano di fare. Ma lei non poteva respirare. Aveva i polmoni pieni di segatura. Il dolore le comprimeva il torace, glielo spaccava a metà come una mela. Il dolore era l’unica verità vera. Così sterminato, quanto l’Adriatico a febbraio.
«Non la voglio.»
I capelli bagnati di sudore le colavano lungo le guance. Nuda, i pugni contro le ginocchia. Se ne stava accovacciata a terra come dovesse pisciare lì, in mezzo alla stanza.
«Te ne puoi pure andare» aggiunse, maleducata.
L’anestesista rimase indeciso sulla porta. Inarcò un sopracciglio, a dire: Sei proprio sicura che non vuoi l’epidurale?
Il volto dei medici era sempre strano quando la guardavano. Come se non riuscissero a metterla a fuoco. Come si fa con le imperfezioni, le cose scadenti. Forse era solo una sua impressione, ma le sembrava glielo rinfacciassero tutti, che aveva sbagliato. Che non sarebbe mai stata perdonata per questo.
La porta si richiuse e Adele fu di nuovo sola. La contrazione montava. Le prendeva a calci l’addome e la colonna vertebrale. Eppure, doveva esserci ancora il sole da qualche parte.
Si stava facendo giorno quando era salita sul 22 insieme a quelli che pulivano le strade, e a quelli che vagavano alle sei del mattino con gli occhi stanchi. Lo sporco sotto le unghie, il collo consunto delle giacche: si capiva solo a guardarli dov’è che abitavano.
I Lombriconi erano illuminati su una facciata e bui sull’altra, desolati su entrambe come la superficie lunare. Li aveva visti rimpicciolire, premendo la tempia contro il finestrino. Si era accorta di come tutto fosse diventato distante.
Era finita la notte, la casa era sottosopra, le si erano rotte le acque.
Solo una pazza avrebbe preso l’autobus con le doglie, e lei lo aveva fatto. Sgusciando via senza dire niente. Con le orecchie piene di parole cattive. Aveva deciso. Si era piegata in due sul sedile durante il viaggio, e morsa le labbra più volte per non urlare. Aveva i jeans zuppi incollati al sedere, il liquido amniotico le era colato lungo le gambe.
Tanto, la gente mica si voltava.
Tanto, non sarebbe mai cambiato niente.
Calpestò la camicia da notte che si era strappata di dosso due, tre, cinque ore prima. La afferrò per un lembo con le unghie viola tempestate di brillantini. Cominciava a sentire il bisogno di spingere e spingere, e non spingeva. OFFERTISSIMAc’era scritto sopra il cesto da ravanare, TUTTO DA 9 EURO E 99. Non l’aveva nemmeno scelta lei, quella stupida camicia a cuoricini. Strappò i bottoni. Mentre il corpo la dilaniava per aprirsi, lei si chiudeva. La verità era che non voleva farla uscire.
Udì un rumore di porta che sbatte, di pantofole bianche con i buchi.
La riconobbe prima ancora che parlasse.
«Ci sono tua madre e tua sorella.»
«Mandale via.»
«Neanche tua mamma vuoi vedere?»
Marilisa era l’unica persona buona che le era rimasta. La sola che le avesse chiesto, un pomeriggio di qualche mese prima, di fronte al monitor dell’ultima ecografia: «Ma tu, cos’è che vuoi?».
Si era precipitata qui mezz’ora dopo la sua telefonata, un numero privato che di solito alle pazienti del consultorio non dava.
Però, lo faceva per lavoro. Come l’assistente sociale e la psicologa dell’Ausl che l’avevano seguita, ascoltata, incoraggiata; che le avevano ripetuto: «Andrà tutto bene».
Da domani, non ci sarebbe stato più bisogno d’incontrare nessuno.
«È arrivato anche Manuel, ha ottenuto il permesso.» Marilisa addolcì la voce per dirglielo, l’abbassò di un tono. «Sei tu che devi decidere, ma lui vorrebbe entrare.»
Adele scosse la testa, si raggomitolò su un fianco. Sentiva premere tra la vagina e l’ano, inesorabile come la piena di un fiume.
Si disse che mai, mai gliel’avrebbe fatta vedere. Continuò a scuotere la testa per l’intera durata del dolore. No, no e no. In posizione fetale, acciambellata intorno alla pancia per proteggerla un’ultima volta.
Nella camera grigioverde in fondo al corridoio, in quella solitudine spettrale che odorava di lisoformio, con il lavandino già pronto per il bagnetto, il cassetto con su scritto “ventose” e la flebo di ossitocina in caso di bisogno, c’era solo lei adesso.
Lei al plurale.
Anche l’ospedale le vorticava a vuoto intorno al corpo, le urla delle altre partorienti le arrivavano deboli come sogni. Come se i piani, le corsie, i reparti fossero in realtà deserti, evacuati in fretta per un incendio o un nubifragio. Anche sua madre, sua sorella e Manuel fuori dalla porta erano distanti migliaia di anni. Li aveva dimenticati. Non le importava che Manuel ci tenesse ancora a lei, che avesse strappato con le unghie e con i denti un permesso straordinario per essere qui. Che avesse chiesto di entrare.
Cosa si era messo in testa, di fare il padre?
I padri non esistono.
Avvertì le mani di Marilisa posarsi sulle sue spalle, massaggiarle per alleviare il dolore. Lasciamelo, avrebbe voluto dire.
Non portatemelo via, almeno questo.
«Brava, lo sento che non hai paura.» La voce dell’ostetrica era calma, c’era dentro una fiducia che nessuno era mai stato disposto a concederle. «Stai andando bene, devi solo continuare. Neanche quelle di trent’anni sono così coraggiose.»
Quelle di trent’anni avevano già il passeggino. E il lettino, il fasciatoio, le congratulazioni dei parenti, i cumuli di regali. Il fiocco rosa o azzurro per farlo sapere al mondo.
Adele, a casa, non aveva niente.
Non aveva neppure un mondo a cui dire qualcosa.
Solo l’acme della contrazione che deflagrava, e il cuore bloccato da tonnellate di gelo. Poi, il dolore mollò la presa.
«Butta fuori l’aria, adesso, tutta quanta.»
E mentre il dolore s’inabissava, i polmoni si allargavano e lei poteva riaffiorare, le tornò in mente una mattina, la più bella dell’ultimo inverno, quando si erano svegliati insieme. La luce polverosa che s’intrufolava tra le tapparelle, il rumore del caffè sul fuoco in cucina, e Zeno che le faceva il solletico dietro le orecchie: «Alzatevi, ragazze».
Riaprì gli occhi.
«Quanti centimetri sono?»
«Adesso vediamo.»
«Quante ore sono passate?»
«Sette, va tutto bene. Le ascoltiamo il cuore.»
Il suo cuore.
Adele si tirò in piedi e raggiunse il letto. Approfittò dei trenta, quaranta secondi che la contrazione le concedeva per posarsi una mano sulla pancia e accarezzarla. La forza di cui aveva bisogno per sopportarne un’altra, per sopravvivere altre sette ore, o sette mesi, o sette anni, era tutta nel suo cuore. In quel battito che Marilisa amplificò di colpo. Che diventò immenso.
«Cavallino, senti come corre.»
A volte la chiamava così, Marilisa: “cavallino”. O “frugolino”. O “la signorina”. Non lo sapeva, che aveva già un nome. Non lo sapeva nessuno, neanche Zeno. Era una cosa segreta, solo tra Adele e sua figlia.
Un nome che non sarebbe mai stato registrato da nessuna parte.
Forse fu questo. Il pensiero nitido, nella stanza numero 1 al secondo piano, alle 13.55, di quello spazio vuoto sulla linea tratteggiata dei documenti.
«Marilisa.» Adele si voltò di scatto.
Le cercò gli occhi, ci si aggrappò dentro. Era stravolta, il suo viso era paonazzo e madido come se avesse 41 di febbre.
Fu l’assenza di quel nome dal mondo.
«Sei di dieci centimetri, tesoro. Ci siamo, comincia a spingere.»
Ma Adele non voleva più sapere questo. Stava cambiando idea cento volte e prendendo cento decisioni e tentando di sottrarsi a ciò che doveva accadere, che sarebbe accaduto comunque.
«Lasciamela un poco sulla pancia, dopo.»
Marilisa posò il doppler portatile sul tavolo, congiunse le mani perché non avrebbe saputo dove metterle.
Era la prima volta che glielo sentiva dire.
«Un’ora, anche solo mezz’ora.»
Era il suono di una preghiera.
Per un istante Marilisa si chiese quanto ci avessero capito, di quella ragazzina. Di cosa volesse davvero, di cosa nascondesse dietro i grandi occhi castani impiastricciati di trucco, i lunghi capelli mossi lasciati sciolti e i tacchi esagerati, gli orecchini troppo grandi.
Represse il moto che si sentiva premere contro lo sterno. Un fiotto di compassione o di strazio che l’avrebbe spinta ad abbracciarla e dirle: Ti aiuto io. Lo aggiusto io, tutto quanto. Ma non poteva.
Adele, dal letto, continuava a fissarla, a implorarla con lo sguardo largo e bagnato. E lei rimaneva in silenzio perché non ce le aveva proprio, le parole.
«Non portarmela via subito, ti prego.»
~
La sedia era una di quelle pieghevoli da campeggio, in alluminio e poliestere. La trascinava là, di fronte alla finestra della cucina, e si sedeva a guardare fuori. In silenzio, per ore.
Lo faceva da cinque anni.
Il panorama dal quarto piano non era poi così male. Oltre le colate di cemento, oltre le torri tutte uguali butterate di parabole e tapparelle sbiadite, la campagna si estendeva calma e muta come un lago verde.
Se chiudevi gli occhi, potevi persino fingere che il rumore delle auto in tangenziale fosse quello dell’acqua.
Forse era questo che immaginava, di trovarsi su una riva. Ogni giorno nella stessa posizione, i capelli raccolti da una farfalla di plastica.
Le si sedette accanto. Le prese una mano e se la mise sulle ginocchia, distendendole le dita che erano affusolate e bianche come quelle di una bambina.
«Di che colore lo mettiamo, oggi? Fucsia “ceramic”?»
Marta piegò l’angolo della bocca in un frammento di sorriso, appoggiò gli occhi su quelli di Zeno. Uno sguardo vuoto, fuligginoso, che era pur sempre lo sguardo di sua madre.
Erano le tre del pomeriggio del primo lunedì di aprile.
La luce levigava i pensili di compensato allineati sopra il lavabo, le piastrelle giallo limone, il cumulo di federe e tovaglie che aspettava da tempo sull’asse da stiro. Era come un guscio, quella cucina. Starci dentro era come galleggiare sul tuorlo di un uovo.
Ai lati, e in basso, il baccano esplodeva a ogni ora del giorno e della notte: gente che litigava ai videogiochi, che minacciava il divorzio, che bestemmiava perché mancavano i soldi. Loro due, rintanati nell’interno 21, senza che nessuno venisse a cercarli, erano in salvo.
Zeno intinse il pennello nella vernice. Si chinò sulla mano di sua madre e le laccò le unghie una a una.
La vista da lassù abbracciava quasi tutto il quartiere.
Non lo sapeva, cos’è che fissava lei con gli occhi sgranati. Qualcosa che non esisteva più o che non era mai esistita. Lui, quando richiuse lo smalto e si lasciò scivolare indietro contro lo schienale, si soffermò soltanto su quello che c’era.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Silvia Avallone.
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