Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di 2666 di Roberto Bolano, il grande romanzo dello scrittore cileno edito in Italia da Adelphi con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si acquista con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 7,99.
I detective selvaggi: trama del libro
“Anziché lo scrittore,” ha detto una volta Roberto Bolaño “mi sarebbe piaciuto fare il detective privato. Sicuramente sarei già morto. Sarei morto in Messico, a trenta, trentadue anni, sparato per strada, e sarebbe stata una morte simpatica e una vita simpatica”. Simpatica, eppure segnata già dalla sconfitta e dalla follia, dissipata e bohémienne, esaltante e allucinata, dopata di sesso, poesia, marijuana e mezcal, è sicuramente la vita dei protagonisti di questo libro, che Enrique Vila-Matas ha descritto come “il viaggio infinito di uomini che furono giovani e disperati, ma non si annoiarono mai”. “I detective selvaggi” è infatti il romanzo delle loro avventure, ed è quindi un romanzo di formazione; ma è anche un romanzo giallo nonché, come tutti quelli di Bolaño, un romanzo sul rapporto tra la finzione e la realtà. Un libro, ha scritto un critico messicano, “simile a uno stadio dove la gente entra ed esce in continuazione”, e dove, come avviene in 2666, si incrociano e si aggrovigliano, spesso contraddicendosi, le “versioni” di un’infinità di personaggi (tutta gente che “on the wild side” non si è limitata a farci un giro): poetesse scomparse nel deserto del Sonora e puttane in fuga, ex scrittori di avanguardia e magnaccia imbufaliti, architetti vaneggianti e poliziotti corrotti, cameriere libidinose e poeti bisessuali, e poi avvocati, editori, neonazisti e alcolizzati…
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Sono stato cordialmente invitato a far parte del realismo viscerale. Come è ovvio, ho accettato. Non c’è stata alcuna cerimonia di iniziazione. Meglio così.
3 novembre
Non so bene in che cosa consista il realismo viscerale. Ho diciassette anni, mi chiamo Juan García Madero, sono al primo semestre del corso di laurea in Giurisprudenza. Io non volevo studiare Giurisprudenza ma Lettere, mio zio però ha insistito e alla fine ho dovuto cedere. Sono orfano. Diventerò avvocato. Ho detto così a mio zio e a mia zia, e dopo mi sono chiuso in camera e ho pianto per tutta la notte. O almeno per una buona parte. Poi, con apparente rassegnazione, sono entrato nella gloriosa facoltà di Giurisprudenza, ma nel giro di un mese mi sono iscritto al seminario di poesia di Julio César Álamo, alla facoltà di Lettere e Filosofia, e così ho conosciuto i realvisceralisti o viscerealisti e anche vicerealisti come a volte amano chiamarsi. In quattro volte che ero stato al seminario non era mai successo nulla, si fa per dire, perché a ben guardare succedeva sempre qualcosa: leggevamo delle poesie e Álamo, a seconda dell’umore, le lodava o le demoliva; leggeva uno di noi, Álamo analizzava, leggeva un altro, Álamo analizzava, leggeva un altro ancora, Álamo analizzava. A volte Álamo si annoiava e chiedeva anche a noi (che in quel momento non stavamo leggendo) di analizzare, e allora noi analizzavamo e Álamo si metteva a leggere il giornale.
Era il metodo giusto perché nessuno fosse amico di nessuno o perché le amicizie si fondassero sul disagio e sul rancore.
D’altra parte non posso dire che Álamo fosse un buon critico, anche se parlava sempre di critica. Ora penso che parlasse per parlare. Sapeva che cos’era una perifrasi, non molto bene, ma lo sapeva. Non sapeva, però, cos’era una pentapodia (che come tutti sanno, nella metrica classica, è una serie di cinque piedi), non sapeva nemmeno cos’era un nicarcheo (che è un verso simile al falecio), né cos’era un tetrastico (che è una strofa di quattro versi). Come faccio a sapere che non lo sapeva? Perché il primo giorno di seminario ho commesso l’errore di domandarglielo. Non so cosa mi è saltato in mente. L’unico poeta messicano che sa a memoria queste cose è Octavio Paz (il nostro grande nemico), gli altri non ne hanno la più vaga idea, o almeno così mi ha detto Ulises Lima cinque minuti dopo che ero entrato, amichevolmente accolto, nelle file del realismo viscerale. Con quelle domande ad Álamo ho dimostrato, me ne sono ben presto reso conto, una mancanza di tatto. All’inizio ho pensato che il sorriso che mi aveva rivolto fosse di ammirazione. Poi mi sono accorto che invece era di disprezzo. I poeti messicani (i poeti in generale, suppongo) detestano vedersi ricordare la loro ignoranza. Ma io ho tenuto duro e la seconda volta che ci andavo, dopo essermi fatto massacrare un paio di poesie, gli ho chiesto se sapeva cosa fosse un rispetto. Álamo ha pensato che gli chiedessi del rispetto per le mie poesie e ha attaccato a parlare della critica oggettiva (tanto per cambiare), un campo minato da cui deve passare ogni giovane poeta, eccetera eccetera, ma io non l’ho lasciato proseguire e dopo avergli chiarito che nella mia breve vita non ho mai preteso del rispetto per le mie povere creazioni, gli ho posto di nuovo la domanda, stavolta cercando di scandire il termine nel modo più chiaro possibile.
«Non sparare cazzate, García Madero» ha detto Álamo.
«Un rispetto, caro professore, è un genere di componimento lirico, amoroso per essere esatti, simile allo strambotto, composto da sei oppure otto endecasillabi, i primi quattro in forma di sirventese e i seguenti costruiti in distici rimati. Per esempio…» e stavo già per fargli uno o due esempi quando Álamo si è alzato di scatto e ha chiuso la discussione. Quello che è successo dopo è nebuloso (anche se ho buona memoria): ricordo la risata di Álamo e le risate dei miei quattro o cinque compagni di seminario, che salutavano molto probabilmente qualche battuta a mie spese.
Un altro, al posto mio, non avrebbe più messo piede al seminario, ma io nonostante i ricordi infausti (o l’assenza di ricordi, in questo caso altrettanto infausta, se non di più, della loro ritenzione mnemonica) la settimana dopo ero di nuovo lì, puntuale come sempre.
Credo che sia stato il destino a farmi tornare. Era la quinta volta che andavo al seminario di Álamo (ma poteva benissimo essere l’ottava o la nona, ultimamente ho notato che il tempo si restringe e si allunga a suo piacimento) e nell’aria era palpabile la tensione, la corrente alternata della tragedia, senza che nessuno riuscisse a capire a cosa era dovuta. Tanto per cominciare, eravamo al completo, tutti e sette gli apprendisti poeti iscritti all’inizio, cosa mai successa negli incontri precedenti. E poi eravamo agitati. Lo stesso Álamo, in genere così tranquillo, aveva i nervi a fior di pelle. Sul momento ho pensato che fosse capitato qualcosa all’università, una sparatoria nel campus di cui non ero informato, uno sciopero a sorpresa, l’assassinio del preside di facoltà, il sequestro di qualche professore di Lettere o roba del genere. Ma non era successo nulla e la verità è che nessuno aveva motivo di essere agitato. Almeno, obiettivamente nessuno ne aveva motivo. Ma la poesia (la vera poesia) è fatta così: si lascia presentire, si annuncia nell’aria, come i terremoti che si dice vengano preavvertiti da certi animali particolarmente sensibili. (Animali come i serpenti, i vermi, i topi e qualche uccello). Quello che è successo subito dopo è stato precipitoso ma a rischio di risultare patetico oserei definirlo una meraviglia. Sono arrivati due poeti realvisceralisti e Álamo, a denti stretti, ce li ha presentati, anche se di persona ne conosceva solo uno, l’altro lo conosceva per sentito dire o gli suonava il nome o gliene aveva parlato qualcuno, ma ce l’ha presentato lo stesso.
Non so cosa andassero cercando lì da noi. La visita sembrava di natura palesemente bellicosa, anche se non priva di una sfumatura propagandistica e proselitistica. All’inizio i realvisceralisti sono rimasti in silenzio o sulle loro.Álamo ha adottato, a sua volta, un atteggiamento diplomatico, leggermente ironico, in attesa degli eventi, ma a poco a poco, davanti alla timidezza dei due estranei, si è fatto più spavaldo e nel giro di mezz’ora il seminario era uguale al solito. Allora è cominciata la battaglia. I realvisceralisti hanno messo in dubbio l’approccio critico adottato da Álamo; lui, a sua volta, ha definito i realvisceralisti dei surrealisti da strapazzo e dei falsi marxisti, appoggiato nell’attacco da cinque membri del seminario, cioè da tutti meno un ragazzo molto magro che si portava sempre dietro un libro di Lewis Carroll e non parlava quasi mai, e me, comportamento che a essere sinceri mi ha sorpreso, perché quelli che appoggiavano Álamo con tanto ardore erano gli stessi che accoglievano con aria stoica le sue critiche implacabili e ora si mostravano (cosa che mi è parsa sorprendente) i suoi più fedeli difensori. A quel punto ho deciso di portare il mio granellino di sabbia e ho accusato Álamo di non sapere affatto cosa fosse un rispetto; i realvisceralisti hanno apertamente ammesso di non saperlo neppure loro ma hanno trovato l’osservazione pertinente e l’hanno detto; un altro mi ha domandato quanti anni avevo, io ho risposto diciassette e ho cercato ancora una volta di spiegare cosa era un rispetto; Álamo era rosso dalla rabbia; i partecipanti al seminario mi hanno accusato di essere pedante (uno ha detto che ero accademico); i realvisceralisti mi hanno difeso; ormai lanciato, ho chiesto ad Álamo e ai partecipanti in generale se almeno si ricordavano cos’era un nicarcheo o un tetrastico. E nessuno ha saputo rispondermi.
La discussione, contrariamente a quanto mi aspettavo, non è finita in una rissa generale. Devo riconoscere che mi sarebbe piaciuto moltissimo. E anche se uno dei partecipanti al seminario ha giurato a Ulises Lima che un giorno o l’altro gli avrebbe spaccato la faccia, alla fine non è successo nulla, voglio dire nulla di violento, anche se io ho reagito alla minaccia (che, ripeto, non era rivolta a me) assicurando a chi mi minacciava che mi avrebbe avuto a sua completa disposizione in qualsiasi angolo del campus nel giorno e all’ora che preferiva.
La serata si è chiusa in modo sorprendente. Álamo ha sfidato Ulises Lima a leggere una delle sue poesie. Lui non si è fatto pregare e ha tirato fuori da una tasca del giubbotto dei fogli sporchi e spiegazzati. Orrore, ho pensato, questo coglione si è cacciato da solo nella tana del lupo. Credo di aver chiuso gli occhi dalla vergogna che provavo per lui. C’è il momento di recitare poesie e c’è il momento di fare a pugni. Per me quello apparteneva alla seconda categoria. Ho chiuso gli occhi, come dicevo, e ho sentito Lima schiarirsi la gola. Ho sentito il silenzio (sempre che sia possibile ma ne dubito) un po’ scomodo che gli si è fatto intorno. E alla fine ho sentito la sua voce leggere la miglior poesia che abbia mai ascoltato. Poi Arturo Belano si è alzato in piedi e ha detto che stavano cercando dei poeti a cui interessasse collaborare alla rivista realvisceralista che avevano intenzione di pubblicare. Sarebbe piaciuto a tutti farsi avanti, ma dopo la discussione erano un poco in imbarazzo e nessuno ha aperto bocca. Quando il seminario è finito (più tardi del solito) sono andato coi realvisceralisti alla fermata degli autobus. Era troppo tardi. Non ne passavano più, così abbiamo deciso di prendere tutti insieme un pesero fino a Reforma e da lì ce ne siamo andati a piedi in un bar di calle Bucareli dove siamo rimasti fino a tardissimo a parlare di poesia.
Non sono riuscito ad appurare granché. Il nome del gruppo in un certo senso è uno scherzo e in un certo senso è una cosa assolutamente seria. Credo che molti anni fa ci sia stato un movimento di avanguardia, qui in Messico, chiamato realvisceralismo, ma non so se fossero scrittori o pittori o giornalisti o rivoluzionari. Sono stati attivi, anche su questo non ho le idee troppo chiare, negli anni Venti o Trenta. Ovviamente non avevo mai sentito parlare del gruppo, ma questo va imputato alla mia ignoranza in campo letterario (tutti i libri del mondo stanno aspettando che io li legga). Secondo Arturo Belano, i realvisceralisti si sono persi nel deserto del Sonora. Poi hanno fatto il nome di una certa Cesárea Tinajero o Tinaja, non ricordo, mi pare che in quel momento stessi sbraitando con un cameriere per delle bottiglie di birra, e hanno parlato delle Poesie del conte di Lautréamont, qualcosa nelle Poesie c’entrava con questa Tinajero, e poi Lima ha fatto una dichiarazione misteriosa. Secondo lui i realvisceralisti contemporanei camminano all’indietro. Come all’indietro?, ho domandato.
«Di spalle, guardando un punto ma allontanandosene, in linea retta, verso l’ignoto».
Ho detto che mi sembrava bellissimo camminare così, anche se in realtà non avevo capito nulla. A pensarci bene, è il modo peggiore di camminare.
Più tardi sono arrivati altri poeti, alcuni realvisceralisti, altri no, e la baraonda è diventata impossibile. Per un momento ho pensato che Belano e Lima si fossero dimenticati di me, occupati com’erano a parlare con tutti quei personaggi stravaganti che si avvicinavano al nostro tavolo, ma quando stava cominciando ad albeggiare mi hanno chiesto se volevo entrare nella banda. Non hanno detto «gruppo» o «movimento», hanno detto banda e questo mi è piaciuto. Naturalmente ho risposto di sì. È stato molto semplice. Uno dei due, Belano, mi ha stretto la mano, ha detto che ormai ero dei loro e poi abbiamo cantato una canzone ranchera. Tutto qui. Il testo della canzone parlava dei villaggi sperduti nel Nord e degli occhi di una donna. Prima di mettermi a vomitare per strada ho chiesto se erano gli occhi di Cesárea Tinajero. Belano e Lima mi hanno guardato e hanno detto che ormai ero proprio un realvisceralista, non c’era dubbio, e che insieme avremmo cambiato la poesia latinoamericana. Alle sei del mattino ho preso un altro pesero, stavolta da solo, che mi ha portato al quartiere Lindavista, dove vivo. Oggi non sono andato all’università. Ho passato tutto il giorno chiuso in camera a scrivere poesie.
4 novembre
Sono tornato al bar di calle Bucareli ma i realvisceralisti non si sono fatti vedere. Mentre li aspettavo mi sono messo a leggere e a scrivere. I clienti abituali del bar, un gruppo di ubriaconi silenziosi e abbastanza patibolari, non mi hanno staccato gli occhi di dosso.
Risultato di cinque ore di attesa: quattro birre, quattro tequile, un piatto di sopes che ho lasciato a metà (erano quasi marci), la lettura integrale dell’ultimo libro di poesie di Álamo (me l’ero portato dietro solo per prendere in giro Álamo con i miei nuovi amici), sette testi composti alla maniera di Ulises Lima (il primo sui sopes che puzzavano di bara, il secondo sull’università: la vedevo distrutta, il terzo sull’università: correvo nudo in mezzo a una folla di zombie, il quarto sulla luna nel Distrito Federal, il quinto su un cantante morto, il sesto su una società segreta che viveva nelle fogne di Chapultepec, e il settimo su un libro perduto e sull’amicizia) o più esattamente alla maniera dell’unica poesia che conosco di Ulises Lima e che non ho letto ma ascoltato, e una sensazione fisica e spirituale di solitudine.
Un paio di ubriachi hanno cercato di attaccar briga con me ma ho abbastanza carattere, malgrado l’età, per tenere testa a chiunque. Una cameriera (si chiama Brígida, da quanto ho saputo, e diceva di ricordarsi di me dalla sera che ero stato lì con Belano e Lima) mi ha accarezzato i capelli. È stata una carezza come involontaria, mentre andava a servire un altro tavolo. Poi si è seduta un po’ con me e ha insinuato che avevo i capelli troppo lunghi. Era simpatica ma ho preferito non risponderle. Alle tre del mattino sono tornato a casa. I realvisceralisti non si sono fatti vedere. Non li rivedrò mai più?
Per la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla nostra guida ai libri di Roberto Bolano.
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