Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La donna dei fiori di carta di Donato Carrisi. Il romanzo è pubblicato in Italia da TEA con un prezzo di copertina di 9,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è disponibile in eBook al prezzo di euro 9,99.
La donna dei fiori di carta: trama del libro
Il monte Fumo è una cattedrale di ghiaccio, teatro di una battaglia decisiva. Ma l’eco dei combattimenti non varca l’entrata della caverna in cui avviene un confronto fra due uomini. Uno è un prigioniero che all’alba sarà fucilato, a meno che non riveli nome e grado. L’altro è un medico che ha solo una notte per convincerlo a parlare, ma che ancora non sa che ciò che sta per sentire è molto più di quanto ha chiesto e cambierà per sempre anche la sua esistenza. Perché le vite di questi due uomini che dovrebbero essere nemici, in realtà, sono legate. Sono appese a un filo sottile come il fumo che si leva dalle loro sigarette e dipendono dalle risposte a tre domande. Chi è il prigioniero? Chi è Guzman? Chi era l’uomo che fumava sul Titanic? Questa è la storia della verità nascosta nell’abisso di una leggenda. Questa è la storia di un eroe insolito e della sua ossessione. Questa storia ha attraversato il tempo e ingannato la morte, perché è destinata al cuore di una donna misteriosa.
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La notte fra il 14 e il 15 aprile del 1912, mentre il transatlantico Titanicaffondava senza aver terminato il viaggio inaugurale, uno dei passeggeri scese nella sua cabina di prima classe, indossò uno smoking e risalì sul ponte.
Invece di cercare di salvarsi, si accese un sigaro e attese di morire.
Quando fu domandato ai superstiti del naufragio chi fosse il misterioso uomo, molti furono concordi nell’indicare un certo Otto Feüerstein, commerciante di tessuti, che viaggiava per affari, da solo.
A nessuno di loro fu rivelata subito la particolare circostanza che Otto Feüerstein, in realtà, era morto nel proprio letto, a casa sua, a Dresda.
Due giorni prima che il Titanic salpasse.
2
Un’immensa cattedrale di ghiaccio.
Jacob Roumann osservava la montagna al riparo del muro di trincea. Era lì che seppellivano i morti, nel ghiacciaio perenne. La roccia era troppo dura per scavare delle fosse. Ma c’era un aspetto positivo. In quelle tombe di gelo, i corpi si sarebbero conservati intatti per milioni di anni.
Per sempre giovane, pensò mentre con una carezza chiudeva le palpebre al soldato che non era riuscito a salvare – che età poteva avere? Diciotto, diciannove anni. Poi Jacob Roumann si voltò verso una bacinella di zinco e intinse nell’acqua le mani sporche di sangue. Da un paio d’ore le armi tacevano – quanto sarebbe durata?
Maledetto ghiaccio, disse fra sé.
Aveva sperato che il freddo rallentasse l’emorragia del ferito. Era stato inutile. Senza farmaci e con gli strumenti scarsi e usurati che aveva a disposizione non sarebbe stato possibile arrestare il dissanguamento. E anche se ci fosse riuscito, a che scopo? Quelli che guariva venivano rispediti in prima linea. Li rimetteva in piedi perché ammazzassero qualcuno o si facessero ammazzare – bell’impresa! In fin dei conti, anche lui lavorava al soldo di madre morte.
Sono il clown piazzato da Dio nel bel mezzo dell’Apocalisse, si diceva.
Ogni cosa intorno a lui mancava di senso logico. Tanto per cominciare, era primavera ma sembrava inverno. La chiamavano Guerra Mondiale, ma in fondo era sempre la stessa merda. Una promettente generazione di austriaci – i migliori figli della Patria – era venuta fin quassù a farsi trucidare in nome di un futuro che, con molta probabilità, non avrebbe visto mai. Jacob Roumann vedeva arrivare ragazzi carichi di ormoni e di ideali e, dopo qualche settimana di trincea, gli sembravano dei vecchi impauriti e rancorosi. E biasimava anche gli italiani dall’altro lato del fronte. Male equipaggiati e senza alcuna preparazione bellica, erano mossi dal ricordo del loro Risorgimento. Spinti dall’esigenza di emulare i padri, i figli volevano ritagliarsi un ruolo nella Storia, senza intuire che, finita questa guerra, prima o poi ne sarebbe arrivata un’altra e la Storia stessa li avrebbe dimenticati.
E lui? Cosa ci faceva lì? Se lo chiedeva sempre più di frequente.
Quel 14 aprile compiva trentadue anni e si rendeva conto che, fra tutti i paradossi, il più clamoroso era proprio lui. Sono un ossimoro, si ripeteva.
Jacob Roumann, medico di guerra.
Nel delirio collettivo di uomini stremati dalla fatica e dalle sofferenze, il dottore si aspettava che qualcuno – almeno uno – recuperasse un po’ di senno e, alzandosi da una trincea, si mettesse a urlare che tutto questo era semplicemente stupido. Forse allora l’incantesimo si sarebbe spezzato e tutti avrebbero compreso quella follia e se ne sarebbero tornati alle proprie città, dalle proprie famiglie.
Jacob Roumann, però, non aveva nessuno da cui tornare. Sua moglie l’aveva lasciato per un altro uomo. Gliel’aveva comunicato con una lettera di poche righe che gli era pervenuta solo da una settimana, anche se lei l’aveva scritta otto mesi prima. Otto mesi in cui lui aveva creduto di essere amato. Otto mesi passati a desiderare il letto nel suo appartamento, a Vienna. Le sue pantofole accanto alla porta d’ingresso. La sinfonia del silenzio diretta magistralmente dalla pendola del soggiorno mentre leggeva un libro. Perché se riesci a sopravvivere a una guerra, la ricompensa non è essere vivo ma poter tornare a casa.
Un colpo di obice partito dal versante dolomitico occupato dagli italiani risuonò fra le cime. Jacob Roumann si ridestò dai suoi pensieri: la breve tregua era finita. Di lì a qualche secondo, il loro esercito avrebbe risposto a quel primo sparo e la macchina bellica si sarebbe rimessa lentamente in moto. Erano scaramucce preliminari, in vista di un’altra notte senza sonno. Aveva letto da qualche parte che, per via della pressione a cui sono sottoposti, i soldati non sognano. Perciò l’unico modo per evadere dalla realtà è morire.
Jacob Roumann fissò il giovane che era appena spirato sotto le sue mani. Non voleva mai sapere i nomi, non lo interessavano. Tanto li avrebbe dimenticati, così come dimenticava i volti e i motivi per cui se n’erano andati.
Era altro che conservava di loro.
Prese dalla tasca un libriccino nero, un’agenda del 1916 con le pagine consumate e macchiate di sangue o di lubrificante per fucili. Le sfogliò fino a giungere al 14 aprile. Consultò l’orologio da taschino e con un lapis aggiunse un’altra voce a un elenco che riempiva quasi tutto il foglio.
Ore 20.07. Soldato semplice: «Appare».
Aveva appena terminato l’appunto, quando riconobbe il rumore inconfondibile degli scarponi del sergente. Era sicuro che fosse venuto a convocarlo per conto del maggiore.
«Dottore, seguitemi per favore», esordì senza neanche salutare. «C’è bisogno di voi.»
«Ah, sì? E a chi devo salvare la vita stavolta?» chiese Jacob Roumann, facendo cadere ironicamente lo sguardo sul giovane cadavere.
La risposta del sergente fu priva di sarcasmo. «A un nemico.»
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore e regista pugliese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Donato Carrisi.