Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Duma Key di Stephen King, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 12,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 7,99.
Duma Key: trama del libro
Dopo che una gru si abbatte sul suo pickup, Edgar Freemantle deve far fronte a una vita diversa. Devastato nel fisico, e non solo, dapprima cerca di accoltellare la moglie e poi di strangolarla con la mano sinistra (l’altra mano l’ha persa, con tutto il braccio destro, nell’incidente). Apparentemente ristabilito, lascia le sue proprietà alle due figlie e alla moglie, che ha deciso di divorziare da lui, e si stabilisce su una solitaria e paradisiaca costa della Florida, Duma Key, dove affitta una grande villa rosa sulla spiaggia. Proprietaria di tutta la zona è l’anziana Elizabeth Eastlake, una signora non del tutto lucida che allerta subito Edgar di un grande pericolo che lo minaccia. Intanto Edgar si scopre una dote inaspettata di pittore: i quadri che comincia a dipingere, specie quando il braccio amputato gli procura delle sensazioni fantasma, rivelano un talento eccezionale, non solo dal punto di vista artistico… Proprio quando la sua vita sembra ricomporsi, anche grazie alla comprensione della ex moglie e al costante affetto delle figlie, che lo sostengono a distanza nella sua nuova attività artistica, il passato di Elizabeth viene a interferire violentemente con il presente di Edgar.
Devo dirlo: lassù sono stato un vero eroe del sogno americano. Ho dato la scalata alla ditta dove avevo cominciato e, quando sono rimasto senza altri gradini da salire, me ne sono andato e ho avviato un’attività mia. Il grande capo mi rise in faccia, disse che mi sarei trovato al verde in meno di un anno. Credo che sia quello che dicono quasi tutti i grandi capi quando uno dei loro giovani rampanti li pianta per mettersi in proprio.
A me tutto è girato per il verso giusto. Il boom edilizio dell’area Minneapolis-St. Paul fu anche il boom della Freemantle Company. Nei momenti di difficoltà non cercavo mai di forzare la situazione. Ma scommettevo sulle mie intuizioni e il più delle volte ci azzeccavo. Compiuti cinquant’anni, con mia moglie Pam avevamo un patrimonio che si aggirava sui quaranta milioni di dollari. E tra noi reggeva ancora. Avevamo due figlie e, alla fine della nostra personale età dell’oro, Ilse era alla Brown e Melinda insegnava in Francia in un programma di scambi internazionali. Quando è successo il casino, io e mia moglie avevamo in programma di andarla a trovare.
Ho avuto un incidente in un cantiere. È molto semplice: quando un pick-up, anche se è un Dodge Ram con tutti gli ammennicoli, litiga con una gru alta dodici piani, a smenarci è sempre il pick-up. Il lato destro del cranio mi si è solo crepato. Il lato sinistro mi è andato a sbattere duramente contro il telaio della portiera e mi si è fratturato in tre punti. O forse erano cinque. La mia memoria è migliorata, ma ancora non assomiglia neanche lontanamente a quella di prima.
I dottori definiscono quello che è successo alla mia testa un trauma da contraccolpo, e spesso provoca più danni della botta originale. Ho avuto le costole spezzate. L’anca destra sgretolata. E sebbene abbia conservato il settanta per cento della vista dall’occhio destro (qualcosa di più nelle giornate buone), da quella parte ho perso il braccio.
Avrei dovuto perdere la vita, ma non è andata così. A causa del contraccolpo sarei dovuto rimanere mentalmente menomato e all’inizio lo ero, ma è passata. Su per giù. Quando ho ripreso le mie facoltà, mia moglie se ne era andata e non solo su per giù. Eravamo sposati da venticinque anni, ma sapete come si dice: il mondo gira. Ma non fa niente, credo, quel che è finito è finito. Alle volte è anche meglio così.
Quando parlo di menomazione, intendo che all’inizio non sapevo chi fossero le persone, nemmeno mia moglie, o che cosa fosse accaduto. Non capivo perché sentissi così male. Ora non ricordo la qualità di quel dolore, passati quattro anni. So che era lancinante, che lo subivo, ma è tutto molto accademico. Non era accademico allora. Allora era come essere all’inferno e non sapere perché c’eri.
All’inizio avevi paura di morire, poi avevi paura di continuare a vivere. È così che dice Wireman, e lui sa di cosa parla, ha passato la sua personale stagione all’inferno.
Mi faceva male tutto, sempre. Ero torturato da un mal di testa costante. Dietro la fronte, nel negozio di orologi più grande del mondo, era sempre mezzanotte. Siccome l’occhio destro mi era andato alla malora, vedevo il mondo attraverso una pellicola di sangue e nemmeno sapevo che cosa fosse il mondo. Niente che avesse un nome. Ricordo un giorno in cui Pam era nella mia stanza – ero ancora in ospedale – ed era in piedi di fianco al letto. Mi faceva girare tremendamente le palle che stesse in piedi quando c’era quella cosa fatta apposta, laggiù nell’angolo.
«Prendi l’amica», le ho detto. «Porta l’amica.»
«Non capisco, Edgar», ha risposto lei.
«L’amica, la socia!» mi sono messo a gridare. «Porta qui quella serva del cazzo, pazza di stronza!» La testa mi stava uccidendo e lei si stava mettendo a piangere. L’ho odiata per questo. Non aveva motivo di piangere, perché non era lei quella nella gabbia a guardare tutto attraverso una foschia rossa. Non era lei la scimmia in gabbia. Poi mi è tornato alla mente. «Porta qui quella serva e per l’amor del cielo mettiti a vedere!» È stato quanto di più vicino il mio cervello sgangherato e incasinato riuscisse a trovare per sedia.
Ero sempre arrabbiato. C’erano due infermiere più anziane che chiamavo Fica Secca Uno e Fica Secca Due, come personaggi di un Dr. Seuss versione sporca. C’era una volontaria che chiamavo Cialdina Rivestita; non so perché, ma anche quel soprannome aveva uno sfondo sessuale. Almeno per me. Diventando più forte, ho cominciato a cercare di picchiare il prossimo. Due volte ho tentato di accoltellare Pam e la prima ci sono anche riuscito, però solo con un coltello di plastica. Ha dovuto comunque farsi mettere due punti al braccio. C’erano giorni in cui dovevano immobilizzarmi.
Ecco che cosa ricordo con maggiore chiarezza di quella parte della mia altra vita: un caldo pomeriggio sul finire del mio soggiorno nel costoso convalescenziario, l’impianto di condizionamento che non funziona, immobilizzato nel mio letto, una soap opera alla TV, mille campane che mi suonano nella testa, dolore che mi brucia nel fianco destro come un attizzatoio, prurito al braccio destro che non ho più, movimenti convulsi delle dita della mano destra che non ho più, niente più OxyContin per un po’ (non so per quanto perché a calcolare il tempo non ce la faccio), e un’infermiera che emerge dal rosso, una creatura che viene a guardare la scimmia in gabbia, e l’infermiera dice: «È pronto a ricevere sua moglie?» E io dico: «Solo se ha portato una pistola per ammazzarmi».
Uno pensa che un dolore come quello non possa passare, invece passa. Poi ti spediscono a casa e te lo sostituiscono con le pene della riabilitazione. Il velo rosso davanti all’occhio ha cominciato a dissolversi. Uno psicologo specializzato in ipnoterapia mi ha insegnato qualche simpatico trucchetto con cui contrastare i dolori e i pruriti fantasma nel braccio mancante. Era Kamen. È stato Kamen a portarmi Reba: una delle poche cose che ho portato con me quando sono passato zoppicando dalla mia altra vita in quella che ho vissuto a Duma Key.
«Questa non è una terapia psicologica approvata per il trattamento dell’aggressività», mi ha detto il dottor Kamen, ma è possibile che mi abbia mentito per rendermi Reba più attraente. Mi ha esortato a darle un nome odioso, anche se somigliava a Lucy di Lucy ed io, così io l’ho battezzata con il nome di una zia che quand’ero piccolo mi pizzicava le dita se non mangiavo tutte le mie carote. Poi, neanche due giorni da quando me l’aveva regalata, mi sono dimenticato come si chiamava. Mi venivano in mente solo nomi maschili, ciascuno dei quali mi faceva arrabbiare di più: Randall, Russell, Rudolph, addirittura River ’fanculo Phoenix.
Ormai ero di nuovo a casa. È arrivata Pam con la colazione e deve aver interpretato la mia faccia, perché ho visto subito che si preparava a subire una crisi di collera. Ma io, anche se avevo dimenticato il nome della mia soffice bambola rossa antirabbia, mi sono ricordato come dovevo usarla in quella situazione.
«Pam», ho detto, «ho bisogno di cinque minuti per ritrovare la calma. Lo posso fare.»
«Sei sicuro…»
«Sì, tu porta via il prosciutto e mettilo dove ti pare. Lo posso fare.»
Non sapevo se lo potevo fare o no, ma era quello che dovevo dire. Non ricordavo il nome di quella bambola del cazzo, ma ricordavo lo posso fare. Questo è chiaro del periodo finale della mia altra vita, come continuassi a dire lo posso fare anche quando sapevo che non era così, anche quando sapevo che ero fottuto, ero doppiamente fottuto, anche se sapevo che ce l’avevo nel culo lungo e duro.
«Lo posso fare», ho detto e Dio sa che faccia avevo, perché lei è uscita senza una parola, con il vassoio ancora in mano e la tazza che tintinnava contro il piatto.
Dopo che se ne è andata, mi sono messo la bambola davanti alla faccia a fissarla in quegli stupidi occhi blu mentre il mio pollice scompariva nel suo stupido corpo cedevole. «Come ti chiami, brutto muso di troia?» mi sono messo a gridare. Non ho pensato che Pam potesse ascoltare dall’interfono in cucina, lei e l’infermiera di giorno. Ma, parliamoci chiaro, se l’interfono fosse stato guasto avrebbero potuto sentirmi attraverso la porta. Quanto a voce, quel giorno ero molto in forma.
Mi sono messo a scrollare la bambola. La testa ha preso a sbatacchiare da una parte e dall’altra con quei capelli rossi da Lucy che svolazzavano di qua e di là. I suoi occhioni blu da cartone animato sembravano dire: Uuuh, cattivo!
«Come ti chiami, bastarda? Come ti chiami, troia? Come ti chiami, squallido cencio plasticoso? Dimmi come ti chiami! Dimmi come ti chiami! Dimmi come ti chiami o ti strappo gli occhi e ti stacco il naso con un morso e ti squarcio…»
In quel momento la mia mente ha cliccato, una cosa che succede ancora adesso, a distanza di quattro anni, quaggiù a Tamazunchale, stato di San Luis Potosí, nazione del Messico, luogo della terza vita di Edgar Freemantle. Per un momento mi sono trovato sul mio pick-up, con il blocco a molla che urtava il mio vecchio portavivande d’acciaio sul fondo della macchina dalla parte del passeggero (dubito che fossi l’unico milionario lavoratore d’America a girare con un portavivande, ma è probabile che ci si possa contare sulle dita di due mani), e il mio laptop sul sedile di fianco. E dalla radio una voce femminile intonava «Era ROSSO!» con fervore evangelico. Solo due parole, ma due bastavano. Era la canzone della povera donna che manda la bella figlioletta a fare la prostituta. Era Fancy di Reba McEntire.
«Reba», ho sussurrato e mi sono stretto la bambola al petto. «Tu sei Reba. Reba-Reba-Reba. Non lo scorderò più.» Invece l’ho dimenticato, la settimana dopo, ma quando è successo non mi sono arrabbiato. No. L’ho tenuta contro di me come un amorino, ho chiuso gli occhi e ho evocato il pick-up demolito nell’incidente. Ho visualizzato il mio portavivande d’acciaio che sbatteva contro il fermaglio d’acciaio del mio blocco a molla e ho sentito la voce femminile che esultava dalla radio con quello stesso fervore evangelico: «Era ROSSO!»
Il dottor Kamen ha detto che era una svolta promettente. Era entusiasta. Mia moglie è sembrata assai meno entusiasta e il bacio che mi ha posato sulla guancia era di quelli che si danno per diligenza. Credo che sia stato due mesi dopo che è venuta a dirmi che voleva divorziare.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore del Maine rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Stephen King.
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