Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Exit strategy di Walter Siti. Il romanzo è pubblicato in Italia da Rizzoli con un prezzo di copertina di 18,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Exit strategy: trama del libro
“Come se ne esce?” è la domanda che risuona più spesso in questi anni. Non solo dalla crisi economica ma dalla paralisi politica e istituzionale, e anche da quella vocazione al consumo superfluo e al piacere pronto-cassa che dopo aver caratterizzato gli anni ruggenti del berlusconismo rischia ora di lasciare sul campo tanti smarriti e depressi. Ogni mutamento profondo presuppone una conversione e un rimescolamento nella gerarchia dei desideri. In questo romanzo che seziona i giorni come un diario, Siti affronta la questione partendo da un’esperienza personale: racconta la propria uscita da un’ossessione erotica che sembrava eterna, e la propria conversione a qualcosa che sembra rappresentare il suo contrario, dal cielo drogato dei corpi artificiali alla terra di un amore umano troppo umano. A fare da contrappunto ci sono i capitoli della berlusconiade: dal sole in tasca al mesto tramonto, dal tintinnio delle farfalline al cane Dudù. Ritratto spietato dell’immobile frenesia italiana e insieme sincera autoanalisi di un tentativo di liberazione (con un simbolico trasloco da Roma a Milano e un addio altrettanto simbolico al mondo dei reality), il libro non offre ricette miracolose ma suggerisce che una via d’uscita esiste, almeno nel privato, e che le ossessioni si possono, se non sconfiggere, almeno addomesticare. Exit strategy è un romanzo che vive la vita del protagonista e dell’autore permettendo a chi legge un percorso di analogia – chiudendo il cerchio della Trilogia autobiografica con un’ultima disperata tentazione: la serena, responsabile misura.
Approfondimenti sul libro
Exit strategy è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 7,99.
La gente è ancora in preda a shopping compulsivo, non si rassegna che le feste siano finite; assediano Foot Locker e perfino la farmacia (compreranno tisane, tavolette dietetiche, zapatos anatomici, saponette a basso pH?); da Franchi in Cola di Rienzo hanno esposto un cartello, “saldi sul caviale”. Sconto del trenta per cento; del cinquanta sul capitone. Pare che le anguille lasciassero i fiumi europei per andare a riprodursi nel Mar dei Sargassi già centinaia di milioni di anni fa, quando era (per così dire) il mare sotto casa; poi la tettonica a placche e la deriva dei continenti hanno progressivamente allontanato il luogo d’affezione e adesso le anguille per accoppiarsi percorrono più di seimila chilometri. Di anno in anno allungavano un po’, senza accorgersi del cambiamento. “È così che ci si adatta”; “ti sbagli, è così che gli stupidi insistono anche quando non sarebbe più il caso”.
L’avvenimento è minimo, un derby all’Olimpico e le strade chiuse o intasate: impossibile secondo Marcello raggiungere casa mia («dall’Acqua Acetosa nun se passa e sotto la galleria me fanno sbucà manca poco a Ottavia, ma che so’ matti?»). Con l’amatriciana già pronta propongo percorsi alternativi, tornare indietro e scendere dai Parioli o addirittura l’Aurelia.
«Nun me va, a Wa’… ’n artro giorno a te che tte cambia?»
«Sei la solita sòla… vabbe’ rimandiamo a domani, dài.»
«Domani ce starebbero un po’ de impicci, giovedì sicuro…»
«Giovedì non ho tempo io, ormai la settimana prossima… o anche alla fine del mese, almeno risparmio.»
«Che stronzo! seh, mo’ a Pasqua… venerdì no?»
«Non lo so, ti chiamo nei prossimi giorni e ti faccio sapere.»
«Mica è colpa mia, oh… te sei incazzato, ve’?»
«Non è mai colpa tua.»
«Io so’ innocente de natura, l’hai pure scritto… porcoddue, me stanno a puntà i viggili, ciao ciao… chiama quanno te pare.»
Episodio minuscolo di una storia quasi decennale. Sofferenza, again? Ma cos’è che mi taglia il respiro in queste circostanze, santo dio? Che cosa mi viene a mancare, di che cosa ho tanta agonia? La scopata no, l’ho posseduto quasi cinquecento volte (quattrocentosettantanove, a esser precisi), posso ricostruire a memoria ogni posizione e ogni mucosa; né la conversazione di routine, né quei quattro sorrisi tirati via o le pose a vantare una forma più millantata che reale – magari qualche gocciolina di sudore sulla nuca fresca di barbiere.
Il primo dato empirico è che ho voglia di vomitare, mi butto sul letto a pancia sotto e l’idea di qualunque cibo mi disgusta; dunque la prima cosa che mi viene a mancare è l’appetito. Non solo di cibo, naturalmente: un’astenia più generale e vasta, basterebbe una telefonata e giovedì ci potremmo vedere, ma perché? A rinnovare che cosa di ormai fossile? È difficile inventarsi un amore se l’altro non collabora. Cosa chiedo, in definitiva, alla sua presenza? Non sarà per caso un’intercapedine? Mi manca di riempire quest’ora che avevo programmato di riempire con lui; mi manca che a lui quest’ora non manchi, che stia già viaggiando sul raccordo con un peso in meno. Se lui fosse qui, controllerei il movimento. Potrei, per un’ora, abitare uno spazio da cui il movimento è abolito.
Mi manca di occupare un tempo che quando io non ci sono lui dedica a quell’altro (che ho finto via via politico verde e antiquario ma che è semplicemente regista teatrale); la guerra è la vita della società, o come diceva Eraclito è la vita della vita stessa. Dunque se Marcello fosse qui potrei sentirmi in pausa dalla guerra e in vacanza dalla vita, sospeso sul mondo e isolato dalle cose; quando dico che lui mi riempie la settimana intendo dire in realtà che me la svuota, che mi libera dal tempo. Tutto scorrerebbe senza incidere; mi manca che, con lui qui, il mondo avrebbe uno scopo senza bisogno che altri lo condividano. Sotto il fastidio animale di un’abitudine turbata serpeggia un’inquietudine più filosofica; mi manca l’autorizzazione a disertare, la garanzia che non mi dimenticherà nei suoi percorsi (quelli ultraterreni, non quelli a San Basilio). Non mi manca il suo corpo ma la certezza della sua visitazione.
Marcello è un grande albero che fa ombra. “Gli angeli più intelligenti” scrive Swedenborg “hanno vesti scintillanti come fiamme; i meno intelligenti hanno vesti candide però senza splendore, e quelli che sono ancora meno intelligenti hanno vestiti colorati; ma gli angeli del cielo intimo sono nudi.” Il mio “non ho tempo” sa troppo di ripicca, la cosa più lontana dall’indifferenza che si possa immaginare. Eppure questo derby dovrò perfino ringraziarlo: sia perché mi ha fatto riprovare la sensazione piacevole (per me in questi ultimi tempi sempre più rara) di non saper controllare le mie emozioni, sia perché mi ha dimostrato che la morsa si sta allentando; che il lessico religioso usurato germoglia sempre più fiacco e la schiavitù impallidisce. Mi manca ciò che provavo cinque anni fa. Senza il potere taumaturgico della sua visita, ho pensato, stanotte non dormirò – invece ho dormito come un ghiro e mi sono svegliato con una musica in testa (“che mele, che mele! son dolci come il miele / son rosse, son grosse, son pronte da mangiar”). Ho sognato che Marcello era un ciliegio frondoso, incurante dei frutti che i ragazzi gli rubavano dai rami. Per lui non avere volontà è normale: domani sarò libero di convocarlo o no, non si stupirà comunque. “La volontà è il secchio rovesciato in cortile dal calcio distratto di un piede che passa.”
Tutto fila liscio fin che funziona la collaudata macchina gnostica: fin che Marcello è qualcos’altro, il suo posto nella mia vita è sicuro. Se dico «è una lente convessa, che concentra il suo fuoco su dettagli quotidiani e li santifica», o se lo leggo come un trattato sulla curvosità, un infinito anello di Moebius di cui è impossibile dipingere un lato senza dipingere l’intero, allora le molecole del suo corpo si trasferiscono nella zona dell’anima sottile e non mi è difficile riesumare alla memoria gli istanti di passione. Quand’ero così pieno di metafore (che lui mi dettava) da non temere le letteralità più crude – al punto che sulla terrazza dell’hotel Baglioni a Firenze un amico dovette moderarmi perché dai tavoli vicini appizzavano le orecchie, trascuravano la colazione e stavano già partendo frizzi e proteste. O quando sul lungomare di Venice toccammo insieme un serpente, credo un pitone accoccolato al sole tra le braccia di un fachiro hollywoodiano – quello stesso gesto, di toccare un serpente addormentato o una reliquia d’oro, ruvida e calda, lo replicai sul letto dell’albergo mentre Marcello guardava su un televisorino da pochi pollici un film di Harry Potter senza capire l’inglese. Il tremore della mano che non sapeva quando e dove posarsi, su quale gruppo di muscoli per non disturbarlo, il suo torpore e il mio batticuore, l’esotica tripudiante ipocrisia di esonerarsi dall’esito di nozze già approvate in cielo. O quando (finalmente posso raccontare quei pochi minuti che nel libro di viaggio ho dovuto censurare sotto un’ellissi pudica) Marcello si costruì il suo teatrino a trenta chilometri da Dubai, resort artificiale per una artificiale luna di miele – e sulla piattaforma rotante in vista del deserto mi rubò il cuore sborrando di fantasia, stropicciando e schiacciando sul materasso il poster gigante di una playmate che lui fingeva di trombare mentre ben altro era quel che sentiva e gridava («sì sì, j’oo sto a sbatte dentro, ah che bello sì… fammelo sentì dentro, bello grosso dài»), tra lo stupore degli orici.
Ma fuor di metafora, nella razionale prigione in cui Marcello non può negarsi come individuo socialmente determinato, compaiono gli incidenti e le stonature; a partire da quel guazzabuglio stridulo di spintoni e cambiali che ho provato a cancellare retrocedendolo al rango di incubo, ma la bisca me la ricordo bene, e le fotocopie con la falsa assicurazione dell’auto, e le minacce e le lacrime e il mio portafoglio barbaramente saccheggiato. O la cocaina a Bologna, quando mi chiusi in bagno per il martellare alle tempie – e il dolore al braccio trascinando la valigia alla stazione protrattosi nei giorni seguenti fin che la cardiologa non escluse l’infarto («se le fa male a premere, è più probabile la fitta intercostale»), e il fioretto di non ripetere l’esperimento mai più, io con le sinapsi ci lavoro. (Però però, che autentica quella premura marcelliana, «nun venì, dài» col calciatore terzo incluso, per timore che poi, data l’età, non potessi raddoppiare con lui.)
La sedicente realtà consequenziale e materiale m’ha regalato il peggio e il meglio, un gioco a nascondino da perfetto semidio. Ho conosciuto la sua verità d’uomo affettuoso: un escort non lo pulisci dalle feci quando si vergogna di chiamare l’infermiera. Ma se il cane dei proprietari (nella villa affittata per girarci una fiction sulla Uno bianca) gli annusa il culo mentre nudo ti sta inginocchiato davanti, come fai a non sentirti coinvolto in un sozzo girotondo di bestialità? Quante telefonate umilianti m’era costato quel piccolo ruolo, e lui lì a stuzzicare una sua ex per convincerla a concedersi ar Zagaja («mòllajela ’na vorta, porello, prima che je danno er definitivo»), sennonché lei si sottraeva perché quel pregiudicato lo trovava troppo atipico («e si m’ammazza?»). Questa vita che si crede intensa non la voglio più, ma non ho niente con cui sostituirla.
La falsa assicurazione costa solo cento euro e ti procura tutti i documenti per la polizia stradale, ma non ti garantisce contro i sinistri. Io mi sentivo più o meno così frequentando il suo ambiente, le bistecche extra size, gli sfottò in palestra davanti alla leg press, il Moulin Rouge sulla Portuense (“indossa il preservativo, l’Aids uccide” su un cartello, e sotto a pennarello “mejo, che finimo prima”), il rumeno con un arnese enorme («oggi m’è piaciuto, oh, l’ho detto»). Le serate tossiche dedicate al travestimento.
«Me so’ acchittato, ho fatto ’a lampada, me so’ levato pure er pelo…»
«Ma non il vizio…»
«Stasera i negri chi li porta?»
«E tu’ moje?»
«Meno ’a vedo, mejo sto.»
«Quella mica piscia da ’e ginocchia, ha sgamato… se dà dda fà pure lei, t’oo dice ’n ignorante.»
«Cià i jeans co’ ’a vita tarmente bassa che si se strigne ’a fibbia se fa ’n ditalino…»
Le treccione bionde tirolesi di Fausto e Maurizio, i due gemelli barbarians, e il sogno in cui Chiara ci spiava dal fondo buio della stanza avendo accanto un obeso florido, eppure Marcello mi tranquillizzava «è ’na fase nòva der matrimonio, nun te preoccupà». La violenza e l’ingiustizia incarnate nei suoi quadricipiti gonfi come tascapani di nuvole, erotomania quale superamento dell’umano; ma l’incarnazione sempre più irrancidita e risaputa in una tavola d’equivalenze lacunosa, sempre più insidiata dalla noia di quei viaggi con un unico obiettivo – a Praga non s’è nemmeno accorto che ci fosse un fiume. Che rumore fa un assoluto che cade?
“Mica sarai così nazista da mollarlo perché invecchia?”
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore modenese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Walter Siti.
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