Corredata da un’ampia anteprima, ecco la trama di Fame di Roxane Gay, romanzo edito il 6 marzo 2018 da Einaudi con un prezzo di copertina di 17,50 euro (9,99 euro per l’ebook).
Fame: trama del libro
In principio è il candore dei dodici anni. Quando pensi che nessuno a cui vuoi bene possa farti del male. Poi succede l’impensabile. Un atto di violenza feroce. E Roxane, annientata dalla vergogna, incapace di parlare o chiedere aiuto, comincia a mangiare, mangiare, mangiare. A barricarsi in un corpo che diventa ogni giorno piú inespugnabile dagli sguardi maschili, una fortezza dove nessuno sarà piú capace di raggiungerla. Quella di Roxane Gay è la storia di un desiderio insaziabile, di battaglie sempre perse contro un corpo ammutinato, di una lotta contro una cultura che spinge le donne a odiarsi se non corrispondono alle aspettative.
Ma la fame di Roxane Gay è anche il motore della sua fenomenale spinta creativa e della sua sulfurea personalità. Oggi è un’intellettuale, attivista e scrittrice, una delle voci piú rispettate della sua generazione. Soprattutto una donna che ha trovato le parole per raccontare la propria storia.
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Dio, quanto vorrei poter scrivere un libro sul trionfo di una dieta dimagrante e su come ho imparato a convivere con i miei demoni. Quanto vorrei poter scrivere un libro sulla pace che provo e il bene assoluto che mi voglio, qualunque sia la mia taglia. Invece di libro ho scritto questo, ed è stata l’esperienza di scrittura piú difficile della mia vita, molto ma molto piú impegnativa di quel che avrei mai potuto immaginare. Quando mi sono prefissa di scrivere Fame, ero sicura che trovare le parole sarebbe stato facile, come mi succede di solito. E cosa poteva esserci di piú facile che scrivere del corpo in cui vivo da oltre quarant’anni? Invece mi sono presto resa conto che stavo non solo scrivendo una storia del mio corpo, ma costringendomi a guardare ciò che il mio corpo ha sopportato, il peso che ho messo su e l’enorme difficoltà che ha rappresentato sia convivere con quel peso sia perderlo. Sono stata costretta a guardare i miei segreti piú colpevoli. Mi sono dissezionata. Aperta. Non è comodo. Non è facile.
Vorrei avere la forza e la volontà necessarie per raccontarvi la storia di un trionfo. Le sto cercando, quella forza e quella volontà. Sono determinata a essere piú del mio corpo: piú di ciò che il mio corpo ha tollerato, di ciò che è diventato. La determinazione, però, non mi ha portato molto lontano.
Questo libro è una confessione. Ecco le parti piú brutte, deboli e scoperte di me. Ecco la mia verità. Ecco una storia del mio corpo, perché spesso le storie dei corpi come il mio vengono ignorate, liquidate in due parole o derise. La gente vede corpi come il mio e fa le sue deduzioni. Crede di conoscere il perché del mio corpo. Non lo conosce. Questa non è la storia di un trionfo, ma è una storia che chiede di essere raccontata e merita di essere sentita.
Questo è un libro sul mio corpo, sulla mia fame e, in ultimo, sullo scomparire e perdersi e voler essere visti e capiti, volerlo con tutte le proprie forze. È un libro sull’imparare, anche lentamente, a concedersi di essere visti e capiti.
Per raccontarvi la storia del mio corpo, vi dico quanto sono arrivata a pesare? Vi dico quel numero, quella verità vergognosa che mi strangola ininterrottamente? Vi dico che sí, lo so che non dovrei considerare vergognosa la verità del mio corpo? O mi limito a dirvi la verità e intanto trattengo il respiro e aspetto il vostro giudizio?
Il massimo peso a cui sono arrivata è stato duecentosessanta chilogrammi, e io sono alta un metro e novanta. È un numero sconcertante, ma a un certo punto questa è stata la verità del mio corpo. Scoprii quel numero alla Cleveland Clinic di Weston, in Florida. Non so come avessi fatto a perdere il controllo fino a quel punto, ma era successo.
Mio padre venne con me alla Cleveland Clinic. Non avevo ancora trent’anni. Era luglio. Fuori faceva caldo, era afoso e verdissimo, lussureggiante. In clinica, l’aria era gelida e antisettica. Tutto era liscio, di legno pregiato e marmo. Pensai: Ma guarda tu come passo le vacanze.
C’erano sette persone nella sala riunioni – una sessione di orientamento in vista dell’intervento chirurgico per mettere un bypass gastrico: due tizi grassi, una donna lievemente sovrappeso e il suo smilzo marito, due individui in camice e un altro donnone. Mentre osservavo chi mi stava intorno, facevo quello che i grassi tendono a fare quando si trovano con altri grassi: mi prendevo le misure in rapporto alle loro. Ero piú grossa di cinque persone, piú «magra» di due. Almeno, cosí mi dicevo. Per duecentosettanta dollari, trascorsi buona parte della giornata ad ascoltare i benefici che mi avrebbe dato alterare drasticamente la mia anatomia in modo da perdere peso. Era «l’unica terapia efficace contro l’obesità», dicevano i medici. Che erano medici, appunto. Si supponeva sapessero cos’era meglio per me. Volevo credere a quello che dicevano.
Uno psichiatra ci radunò per dirci in cosa consisteva la preparazione all’intervento, come affrontare il cibo una volta che i nostri stomaci fossero diventati piccoli come un pollice, come accettare che le «persone normali» (parole sue, non mie) quando venivano a trovarci potessero cercare di sabotare il nostro dimagrimento perché erano bloccate nell’idea di noi in quanto grassi. Venimmo a sapere che i nostri corpi sarebbero stati privati di nutrienti per il resto della vita, che non saremmo mai riusciti a mangiare se nell’ultima mezz’ora avevamo bevuto o viceversa. I nostri capelli si sarebbero diradati, forse sarebbero caduti. Saremmo stati piú predisposti alla sindrome da dumping, cioè da «svuotamento», e non ci vuole chissà quale immaginazione per decifrare un nome del genere. E naturalmente c’erano i rischi chirurgici. Avremmo potuto morire sul tavolo operatorio o prenderci un’infezione nei giorni successivi all’operazione.
Era uno scenario alla «prima la brutta notizia, poi la buona». La brutta notizia: le nostre vite e i nostri corpi non sarebbero mai piú stati gli stessi (sempre che fossimo sopravvissuti all’intervento). La buona notizia: saremmo stati magri. Avremmo perso il 75 per cento del peso in eccesso entro il primo anno. Saremmo diventati quasi normali.
Ciò che quei medici ci offrivano era una seducente tentazione: l’idea che ci sarebbe bastato dormire qualche ora per risolvere i nostri problemi nel giro di un anno dal risveglio, almeno secondo l’establishment medico. Questo, ovvio, se avessimo continuato a illuderci che il corpo era il nostro piú grande problema.
Dopo la presentazione ci fu una serie di domande e risposte, ma la donna alla mia destra, la donna che chiaramente non aveva nessun bisogno di stare lí perché era in sovrappeso di quindici-venti chili, dominò la sessione, ponendo quesiti intimi, cosí personali da spezzarmi il cuore. Mentre interrogava i medici, suo marito sedeva accanto a lei con un sorrisetto sulle labbra. Ecco perché quella donna era lí. Per il marito, e per come lui vedeva il suo corpo. Che tristezza, pensai, scegliendo di ignorare il motivo per cui mi trovavo nella stessa stanza, scegliendo di ignorare che c’erano moltissime persone nella mia vita che vedevano il mio corpo ben prima di vedere o considerare me.
Piú tardi, i medici ci fecero vedere alcuni video dell’intervento: telecamere e strumenti chirurgici in viscide cavità interne che tagliavano, spingevano, chiudevano, rimuovevano parti essenziali dell’anatomia umana. Le interiora erano rosso acceso e rosa e gialle. Uno spettacolo grottesco, che metteva i brividi. Mio padre, alla mia sinistra, era cinereo, evidentemente scosso da quelle immagini brutali. «Che ne pensi?» mi chiese a bassa voce. «Che è un freak show», dissi. Lui annuí. Era la prima cosa su cui fossimo d’accordo dopo anni e anni. Poi il video finí e il medico sorrise e cinguettò che si trattava di una procedura breve, eseguita in laparoscopia. Ci assicurò di aver fatto personalmente piú di tremila operazioni e perso un solo paziente. Un uomo di trecentottanta chili, disse con la voce che si affievoliva in un sospiro di scusa, come se la vergogna del corpo di quell’uomo non si potesse dire a pieni polmoni. Poi ci comunicò il prezzo della felicità: venticinquemila dollari meno duecentosettanta di sconto; una volta avviata la procedura, quanto avevamo versato per la sessione di orientamento sarebbe stato considerato una cauzione.
La tortura non era ancora finita: ebbi un consulto a tu per tu con il medico in uno studio privato. Prima che entrasse lui il suo assistente, un internista, si segnò i miei parametri vitali. Fupesata, misurata, giudicata in silenzio. L’internista mi auscultò, sentí i linfonodi della gola, prese qualche altro appunto. Finalmente, dopo mezz’ora entrò il medico, tutto allegro. Mi guardò in lungo e in largo. Diede un’occhiata alla mia cartella nuova di zecca, sfogliandone rapidamente le pagine. «Sí, sí, – disse. – Lei è la candidata ideale per l’intervento. Glielo prenotiamo subito». Dopodiché scomparve. L’internista mi diede le impegnative per i test preliminari che avrei dovuto fare, e me ne andai con una lettera in cui si attestava che avevo completato la sessione di orientamento. Era chiaro che ne facevano ogni giorno. Non ero unica. Non ero speciale. Ero un corpo, un corpo da riparare, e siamo in tanti al mondo a vivere in corpi cosí totalmente umani.
Mio padre, che era rimasto ad aspettarmi nell’atrio ben arredato, mi posò una mano sulla spalla. «Non sei ancora a questo punto, – disse. – Un po’ di autocontrollo. Ginnastica due volte al giorno. Non ti serve altro». Concordai annuendo con vigore, ma piú tardi, sola in camera mia, lessi attentamente la brochure che mi avevano dato, incapace di distogliere lo sguardo dalle immagini del prima e del dopo. Volevo e voglio ancora quel dopo, con tutta me stessa.
E ricordai il risultato una volta che mi avevano pesato e misurato e giudicato, quel numero incomprensibile: duecentosessanta chili. Pensavo di aver conosciuto la vergogna nella mia vita, ma quella notte conobbi la vergogna vera. Non sapevo se avrei mai trovato la via per superare quella vergogna e arrivare a un luogo in cui sarei stata capace di affrontare il mio corpo, accettare il mio corpo, cambiare il mio corpo.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Roxane Gay.
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