Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di I fantasmi di pietra di Mauro Corona. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 11,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
I fantasmi di pietra: trama del libro
Erto. Un paese abbandonato, silenzioso, fermato in un’istantanea il 9 ottobre 1963, quando il fianco del monte Toc precipitò nell’invaso del Vajont. Eppure quelle case, quelle cucine, quelle stalle, di cui restano solo i muri insidiati dall’abbraccio delle edere e delle ortiche, sono ancora abitate. È una popolazione di fantasmi che Mauro Corona suscita ripercorrendo porta a porta, casa per casa, le quattro strade deserte che un tempo risuonavano di voci, del rumore degli strumenti di lavoro, della vita di ogni giorno. Una tazza, una falce, una gerla, un secchio da mungitura, una bottiglia lasciata a metà di quel vino che dava forza e smemoratezza, ogni oggetto richiama in vita, nella memoria dell’autore, un personaggio, un fatto buffo o tragico, una leggenda, una storia d’amore o di terrore. Ne nasce un racconto commovente ed esaltante che si snoda lungo l’arco delle quattro stagioni mentre uomini, animali, piante e cose, ognuno riaccende la propria scintilla di vita.
Approfondimenti sul libro
In ebook I fantasmi di pietra (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Allora rinunciavano a difendersi, si lasciavano andare, non era più tempo di stagionatura. Quello era l’attimo da sottrarli al sole e metterli nel buio delle soffitte fino al ritorno della luna di gennaio, per poi esporli di nuovo con le facce a settentrione o a ponente. Almeno due anni, ci volevano, per tirare un legno come si deve. Due anni di pazienza e cure attente, come invecchiare un vino. Meglio ancora se gli anni erano tre. Oggi non usa più, quei gesti sono passati, tra qualche tempo saranno remoti, forse lo sono già. Di tutto quello che fu vita, lavoro, tradizione, cultura, non vi è rimasta traccia. Del mio vecchio paese resta soltanto un buon odore di pietra morta e muschio. E basta.
Percorro d’inverno con le mani in tasca le antiche vie di ciottoli, tra le case di sasso bianco rimaste in piedi dopo oltre quarant’anni di abbandono. Sulle altre, quelle ormai finite in terra, passo scavalcando macerie. Travi di larice rosso sangue ancora sani dopo quattrocento anni, squadrati a colpi d’ascia, occhieggiano semisepolti dalle pietre scalpellate provenienti dal monte Borgà. Su tutto trionfano l’ortica secca e sambuchi scheletriti. La foresta torna a riprendersi il territorio, ricresce là, dove l’uomo l’aveva estirpata per fare casa e orti. Anche d’inverno le ortiche resistono, pungono. Selve di steli disseccati emergono dai sassi. Rigidi, sottili, cattivi, non cedono nemmeno al vento, vivono tra i fantasmi di pietra, tengono compagnia alle case abbandonate. C’è ancora qualche vecchio, pochi, rari come i cuculi a marzo. Hanno sguardi malinconici, la tristezza trapela, non c’è verso di scacciarla, chiudono occhi acquosi che non sorridono più. È strano, ho l’impressione di sentire ancora voci di bambini. Girano tra le case abbandonate, attorno alle macerie di quelle crollate, sul sagrato della chiesa, che resiste nonostante sia stata spogliata di tutto. Emana quell’aria di mistero, di santità, di presenza divina che hanno le vecchie chiese e che nessun tempo o mano umana riusciranno a soffocare. Che ne sarà in futuro del vecchio paese? La desolazione circola tra le case, salta dentro finestre vuote, perlustra i sottoscala, percorre cortili, s’arrampica sui meli, spia, accarezza. Si leva il vento dell’inverno. Come un tempo. Qualche porta sbatte. Molte case non ci sono più, ma il vento è sempre lo stesso. La pietra messa a pavimento resiste al passare degli anni, quelle dei muri poste una sull’altra se non sono accudite, amate, riscaldate, cadono. “Un peso deve cadere altrimenti non è un peso” scrisse Carlo Michelstaedter prima di spararsi. Era la sera del 17 ottobre 1910. Gli erano cadute addosso le pietre della vita. Senza amore non si resiste al vagito del tempo, che è sempre giovane, sempre passato. Non si regge al suo sbadiglio contagioso che ci porta il grande sonno. Il mio caro, vecchio paese si lascia morire per mancanza d’affetto, si sta suicidando per abbandono. Partire per un viaggio in pieno inverno a mani in tasca non è facile. Eppure è un viaggio di nemmeno un chilometro.
Inizia dalla parte a valle del villaggio. La via bassa guarda il Vajont che ha ripreso la sua antica voce. Non c’è più l’acqua della diga. Incontro un turista infreddolito, paonazzo. Indaga curioso, fa domande, cerca risposte che non so dare. Nella memoria vedo bambini, allora parlo di quelli. Ragazzini che scendono con slitte sul ghiaccio vivo. Ero tra loro. Si partiva dalla curva di Costa, all’imbocco della Val Zemola, tre chilometri più in alto. La fuga terminava sul greto del Vail che s’apriva la strada fumando la pipa nei lastroni ghiacciati, curvando nelle anse di vetro, saltando finestre di cristallo. Lungo questo scenario fiabesco, il fiato della valle usciva lento in grandi spirali, vapori di nebbia azzurrina salivano a carezzare il borgo San Martino depositando sulle case un sottile strato di fiorellini bianchi. Davanti alla chiesa di Beorchia si doveva curvare. Era una curva veloce, impegnativa. Soprattutto perché con la destra bisognava fare il segno di croce in velocità. Guai transitare di fronte la chiesetta senza segnarsi. «Tutti all’inferno» diceva mia nonna, «andrete tutti a Satana.» Quel gesto m’accompagna anche oggi. Ho dimenticato molte cose di quel tempo lontano. Mi sono scrollato via paure e tabù come il cane si scrolla l’acqua dal pelo. Ma farmi il segno di croce quando passo davanti una chiesa, un capitello o un’immagine sacra, è cosa che ancora conservo. È un gesto che m’aiuta a vivere, a sperare.
La chiesa oggi non ha più fiori, nessuno mette un vaso di gerani alla finestra. Lì accanto la fontana sbuca dalla roccia, l’acqua scorre adagio nella canaletta di marmo. Se ne ode appena il passo felpato. La sua voce è soffocata da vegetazione e sterpaglie di ogni specie. Le onnipresenti ortiche e il ghiaccio frenano quel suono che canta da oltre quattro secoli. «Un’acqua che fa venire la tosse pagana» dicevano i vecchi. Invece è buona. Se uno si siede e ascolta capirà che non vi è musica più bella di una fontana che scorre, così come la voce dei torrenti, o il vento tra gli alberi. O quando lo stesso fa suonare i flauti delle gole rocciose.
Dalla chiesa proseguo verso l’alto, l’antica strada larga e massicciata è ormai solo un sentiero. Incontro una casa, un tempo era “la Villa”, con portico ad archi e torretta. Di quella grande casa ora esistono solo i muri portanti, il resto è crollato. Alla mia destra altri muri solitari, vuoti, senza tetto, né solai, né porte né finestre di legno. Comincia il viaggio tra i ruderi, nel nulla, dentro le stanze morte di abitazioni che un tempo ebbero calore, vita, un camino acceso, famiglie unite. Era gente povera ma rideva, s’accontentava di poco. La povertà consolida gli affetti, fa voler bene. A sinistra, la discarica all’aperto della nostra infanzia dove io, Silvio, Carle, Meto e gli altri si andava a cercar tesori. Oggi è coperta da salici e ontani. È inverno, sono scheletriti. Non avevamo molta fortuna, non erano tanti gli oggetti da buttare a quel tempo. La discarica è pulita, liscia, raspata dall’acqua e dal ghiaccio che hanno riportato alla luce lo splendido acciottolato di pietra lavorata. Oggi rottamiamo molte più cose, infinitamente più cose. Robe utili, ancora buone, adoperabili. Ma non si buttano più nella nostra discarica. Per questione d’igiene, si scaricano nei cassonetti dove si può trovare di tutto. Nelle città anche bambini appena nati. Se voglio un televisore, basta che rovisti nei cassonetti. Non dico al primo, ma al quarto, mi porto a casa un buon apparecchio a colori. Che tempi! Provo a immaginare cosa sarebbe successo nel 1962 o ’63 se, nella nostra discarica, Silvio e io avessimo trovato un televisore funzionante. Non oso immaginarlo. Rottamare è il verbo del terzo millennio. Rottamare oggetti ancora buoni, perfettamente funzionanti, a favore di pezzi uguali solo più moderni.
Una rampa di pochi metri con scalini in pietra grigia mi porta all’inizio della via San Rocco. A destra l’altra fontana, una grande vasca di marmo rosso, scavata quasi un secolo prima dal mitico scalpellino Jaco dal Cuch. Fonda più di un metro, larga un altro, lunga due, piena d’acqua fresca, pulita. È là, che aspetta qualcuno che vada ad attingere. Ma nessuno pone il secchio sui ferri, sotto il getto abbondante. A sinistra lo sfacelo. L’intera fila di case, attaccate una all’altra, è distrutta. Restano solo i muri. Case dove ferveva un brulichio di vita sono morte. Ricordo le coetanee, compagne di scuola, i vecchi artigiani che d’estate lavoravano all’aperto. La bottega del calzolaio, morto nel Vajont perché quella sera si trovava alla frazione Spesse. Un brav’uomo che m’insegnò a fare navi e uccelli in volo, usando corna di vacche fatte bollire. Fece appena in tempo. Era molto bravo a modellare le corna di mucca. Le porte di quelle case sono cadute dai cardini, divelte dal tempo e dalle intemperie. Il vento entra, fa scricchiolare le madie piene di memorie e di tarli, cassetti sconnessi e tavoli sghembi tremano. Stufe di maiolica e ghisa giacciono sfasciate sui pavimenti, corrose dal salnitro del tempo, arrugginite e mute. Nelle loro pance, dove una volta ardeva il fuoco, ora abita un grumo solido di cenere e calcinacci coperto di ghiaccio e neve indurita, che diverrà poltiglia col disgelo di primavera. Da un vecchio fornello stacco un piccolo ovale di ceramica con la scritta: “Fabbrica cucine Vittorio Zadra, Longarone”.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Mauro Corona. Qui potete trovare il nostro articolo dedicato a tutti i libri di Mauro Corona.
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