Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La fine del mondo storto di Mauro Corona. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 18,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La fine del mondo storto: trama del libro
Un giorno il mondo si sveglia e scopre che sono finiti il petrolio, il carbone e l’energia elettrica. È pieno inverno, soffia un vento ghiacciato e i denti aguzzi del freddo mordono alle caviglie. Gli uomini si guardano l’un l’altro. E ora come faranno? La stagione gelida avanza e non ci sono termosifoni a scaldare, il cibo scarseggia, non c’è nemmeno più luce a illuminare le notti. Le città sono diventate un deserto silenzioso, senza traffico e senza gli schiamazzi e la musica dei locali. Rapidamente gli uomini capiscono che se vogliono arrivare alla fine di quell’inverno di fame e paura, devono guardare indietro, tornare alla sapienza dei nonni che ancora erano in grado di fare le cose con le mani e ascoltavano la natura per cogliere i suoi insegnamenti. Così, mentre un tempo duro e infame si abbatte sul mondo intero e i più deboli iniziano a cadere, quelli che resistono imparano ad accendere fuochi, cacciare gli animali, riconoscere le erbe che nutrono e quelle che guariscono. Resi uguali dalla difficoltà estrema, gli uomini si incammineranno verso la possibilità di un futuro più giusto e pacifico, che arriverà insieme alla tanto attesa primavera. Ma il destino del mondo è incerto, consegnato nelle mani incaute dell’uomo… Mauro Corona ancora una volta stupisce costruendo un romanzo imprevedibile. Un racconto che spaventa, insegna ed emoziona, ma soprattutto lascia senza fiato per la sua implacabile e accorata denuncia di un futuro che ci aspetta.
Approfondimenti sul libro
In ebook La fine del mondo storto (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Una mattina d’inverno, le disgrazie d’altronde capitano spesso d’inverno, il mondo si sveglia e scopre che non ci sono più petrolio, né gas né carbone né corrente elettrica. A dir la verità, un po’ di corrente esiste ancora. Laddove l’acqua fa girare le turbine c’è forza elettrica, ma è poca cosa. Il problema sono gasolio, benzina, gas, insomma tutto ciò che tiene in vita i motori, e di conseguenza anche la gente, visto che la gente dipende dai motori.
L’umanità, comunque, non scopre quella mattina di essere a secco, quella mattina si dà da fare per non morire, ma la disgrazia è arrivata un po’ alla volta.
Da tempo era possibile accorgersene stando dietro a certi segnali, per esempio andando a fare il pieno di benzina. Il pieno ora non si fa, e neanche il mezzo pieno. Si può fare solo il vuoto, le pompe sono a secco. Quelli che vogliono riempire il serbatoio corrono al paese vicino, ma neanche lì ce n’è. Allora vanno nelle città limitrofe, ma niente. Finita. Così tanti rimangono a piedi. Cercano di tornare a casa in taxi, però anche quelli sono a secco. In qualche modo rientrano, ma è dura! Nel giro di poco tempo sono tutti a piedi. Spaventati ma non vinti, si preparano al peggio.
Il peggio deve ancora venire. La gente lo intuisce e cerca ripari. Impaurita, fa mosse incaute, maldestre, sbagliate. La paura fa correre, correre fa sbagliare. Ma è difficile non correre con la morte alle costole e, sentendola appresso, si corre storti. E si sbaglia. Fame e freddo agitano, confondono. E la gente, rimasta a secco, dopo aver stretto il culo, cerca di salvarlo. Non si chiede perché sono finiti combustibili e carburanti. Fame e freddo non fanno domande. Le domande fioriscono a stomaco pieno, vicino alla stufa o in osteria.
Quell’inverno senza gas, gasolio e carbone, prima occorre scaldarsi, dopo ci si preoccupa di mangiare.
Nei paesi di montagna il problema è abbastanza risolvibile. Nelle città invece il discorso cambia. È inverno. L’inverno freddo e umido delle città, con strade e piazze piene di nebbie e solitudini. Solitudini di uno alla volta, che messe insieme diventano una sola, quella di tutti. In città si è sempre soli. Soli e arrabbiati, e ognuno è abituato a badare ai fatti propri, ma senza combustibili la gente è costretta ad andar d’accordo, a darsi una mano.
I primi giorni sono superati con tabarri e spavento. La paura cresce. Il mondo intero è atterrito. La gente di città corre a cercare stufe, fornelli, o qualsiasi oggetto che funzioni a legna. Non si usavano stufe a legna da anni, da un bel pezzo erano state soppiantate e buttate via. Roba da museo ormai, ma adesso servono. Almeno averle messe in cantina, sacramento!
Qualcuno il caminetto ce l’ha. Di quelli con il vetro davanti e le fiamme dentro. Fiamme artificiali sempre uguali che danzavano a batteria. Solo per bellezza, guai sporcare di fumo le pareti. Le mogli s’incazzavano.
Alla fine, la gente s’arrangia con bidoni, catini, conche di ghisa, di ferro, pignatte. Insomma, trova ogni tipo di recipienti per mettere dentro il fuoco. Però i guai non sono finiti. Le case sono grandi, troppo grandi per essere scaldate a stufa. Gli uomini sognano e costruiscono ville, castelli. Non hanno capito niente. La casa perfetta è quella dove, stando seduti e allungando le mani, si può raggiungere tutto ciò che serve. Se l’uomo non l’aveva ancora capito, adesso lo sa. Ci vuole sempre la disgrazia per aprire gli occhi alla gente.
Ora si riuniscono tutti in stanze, camere o tinelli. Il poco spazio può tenere il caldo prigioniero, fermarlo, che non scappi, e con un catino di fuoco si arriva a scaldare qualche metro quadro ma non di più. Gli uomini iniziano a fare attenzione a tutto. Scoprono che il caldo va verso l’alto e allora abbassano i soffitti. Li accorciano con quel che trovano: assi, teli, lenzuola, coperte, cartoni e altro. Così il caldo resta a livello uomo.
Presto però viene a mancare la legna, i camion non partono, i treni non si muovono, le navi neanche, le auto men che meno. Dopo una settimana, forse due, negozi, supermarket, magazzini hanno finito le riserve. Un tempo, vendevano mattonelle, carbone, pellet, cilindri di legno triturato. Roba per braciolate domenicali. Adesso gli scaffali sono vuoti. A dir la verità, qualcosa rimane nei magazzini, ma se la tengono i padroni. E ben stretta. Capita l’antifona, se la sono fatta addosso. Sostengono che le scorte sono finite. Allargano le braccia, fanno i disperati. Credono di essere furbi, ma non si rendono conto che stanno dicendo la verità. È solo questione di tempo e la cuccagna finirà anche per loro.
Nel frattempo in giro cresce il panico. Fa sempre più freddo. Che fare? Bisogna trovare legna subito. Messa alle strette la gente s’accorge che può fare a meno di una montagna di robe. Se ne accorge all’improvviso, come se si fosse svegliata da un sogno. Serrata tra le ganasce del freddo che morde le caviglie, la gente scopre una verità molto semplice: che le case sono sommerse da cataste di oggetti inutili che, al tempo dei carburanti, parevano indispensabili.
La gente ragiona e conviene che si possono eliminare quelle robe di legno che non servono a niente, solo a ingombrare. Allora cominciano a fare a pezzi ciò che considerano superfluo per loro e buono per il fuoco. Frantumano tutto sotto le scarpe. Le cose più toste le spaccano a manéra o con la sega. Ma non tutti ne possiedono una, molti non sanno nemmeno cosa sia. Però hanno i cric delle auto. Piazzati bene, quelli demoliscono anche una casa.
Dopo qualche giorno, le cianfrusaglie finiscono. La gente si guarda attorno, riflette. Poi scopre che può mangiare in piedi. Allora via sedie, panche, sgabelli. Tutto quel che accoglieva i culi, spesso in sovrappeso, delle persone viene bruciato nelle stufe. O nei contenitori adattati a stufe. Ma anche le sedie finiscono, panche e sgabelli pure. Allora la gente decide che può fare a meno dei tavoli.
«Fanculo! Mangiamo per terra» dicono, con l’ansia negli occhi.
E via a bruciare tavoli, tavolini, portatelefoni, portafiori e altri aggeggi, sempre di legno chiaramente.
Passa qualche giorno. I fuochi improvvisati mangiano tutto. Riducono in cenere tavoli e affini, molto velocemente. La gente a quel punto molla i freni.
«Fanculo» dicono ancora, «si può dormir per terra, i letti non servono.»
Così bruciano letti matrimoniali, singoli, a castello, cassapanche, mensole, madie, scansie, librerie (chi le ha). Tutto quel che contiene un po’ di legno, anche la minima fibra, diventa materia da riscaldamento. E come arde! La gente butta al rogo gli oggetti per scaldarsi. Senza alcun rimpianto. Di fronte alla paura di crepare ghiacciati, non esistono rimorsi né remore.
All’inizio in molti qualche dubbio lo avevano. Cercavano di scegliere, selezionare, salvare qualche ricordo.
«No! L’attaccapanni della bisnonna, quello no!»
«La scrivania del trisavolo notaio la teniamo.»
«Sacramento, questa è una libreria del Cinquecento, vale una fortuna, bisogna salvarla.»
Ma il freddo morde con ganasce di pietra. Non dà requie. Senza combustibili sembra eterno. Un giorno diventa un mese. E allora in mona i ricordi della bisnonna:
«Venga qui lei a ghiacciarsi il culo!»
E così pure la scrivania del notaio:
«In fondo era un crumiro, un rompicoglioni, lo si dice ancora in famiglia.»
«Che libreria? Salvarla a far che? E intanto crepare di freddo? Cinquecento o Seicento, via dalle palle, che diventi legna. Alla peggio, se ci salviamo, di librerie ne faranno ancora e così anche di libri, al fuoco pure quelli che tanto non ci salviamo.»
La gente scopre che la letteratura è roba da godere a stomaco pieno, termosifoni caldi e canapè. L’incubo della morte spiana i sentimenti, quelli più astratti sono i primi a sparire. La morte che viene lenta e non fulminea spazza via valori e certezze, per esempio cancella l’affetto dei ricordi, la memoria si trasforma in fastidio. Davanti al pericolo si ragiona cattivo. Senza più carburanti, la gente diventa pratica, fredda, feroce. Fredda come i giorni senza fuoco, feroce come i giorni senza cibo. La testimonianza dei vecchi, padri, nonni, bisnonni, dei loro oggetti tenuti come reliquie, infastidisce. Ora è necessario bruciare quei ricordi senza rispettare avi e bisavi che compaiono ad ammonire. Sono ingrugniti, fanno cenno di no con la mano.
«Che devo tener da conto, nonno? La tua sedia? Va’ in malora! Se non mi scaldo crepo!»
Il mondo s’arrabbia. La gente s’accorge che per secoli è stata costretta a onorare e conservare oggetti. Anche se, sotto sotto, non gliene fregava un cazzo, guai a mancare di rispetto al rasoio del bisavolo, alla sedia del nonno, alla panca della zia. E avanti di questo passo.
Adesso, con sul collo la falce della paura, il gelo, la fame e poche speranze di futuro, quelle reliquie diventano zero, cianfrusaglie. Ora c’è da portar fuori la pelle e basta. Il resto non conta. Altro che memorie e cassapanche! Tutto al fuoco per scaldare e cucinare!
Così, con una certa soddisfazione, come liberata da un peso antico, la gente scopre che nel momento del pericolo non c’è niente che abbia precedenza. Solo la vita. Senza il nipote vivo che valore può avere la cassapanca del nonno? È come una mela senza la bocca che la mangia, che ne sente il gusto. E questo vale per la natura intera: boschi, montagne, mari. Tutto quel che c’è di bello o brutto ha valore perché lo vede l’uomo. Se non c’è l’uomo che guarda, adopera, contempla, stima, apprezza, il mondo potrebbe benissimo scomparire.
Così la gente decide di salvarsi, a scapito delle cianfrusaglie, per poter vedere ancora il sorgere dei giorni. Ma non è facile sopravvivere senza gli oggetti che accompagnavano l’uomo da secoli. Peggio ancora, senza quelli che gli tenevano compagnia da trenta, quarant’anni, ma bisogna arrangiarsi.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Mauro Corona.