| SCHEDA DEL LIBRO |
Il 4 gennaio 2018 Longanesi pubblicherà Fiori sopra l’inferno di Ilaria Tuti, un thriller che sarà disponibile anche in eBok al prezzo di 8,99€. Ecco la trama e un estratto dal romanzo.
Fiori sopra l’inferno: trama del libro
«Tra i boschi e le pareti rocciose a strapiombo, giù nell’orrido che conduce al torrente, tra le pozze d’acqua smeraldo che profuma di ghiaccio, qualcosa si nasconde. Me lo dicono le tracce di sangue, me lo dice l’esperienza: è successo, ma potrebbe risuccedere. Questo è solo l’inizio. Qualcosa di sconvolgente è accaduto, tra queste montagne. Qualcosa che richiede tutta la mia abilità investigativa.
Sono un commissario di polizia specializzato in profiling e ogni giorno cammino sopra l’inferno. Non è la pistola, non è la divisa: è la mia mente la vera arma. Ma proprio lei mi sta tradendo. Non il corpo acciaccato dall’età che avanza, non il mio cuore tormentato. La mia lucidità è a rischio, e questo significa che lo è anche l’indagine.
Mi chiamo Teresa Battaglia, ho un segreto che non oso confessare nemmeno a me stessa, e per la prima volta nella vita ho paura.»
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C’era una leggenda che gravava su quel posto. Una di quelle che si appiccicano ai luoghi come un odore persistente. Si diceva che in autunno inoltrato, prima che le piogge si tramutassero in neve, il lago alpino esalasse respiri sinistri.
Uscivano come vapore dall’acqua e risalivano la china insieme alla bruma del mattino, quando la gora rifletteva il cielo. Era il paradiso che si specchiava nell’inferno.
Allora si potevano sentire sibili lunghi come ululati, che avvolgevano l’edificio del tardo Ottocento, sulla riva est.
La Scuola. Lo chiamavano così, giù in paese, ma quelle mura avevano mutato destino e nome diverse volte nel tempo: residenza di caccia imperiale, comando nazista, preventorio antitubercolare infantile.
Ora nei corridoi c’erano solo silenzio e pareti scrostate, stucchi sbiaditi ed echi di passi solitari. E poi, a novembre, quegli ululati che sgorgavano dalla nebbia e si arrampicavano lungo le finestre dei piani più alti, fino al tetto spiovente che luccicava di brina.
Le leggende, tuttavia, si addicono solo ai bambini e ai vecchi malinconici, a cuori troppo teneri. Lo sapeva bene Agnes Braun. La Scuola era la sua casa da troppo tempo per lasciarsi impressionare da un gorgoglio notturno. Conosceva lo scricchiolio di ogni asse, di ogni tubatura arrugginita che correva nelle intercapedini delle pareti, sebbene la maggior parte dei piani ora fosse chiusa e le porte delle stanze sprangate con tavole e chiodi.
Da quando l’edificio era diventato un orfanotrofio, i fondi statali erano sempre più centellinati e nessun privato si faceva avanti per donare qualche spicciolo.
Agnes attraversò la cucina che si trovava nel piano interrato, tra i locali adibiti a dispensa e la lavanderia. Spingeva un carrello, destreggiandosi tra i recipienti che di lì a poche ore avrebbero sbuffato vapori unti. Era sola, in quell’ora che non era notte e nemmeno giorno. A farle compagnia, giusto l’ombra furtiva di un ratto e le sagome delle carcasse appese a frollare nell’ex ghiacciaia.
Si servì del montacarichi per raggiungere il primo piano, l’ala di cui era responsabile. Da qualche tempo, quell’incarico le provocava un disagio senza nome, come un malessere latente che non si decideva a scoppiare.
Il montacarichi cigolò accogliendo il suo peso e quello del carrello. Le catene e le funi iniziarono a stridere. La gabbia vibrò e cominciò a salire, per arrestarsi pochi metri dopo con uno scossone. Agnes aprì la rete metallica. Il corridoio del primo piano era un lungo nastro colorato di un azzurro polveroso, macchiato di umidità e costellato su un lato di finestroni a riquadri.
Un’anta sbatteva a intervalli regolari. La donna si allontanò dal carrello per andare a richiuderla. Il vetro era freddo e appannato. Lo pulì con una mano, disegnando una sorta di oblò. L’alba stava rischiarando il villaggio, giù a valle. I tetti delle case erano minuscole tessere color del piombo. Più su, a millesettecento metri sul livello del mare, tra l’abitato e la Scuola, la distesa immobile del lago si colorava di rosa tra la bruma. Il cielo invece era terso. Agnes sapeva, però, che il sole quel giorno non avrebbe scaldato la radura scoscesa. Ormai lo capiva non appena posava un piede fuori dal letto ed era assalita dall’emicrania.La nebbia si stava sollevando per assorbire ogni cosa: la luce, i suoni, persino gli odori si impregnavano del suo umore stagnante, che sapeva di ossa. E dalle sue spire, che arrampicandosi sull’erba bruciata dal gelo sembravano prendere vita, si levarono i lamenti.
Il respiro dei morti, pensò Agnes.
Era il vento, il Buran, che soffiava violento da nord-est. Nato in steppe lontane, aveva percorso migliaia di chilometri fino a incunearsi nel canalone della valle, ringhiare contro gli argini del fiume, sotto la linea del bosco, agitarsi nelle golene e riemergere fischiando per poi infrangersi sulla parete di roccia.
Era solo il vento, si ripeté la donna.
L’orologio a pendolo dell’ingresso batté sei rintocchi. Si era fatto tardi, ma Agnes non si mosse. Sapeva che stava temporeggiando. E sapeva anche il perché.
Suggestione, si disse. È solo suggestione.
Strinse le mani attorno all’acciaio del portavivande. I contenitori tintinnarono quando si decise a muovere qualche passo verso la porta in fondo al corridoio.
Il Nido.
Un pensiero improvviso le provocò uno spasmo allo stomaco: era davvero un nido. Lo era diventato nelle ultime settimane. Brulicava di un lavorio sommesso, misterioso. Come un insetto operoso, preparava la muta. Agnes ne era certa, anche se non avrebbe saputo spiegare quello che stava accadendo in quella stanza. Non ne aveva fatto parola con nessuno, nemmeno con il direttore: l’avrebbe presa per pazza.
Infilò una mano nella tasca della divisa. Le dita sfiorarono la stoffa ruvida del cappuccio. Lo estrasse e se lo calò sul viso. Una retina sottile copriva anche gli occhi, velando il mondo esterno. Era la regola.
Entrò.
La stanza era immersa nel silenzio. La grossa stufa di ghisa accanto all’ingresso conservava ancora qualche brace e restituiva un tepore piacevole. I posti erano allineati in quattro file da dieci. Nessun nome sulle targhette distintive, solo numeri.
Non si udivano pianti né richiami. Agnes sapeva che cosa avrebbe visto se solo avesse guardato: occhi inespressivi, spenti.
In tutti i posti, tranne uno.
Ora che si era abituata al silenzio, poteva sentirlo: sgambettava là in fondo, acquistava forza. Si preparava. A cosa, non avrebbe saputo dirlo. Forse era davvero pazza.
Un passo dietro l’altro, si avvicinò al posto numero 39.
Contrariamente agli altri, il soggetto pulsava di vita. I suoi occhi, così particolari, erano attenti, guizzavano seguendo i suoi movimenti. Agnes sapeva che il soggetto cercava il suo sguardo oltre la rete del cappuccio. Lei lo distoglieva, in imbarazzo. Il soggetto numero 39 era cosciente della sua presenza, anche se non avrebbe dovuto.
La donna controllò che nessun inserviente si fosse affacciato alla porta e allungò un dito. E il soggetto morse, strinse la carne tra le gengive, con forza. Negli occhi, uno sguardo diverso: spiritato. Un breve lamento nervoso gli scivolò dalle labbra quando Agnes si ritrasse con un’imprecazione.
Ecco la sua vera natura, pensò lei. Carnivora.
Fu ciò che accadde un attimo dopo a convincerla che non potesse più tenere solo per sé certi pensieri.I posti accanto a quello numero 39 non erano più muti. I respiri si erano fatti agitati, come se i soggetti stessero rispondendo a un richiamo. Il Nido brulicava.
Ma forse era solo suggestione.
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