Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Follie di Brooklyn di Paul Auster. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einiaudi con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Follie di Brooklyn: trama del libro
Raggiunta ormai l’età della pensione, Nathan Glass ritorna a Brooklyn, la città dov’è nato e che ha lasciato quasi sessant’anni prima. Trasloca a Brooklyn con l’intenzione precisa di cercare un buon posto per morire. Ma il caso ha deciso per lui diversamente. Gli amori infelici del nipote Tom, le avventure del libraio-falsario Harry Brightman, l’apparizione improvvisa della piccola Lucy, che rifiuta di svelare dove si trova sua madre, sorella di Tom. Nathan pensava di dedicarsi a un progetto, la scrittura di un Libro della follia umana, ma le follie sono lí, appena fuori dalla porta, nel piú vivo e colorato angolo di New York. Come in Smoke e in Blue in the Face, la città e un suo quartiere, Park Slope, diventano straordinari protagonisti. Paul Auster scrive, con Follie di Brooklyn, una commedia dalla trama apparentemente spensierata. Una commedia che termina però la mattina dell’11 settembre 2001, data oltre la quale i lieto fine diventeranno di colpo piú amari e difficili.
Approfondimenti sul libro
In ebook Follie di Brooklyn (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Il contratto di vendita della casa di Bronxville era già stato stipulato, per cui a fine mese la transazione sarebbe stata conclusa e avrei avuto soldi in abbondanza. La mia ex moglie e io pensavamo di dividerci il ricavato, e quattrocentomila dollari in banca sarebbero stati piú che sufficienti a mantenermi finché non avessi esalato l’ultimo respiro.
Nei primi tempi ero disorientato. Per trentun anni avevo fatto il pendolare tra i sobborghi e Manhattan, dove c’era la sede della Mid-Atlantic Accident and Life, ma adesso che non avevo piú il lavoro c’erano troppe ore nella giornata. Circa una settimana dopo il mio trasloco nella casa nuova venne a trovarmi in auto dal New Jersey mia figlia Rachel, che è sposata. Sentenziò che dovevo lasciarmi coinvolgere da qualcosa, inventarmi un progetto. Rachel non è una sciocca: si è specializzata in biochimica alla University of Chicago e lavora come ricercatrice in una grande casa farmaceutica vicino a Princeton. Ma in una cosa è identica a sua madre: che salvo rare eccezioni, quando parla dice solo ovvietà – tutto quel repertorio di frasi fatte e idee usate che riempie le pattumiere della saggezza contemporanea.
Le spiegai che probabilmente entro l’anno sarei morto, e non me ne fregava un cazzo di fare progetti. Per un attimo Rachel sembrò sul punto di piangere, ma poi sbatté le palpebre e disse che ero crudele ed egoista. Niente di strano, aggiunse, che «mami» alla fine avesse chiesto il divorzio, che non mi sopportasse piú. Essere la moglie di un uomo come me doveva essere stata una tortura senza fine, l’inferno in terra. L’inferno in terra. Ahi, ahi, povera Rachel… proprio non ne poteva fare a meno. La mia unica figlia stava al mondo da ventinove anni e non era mai riuscita a produrre una frase originale, con un qualcosa di totalmente e irriducibilmente suo.
Sí… temo di essere un po’ cattivo, a volte. Ma non sempre – e non per principio. Nelle giornate sí sono l’uomo piú amabile e affettuoso che esista. Non puoi vendere con successo assicurazioni sulla vita come ho fatto io se ti rendi antipatico ai tuoi clienti, e comunque non puoi farcela per trenta lunghi anni. Devi entrare in sintonia. Devi sapere ascoltare. Devi saper piacere alla gente. Io possiedo tutte queste qualità, e anche altre. Non nego di avere avuto anche dei momenti negativi, ma tutti sappiamo quanti rischi si nascondono dietro le porte chiuse della vita familiare. Questa può essere un veleno per coloro che vi sono coinvolti, specialmente quando scopri che in partenza non eri tagliato per sposarti. Mi piaceva molto far l’amore con Edith, ma dopo quattro o cinque anni la passione sembrava al capolinea, e lí smisi di essere un marito modello. Secondo Rachel lasciavo a desiderare anche come padre. Ora, non per contraddire i suoi ricordi, ma la verità è che a modo mio volevo bene a tutt’e due, e anche se a volte finivo tra le braccia di altre donne non presi mai sul serio nessuna di quelle scappatelle. E non fui io a volere il divorzio. Malgrado tutto, ero deciso a restare con Edith fino alla fine. Fu lei quella che volle dire basta, e dato il numero di peccati e sbandate in cui ero incorso negli anni, francamente non potei condannarla. Trentatre anni di vita sotto lo stesso tetto, e quando ci lasciammo per andare in direzioni opposte la somma fra noi due era praticamente zero.
Avevo detto a Rachel che avevo i giorni contati, ma fu solo una replica stizzita al suo consiglio importuno, un guizzo nella pura iperbole. Il mio tumore ai polmoni era in remissione, e da quanto l’oncologo mi aveva detto dopo gli ultimi esami potevamo nutrire un cauto ottimismo. Questo però non significa che gli credetti. Lo shock del cancro era stato cosí terribile che non vedevo come avrei potuto sopravvivergli. Mi ero dato per morto, e quando mi ebbero rimosso il tumore e mi fui sottoposto al supplizio della radio e della chemioterapia, quando ebbi sofferto le lunghe nausee e i capogiri, la perdita dei capelli, della volontà, del lavoro, la perdita di mia moglie, faticavo a immaginarmi come avrei fatto ad andare avanti. Da qui Brooklyn. Da qui l’inconsapevole ritorno al luogo dove la mia storia era iniziata. Avevo quasi sessant’anni e non sapevo quanto tempo mi sarebbe rimasto. Forse altri vent’anni; o forse pochi mesi. Qualunque fosse la prognosi dei dottori sulla mia salute, l’essenziale era non dare nulla per scontato. Essendo vivo, dovevo trovare un modo per ricominciare a vivere; ma anche se non fossi vissuto, ero costretto a fare qualche cosa di piú che mettermi a sedere e aspettare la fine. Come al solito la mia figlia scienziata aveva ragione, anche se ero troppo testardo per ammetterlo. Dovevo tenermi occupato. Alzare il culo e muovermi.
Il trasloco fu all’inizio della primavera, e dedicai le prime settimane a esplorare il vicinato, facendo lunghe passeggiate nel parco e piantando fiori nel mio giardino – un pezzettino di terra pieno di rifiuti, trascurato da anni. Andai a farmi tagliare i capelli rinati al Park Slope Barbershop in Seventh Avenue, noleggiai qualche cassetta al centro Movie Heaven ed entrai di frequente al Brightman’s Attic, un negozio di libri usati stracolmo e caotico di proprietà di un vistosissimo omosessuale di nome Harry Brightman (ne riparlerò piú avanti). Di solito al mattino mi preparavo la colazione in casa, ma dato che non ho né passione né il minimo talento culinario, per pranzo e cena preferivo andare al ristorante – sempre da solo, sempre con un libro aperto davanti, e sempre masticando piú piano che potevo per prolungare il pasto. Dopo diversi esperimenti nel quartiere, per mezzogiorno diventai cliente fisso del Cosmic Diner. La cucina era mediocre per non dire di peggio, ma una delle cameriere era un’adorabile ragazza portoricana di nome Marina, per la quale mi presi quasi subito una cotta. Aveva la metà dei miei anni e un marito, quindi neanche a parlarne di un’avventura, ma era talmente bella da guardare, e mi trattava con tanta dolcezza, era cosí pronta a ridere alle mie poco irresistibili battute che nei suoi giorni di permesso mi struggevo letteralmente per lei. Da un punto di vista rigorosamente antropologico scoprii che i brooklyniani sono meno restii a parlare con gli sconosciuti di qualunque altra tribú avessi incontrato prima. Si impicciano spudoratamente degli affari del prossimo (vecchiette che rimproverano giovani mamme perché non vestono i loro bambini in modo adeguato, passanti che apostrofano i padroni dei cani perché li tirano troppo forte per il guinzaglio); litigano per i posti nei parcheggi come bambini dell’asilo nevrotici; e lanciano battute folgoranti come se fosse la cosa piú naturale del mondo. Una domenica mattina entrai in una gastronomia affollata dall’assurdo nome di La Bagel Delight. Volevo chiedere un bagel con uvette e cannella, quindi un cinnamon-raisin, ma la parola incespicò nella lingua e venne fuori cinnamon-reagan. Senza fare una piega, il giovanotto dietro il bancone ribatté: «Mi dispiace, di quelli non ne abbiamo. Che ne direbbe, invece, di un pumpernixon?» Invece di pumpernickel, d’accordo, ma veloce. Cosí veloce che… al diavolo, per poco non me la feci addosso.
Dopo quell’involontario strafalcione, finalmente mi venne un’idea che Rachel avrebbe approvato. Forse non era un’idea geniale, ma era qualcosa, e se l’avessi perseguita con fede e rigore come intendevo fare avrei avuto il mio progetto, il passatempo che cercavo per evadere dall’accidia della mia soporifera routine. E malgrado la modestia del progetto decisi di dargli un nome solenne, anzi alquanto pomposo – per illudermi di avere intrapreso un’opera importante. Lo intitolai Il libro della follia umana, e pensavo di riportare in esso, con il linguaggio piú semplice e chiaro possibile, il racconto di tutti gli svarioni e i capitomboli, i pasticci e i pastrocchi, le topiche e le goffaggini in cui ero caduto nella mia lunga e movimentata carriera di uomo. Quando non mi fosse venuto in mente nulla su di me avrei raccontato cose capitate alle persone che conoscevo; e se anche quella fonte si fosse inaridita avrei saccheggiato la Storia, descrivendo le follie dei miei simili nei secoli, dalle civiltà scomparse dell’antichità fino ai primi mesi del Duemila. Pensai che se non altro mi sarei fatto quattro risate. Non aspiravo a mettere a nudo la mia anima né a indugiare in cupe introspezioni. Il tono doveva essere sempre lieve, farsesco, e il mio unico scopo era riempire in modo divertente il maggior numero possibile di ore del giorno.
Ho definito il progetto un libro, ma in realtà non lo era. Lavorando su blocchetti di appunti, fogli volanti, rovesci di buste e moduli per la richiesta di carte di credito o prestiti per ristrutturazioni trovati nella posta pubblicitaria, compilavo di fatto una raccolta di spunti estemporanei, un coacervo di aneddoti slegati che al termine di ogni nuova storia avrei buttato in una scatola di cartone. La mia follia aveva ben poco metodo. C’erano resoconti di poche righe e alcuni – soprattutto gli scambi di iniziale e i malapropismi a cui ero tanto affezionato – addirittura di una sola frase. Per esempio grillburger alla ciglia invece di cheeseburger alla griglia, che mi era uscito di bocca in terza liceo, o il detto involontariamente profondo, quasi mistico, che proferii a Edith durante uno dei nostri aspri battibecchi coniugali: Se non lo credo non ci vedo. In ogni seduta di scrittura, per prima cosa chiudevo gli occhi e lasciavo vagare liberamente i pensieri in ogni direzione. Grazie a questo rilassamento forzato potei ripescare dal passato remoto notevoli quantità di materiale, cose che credevo ormai perdute per sempre. Per esempio un momento della sesta elementare quando, durante una lezione di geografia, nel silenzio generale un mio compagno di scuola di nome Dudley Franklin fece una lunga scoreggia strombettante. Naturalmente ridemmo tutti (per una scolaresca di undicenni niente è piú esilarante del rumore di un peto), ma ciò che estrapolò l’episodio dalla categoria dei fatterelli imbarazzanti elevandolo a classico, a immortale capolavoro negli annali della vergogna e dell’umiliazione, fu che Dudley era abbastanza innocente per commettere il fatale errore di chiedere scusa. «Chiedo scusa», disse, abbassando gli occhi sul banco e arrossendo a tal punto che le sue guance sembravano un’autopompa appena verniciata. Mai confessare una scoreggia in pubblico. È una legge non scritta: il piú rigido fra i protocolli dell’etichetta americana. I peti non provengono da nessuno e da nulla, sono emissioni anonime appartenenti al gruppo nel suo insieme, e anche qualora tutti i presenti sappiano additare il colpevole l’unica procedura corretta è la negazione. Invece lo stolto Dudley Franklin era troppo sincero e non ebbe il conforto dell’oblio. Da quel giorno fu noto come Franklin-Chiedoscusa, e il soprannome gli rimase addosso fino alla fine delle superiori.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Paul Auster.
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