Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di In fondo al tuo cuore di Maurizio De Giovanni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 13,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
In fondo al tuo cuore: trama del libro
Immersa nel caldo torrido di luglio, la città si appresta a festeggiare una delle sue ricorrenze più popolari, quella della Madonna del Carmine, quando viene sconvolta da una terribile notizia: la tragica fine di uno stimato medico e professore universitario, caduto da una finestra in circostanze poco chiare. Ricciardi è incaricato di indagare sul caso e, come al solito, “il fatto”, l’immagine dell’ultimo istante di dolore del morto, lo perseguita. Ma questa volta il commissario è distratto da uno dei momenti più difficili della propria esistenza. Su di lui incombono l’abbandono e il lutto.
In ebook In fondo al tuo cuore (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 8,99 euro. Qui potete trovare la lista di tutti i libri del Commissario Ricciardi.
Cade, il professore.
Cade, e mentre cade allarga le braccia, come se volesse cingere la rovente notte d’estate che lo accoglie.
Cade, e siccome durante la breve colluttazione ha buttato fuori tutta l’aria che aveva nei polmoni, adesso il suo corpo incoerentemente gli impone di inspirare, anche se quel nuovo ossigeno non servirà a niente, non farà nemmeno in tempo ad arrivargli nel sangue.
E nemmeno il naso registrerà il profumo che viene dagli alberi e dai fiori delle aiuole, dalle cucine con le finestre aperte del quartiere, immerso nel calore come in una maledizione.
Cade con gli occhi chiusi, senza guardare le luci ancora accese di chi non riesce a dormire nonostante l’ora tarda, e un po’ piú lontano, al di là dei tetti dei palazzi che digradano verso il mare, i lampioni della grande strada che pone fine al reticolo dei vicoli.
Cade, il professore. E intanto i suoi pensieri si frantumano in mille piccoli pezzi, lampi di coscienza che non costruiranno mai piú una di quelle frasi armoniose per le quali è giustamente famoso nelle aule universitarie. Ormai sono come frammenti di uno specchio rotto che riflettono nella caduta quello che possono catturare, rimpiangendo quando insieme componevano una sola, bella immagine.
Uno dei frammenti cattura l’amore.
Se potesse soffermarsi sull’argomento, il professore penserebbe che è strano, l’amore. Ti fa fare cose assurde, lontane dal tuo abituale modo di comportarti; ti rende ridicolo, a volte, e altre riempie la vita di colori. L’amore crea, l’amore distrugge, direbbe con una delle sue espressioni proverbiali. E fa volare fuori dalle finestre, anche.
Ma il professore cade, e quando si cade piú che frammenti di pensiero non ci si può permettere. Allora la fertile mente scientifica accetta la paura del dolore.
Il dolore si può studiare, affermerebbe il professore, se ne avesse il tempo e l’agio. È un sintomo, un segno che la complessa macchina del corpo umano, di cui tanto si sa e di cui ancora tanto non si sa, non funziona a dovere. Un segnale, una sirena luminosa che richiama l’attenzione: presto, accorrete, c’è qualcosa che non va. Coi bambini, racconterebbe il professore se non stesse cadendo, è questo il problema: non sanno dire dove hanno male, non capiscono quello che sentono. Piangono forte, si disperano, e non dicono nulla; e il povero medico che cura quei piccoli mostri deve procedere a tentoni, tastando qua e là finché un urlo piú forte non permette di comprendere. Acqua, acqua, fuochino, fuoco.
Se non stesse cadendo a velocità vertiginosa, il professore penserebbe per l’ennesima volta a quanto è strana la vita, che può portare ad avere a che fare per professione con cose alle quali uno non si avvicinerebbe mai. Lui, per esempio, i bambini non li ha mai sopportati; nemmeno quando era bambino egli stesso, figlio unico e malinconico di un indaffarato commerciante di provincia e di una piagnucolante maestra le cui carezze untuose rifuggiva come la peste. Ma tant’è, direbbe scrollando le spalle, se non fosse occupato a mulinare le braccia nell’aria calda della sera, il lavoro è lavoro, e siccome i bambini vengono fuori dalle donne, e le donne sono il suo mestiere, deve occuparsi di loro per forza.
Cade, il professore. E in un lampo si rende conto che non c’è tempo, anche se la caduta dura molto piú di quanto si sarebbe aspettato.
Non c’è tempo di rimettersi in forma, magari per fronteggiare meglio la colluttazione in seguito alla quale, appunto, sta cadendo, gettato fuori dalla finestra con risibile facilità. E dire che era perfino orgoglioso delle sue lisce, sensibili mani da chirurgo, cosí diverse da quelle ruvide dei tanti postulanti che venivano a chiedergli cure, col cappello stretto fra le dita e le tasche vuote; anche della flaccida carne e del doppio mento andava fiero, segnale sicuro di opulente cene e di altissime frequentazioni, invidia dei lividi colleghi.
Magari qualche muscolo piú tonico, frutto delle lunghe passeggiate in salita che faceva per andare in ospedale da casa – prima di acquistare la fiammante Fiat 521 C dotata di tachimetro, orologio e indicatori dei livelli di benzina e olio, con la carrozzeria bicolore nero e crema, che è il suo vanto e che assiste immobile, e presumibilmente indifferente, parcheggiata ventidue metri piú in basso, al volo del suo proprietario –, lo avrebbe salvato dalla caduta. E magari adesso sarebbe ancora presentabile, invece di avere la camicia strappata, le bretelle sganciate e gli occhiali d’oro di sghimbescio sul volto contorto.
Però, penserebbe il professore se il tempo della caduta non fosse quasi finito, uno non si aspetta di dover lottare per la vita quando se ne sta nel proprio studio a pianificare le operazioni dell’indomani. Si aspetta, al limite, di dover ricevere un visitatore improvviso da liquidare con poche caustiche battute; non certo di fronteggiare una breve, intensa zuffa a mani nude, tanto inattesa da non avere nemmeno la possibilità di cacciare un urlo per chiedere aiuto. Non che a quell’ora ci fosse molta gente, ma un infermiere, un guardiano, un assistente in possesso di una muscolatura volgare, da manovale, avrebbe forse sentito e sarebbe accorso, e adesso lui, invece di avvicinarsi al suolo a una velocità vertiginosa, che se non stesse cadendo sarebbe anche capace di calcolare, starebbe sporgendo una denuncia per aggressione.
È strana la dilatazione del tempo nei momenti estremi, penserebbe il professore, se scampasse alla caduta. E racconterebbe di come il cervello, osservando i frammenti di pensiero che volano nell’aria, si soffermi su qualcosa ma non su tutto, approfittando della meravigliosa rapidità che questo fantastico prodotto dell’evoluzione possiede nell’effettuare alcuni collegamenti ed escluderne altri. Racconterebbe, il professore, di come non sia affatto vero quello che si dice, che la vita intera passa in un lampo davanti agli occhi della mente; per esempio, della moglie e del figlio non c’è traccia nei suoi fulminei pensieri, che esplodono come fuochi d’artificio, luminosi e brillanti con la notte a fare da sfondo. E nemmeno dei numerosi personaggi che, in una coreografia convulsa, animano la giornata lavorativa di un importante cattedratico con attività ospedaliera. Attività che lui svolge con zelo e che, per inciso, se avesse preso un po’ meno seriamente adesso se ne starebbe comodo nel suo letto invece di svolazzare nel buio come un pipistrello.
C’è, invece, negli occhi chiusi e dietro la smorfia che attende l’impatto, l’immagine vivida e allegra di Sisinella.
Sisinella con i denti bianchi illuminati dal sole, o con le labbra rosse atteggiate in quel minuscolo broncio che lo fa impazzire. Sisinella che ride nel vento, tenendosi il cappellino con le mani mentre sfrecciano con la capote abbassata sulla sua bella macchina, acquistata, in pratica, solo per lei. Sisinella che lo porta in uno speciale e personalissimo paradiso, dentro il letto di piume recapitato da ben quattro facchini nell’appartamento nuovo al Vomero. Sisinella che gli fa vivere una vita da ragazzo, lui che ragazzo non è mai stato. Sisinella dalle mani morbide, Sisinella dalle gambe lunghe, Sisinella dalla pelle di panna e fragola. Sisinella.
Cade, il professore, e cadendo pensa a quanto si sarebbe goduto la sua faccia, l’espressione del suo viso mentre scartava il pacchetto che le avrebbe fatto trovare, come per caso, sotto il cuscino. A che festa gli avrebbe fatto, eccitata come una bambina, le guance ancora rosse dell’amore, il piccolo naso arricciato per la gioia e il sontuoso, giovane seno sussultante per il piacere. A che premio gli avrebbe conferito, per quel regalo. Peccato. Un vero peccato.
Cade, il professore, ma ogni cosa finisce, quindi finisce anche la caduta. E quella meravigliosa macchina, il prodotto piú straordinario dell’evoluzione, il cervello che tanti arguti, brillanti pensieri ha prodotto, portando il suo proprietario ai vertici della professione, fuoriesce in buona parte dall’involucro osseo che lo ha contenuto per oltre cinquant’anni e che ora si spacca come una noce al brusco contatto col suolo, poco piú di due secondi dopo che il piede del professore si è staccato dal pavimento, ventidue metri sopra.
In un ultimo, immenso lampo, il grande fuoco d’artificio si spegne nel ricordo di un sorriso fanciullesco e lascivo.
II.
Si vedevano all’Immacolatella, e non c’era bisogno di prendere appuntamento. Si vedevano ogni volta che c’era la notizia della partenza di un piroscafo, di quelli enormi con due fumaioli e la sirena che spaccava le orecchie e tremava in petto, a sentirla da vicino.
Si vedevano nel pomeriggio tardi, quando c’era quell’ora di sospensione dal lavoro da apprendista per l’uno e dalle faccende di casa per l’altra, mentre il padrone di lui dormiva, russando a bocca aperta sulla sedia dietro il banchetto, l’alito rancido di vino, e la madre di lei si metteva a cucire, prima di chiamarla di nuovo, a gran voce, per preparare la cena.
Lui aveva dodici anni e cento negli occhi, le mani nere e rovinate che stavano imparando il mestiere, il corpo magro e nervoso avviluppato in una giacchetta lisa e rivoltata appartenuta a chissà chi e chissà quando. Lei aveva undici anni e cento nella bocca, serrata a trattenere fatica e lacrime, il naso affilato sopra le labbra sottili, le sopracciglia aggrottate sulla determinazione a sopravvivere.
Arrivava prima lui, e si sedeva sempre nello stesso punto, fra le colline di gomene arrotolate che avevano una sezione larga quanto un suo braccio. Un posto d’osservazione scelto con cura, dal quale si vedevano la nave e il molo, e i barconi che caricavano le casse e i fagotti con le cose da portare via. E si vedevano loro, seduti a terra o stesi a dormire fin dal giorno precedente, in attesa di un distacco voluto e temuto, preparato raccogliendo soldi per anni. Dormivano, alcuni, altri guardavano il mare come se mai l’avessero visto, stretti nei miseri abiti, puliti e stirati quasi fosse per una festa. E la grande nave attendeva, due marinai di guardia alla passerella, in una lunga sospensione del tempo prima di emettere il fischio che avrebbe dato il via all’imbarco.
La nave. Una bestia nera, colossale, dal ventre immenso che li avrebbe inghiottiti tutti e tutto avrebbe preso, cose e persone, senza lasciare niente se non il solito, immane vuoto.
La sentí giungere, silenziosa e agile come un gatto randagio, e accovacciarglisi dietro. Non si girò, né spostò lo sguardo dalla coda di persone che attendevano il destino qualche decina di metri piú avanti. C’era un silenzio irreale, mentre il sole tramontava riempiendo il cielo di luglio di fiamme e colori. Lei fissava, oltre il berretto di lui, il mare oleoso e le barche a remi che mulinavano attorno alla grande nave come mosche intorno a un cavallo.
– Chissà dove vanno, – mormorò.
Lui scosse le spalle.
– All’America. Non lo sai che vanno all’America?
– Sí, all’America, – rispose lei, sussurrando ancora come se fosse in chiesa. – Ma dove? È grande, l’America. E poi, quando stanno là, che fanno? Dove vanno? Che si mangiano? Ci stanno i bambini, li vedi. Quelli devono mangiare sempre, se no muoiono.
Lui stette zitto per un po’. Masticava un filo di paglia. Poi disse:
– Anzitutto mo’ vanno a Palermo, alla Sicilia. Caricano altra gente, piú o meno quanto questi qua. E la nave sta venendo da Genova; se guardi bene, a bordo ci stanno già persone, ogni tanto qualcuno si affaccia, vedi? Quelli a Genova si pigliano i posti migliori, poi i napoletani quelli che restano. I siciliani si devono arrangiare.
– E tu come le sai queste cose?
– Me le ha dette Gennarino. Il padre carica le casse a bordo. Gli dànno qualcosa quelli che devono partire, per non far rompere niente. Ha un berretto nero, lo vedi? In fondo alla barca.
Lei accarezzò piano una cima, come se fosse un animale.
– Non è questo che volevo sapere.
– E allora cosa?
– Volevo dire… Insomma, se ne vanno. Non tornano piú. E come fanno? All’America che lingua parlano? Che si mangiano?
Lui scattò, infastidito.
– Ma sempre a mangiare, pensi? Se ne vanno per diventare ricchi, per stare bene. Ma secondo te all’America non mangiano? Mangiano sicuro piú di qua. Sono straccioni, disperati, quello che trovano è meglio di quello che lasciano. Perché non lasciano niente. Proprio niente.
Lei non reagí, continuò ad accarezzare la cima. Un grosso topo fece capolino dai rotoli di gomene vicino ai quali se ne stava accovacciata. Batté il piede a terra e il topo scappò veloce, con un sottile squittio.
– Io non penso sempre a mangiare. Penso a quei bambini e a quelle femmine che seguono i mariti chissà dietro a che. E penso a quelli che restano, guardali.
Subito dietro i partenti c’era un altro gruppo: bambini, donne e soprattutto vecchi, vestiti in modo piú ordinario. Genitori, mogli e figli che avrebbero atteso, probabilmente invano, che gli emigrati mettessero via i soldi, cosí li avrebbero raggiunti, oppure che, sconfitti, tornassero piú affamati di prima.
– Io non ti farei mai partire da solo. Verrei con te. O tutti e due, o nessuno dei due.
Lui ruotò leggermente la testa, serio.
– Io mi sto imparando un mestiere. E sono bravo, lo sai. Lavorerò sempre, e i soldi non ci mancheranno. Non partiamo, se non vuoi partire.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Maurizio De Giovanni.
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