Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La foresta dei pigmei di Isabel Allende. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 9,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La foresta dei pigmei: trama del libro
Kate Cold, il nipote Alex e l’amica Nadia ricevono dal “National Geographic” l’incarico di preparare un reportage sui safari che si svolgono a dorso d’elefante. A Nairobi Alex e Nadia incontrano un’indovina che li avverte di un pericolo imminente: saranno costretti ad affrontare un mostro a tre teste e solo se resteranno uniti riusciranno ad avere la meglio. Quando incontrano Fratel Fernando, un missionario alla ricerca di due confratelli, decidono di aiutarlo. Si ritroveranno nel cuore della giungla dove verranno in contatto con una tribù di pigmei caduti in disgrazia da quando la sacerdotessa Nana-Asante è stata sconfitta e il loro villaggio è diventato feudo di tre personaggi: il re Kosongo, il militare Mbembelé e lo stregone Sembo…
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Le cinque tonnellate di muscoli e grasso di Kobi si fermarono in una piccola oasi, sotto alcune palme polverose tenute in vita da una pozza d’acqua dal colore di tè al latte. Alexander aveva escogitato un sistema tutto suo per calarsi a terra da quei tre metri di altezza senza farsi troppo male, dato che nei cinque giorni di safari non era ancora riuscito a ottenere la collaborazione dell’animale. Non si rese conto che Kobi si era sistemato in modo da farlo atterrare direttamente nella pozza, dove sprofondò fino alle ginocchia. Borobá, la scimmietta nera di Nadia, gli saltò subito addosso. Alexander, cercando di liberarsi della scimmietta, perse l’equilibrio finendo con il sedere a terra. Imprecando a denti stretti, si scrollò di dosso Borobá e si rialzò a fatica, perché non vedeva nulla: gli occhiali grondavano acqua sporca. Si mise allora a cercare un angolo asciutto della maglietta per pulirli, ma uno spintone di Kobi lo fece cadere bocconi. L’elefante aspettò che si rialzasse per fare mezzo giro e collocare il suo monumentale posteriore in posizione opportuna, poi liberò una rumorosissima flatulenza proprio in faccia al ragazzo. Il coro delle risate degli altri membri del safari approvò lo scherzo.
Nadia non aveva fretta di scendere e preferiva attendere che Kobi l’aiutasse a raggiungere il suolo con dignità. Mise i piedi sulle ginocchia che le vennero offerte, si appoggiò alla proboscide e toccò terra con la grazia di una ballerina. L’elefante non riservava queste gentilezze a nessun altro, nemmeno a Michael Mushaha, per cui provava rispetto, ma non affetto. Era un animale dai principi chiari. Una cosa era portare a passeggio i turisti in groppa, un lavoro come un altro, per il quale veniva ricompensato con pasti eccellenti e acqua fangosa, e un’altra, ben diversa, era eseguire numeri da circo per una manciata di arachidi. Gli piacevano le arachidi, perché negarlo?, ma ancora di più gli piaceva tormentare persone come Alexander. Perché gli risultava antipatico? Non lo sapeva bene nemmeno lui, era una questione di pelle. Gli dava fastidio che fosse sempre attorno a Nadia. A disposizione c’erano tredici elefanti, ma lui voleva sempre montare insieme a Nadia: era molto indiscreto da parte di Alexander volersi intromettere fra lui e Nadia. Non si rendeva conto che avevano bisogno di intimità per poter conversare? Un bello scossone e un po’ di vento fetido di tanto in tanto erano il minimo che quel ragazzo si meritasse. Kobi emise un lungo sbuffo quando Nadia toccò terra e la ragazza lo ringraziò con un bel bacio sulla proboscide. Lei sì che conosceva le buone maniere e non lo umiliava mai offrendogli arachidi.
“Quest’elefante è innamorato di Nadia” disse ridendo Kate Cold, la nonna di Alexander.
A Borobá non piaceva la piega che stava prendendo la relazione tra Kobi e la sua padroncina. Li osservava, non senza preoccupazione. L’impegno di Nadia nel voler imparare la lingua dei pachidermi poteva implicare pericolose conseguenze per lei. E se per caso stesse pensando di cambiare mascotte? Forse era giunta l’ora di fingersi malata per recuperare la totale attenzione della padroncina, ma se poi Nadia avesse deciso di lasciarla all’accampamento si sarebbe persa le stupende passeggiate nella riserva. Era la sua unica possibilità di vedere gli animali selvaggi e, d’altro canto, non era saggio perdere di vista il rivale. Si piazzò quindi sulla spalla di Nadia, rivendicando in modo esplicito i suoi privilegi, e da lì minacciò con il pugno l’elefante.
“E la scimmietta è gelosa” aggiunse Kate.
La vecchia giornalista era abituata agli sbalzi d’umore di Borobá, visto che vivevano sotto lo stesso tetto da quasi due anni. Era come condividere la casa con un omino peloso. Le cose erano andate così fin dall’inizio, perché Nadia aveva accettato di raggiungerla a New York per vivere con lei e studiare solo a patto di potersi portare anche Borobá. Erano inseparabili, talmente attaccate l’una all’altra che avevano ottenuto un permesso speciale per poter andare a scuola insieme. Era l’unica scimmia, nella storia degli istituti scolastici newyorkesi, a frequentare regolarmente le lezioni. Kate non si sarebbe stupita di scoprire che sapeva pure leggere. Nei suoi incubi si immaginava Borobá seduta sul divano, con gli occhiali e un bicchiere di brandy, immersa nella lettura delle pagine economiche di un quotidiano.
Kate osservò lo strano trio formato da Alexander, Nadia e Borobá. La scimmietta, gelosa di qualsiasi essere vivente che osasse avvicinarsi alla padroncina, aveva accettato Alexander come un male inevitabile, e col tempo gli si era affezionata. Probabilmente si era resa conto che in quel caso non le conveniva dare un ultimatum a Nadia, “o lui o me”, come faceva di solito. Chissà chi dei due avrebbe scelto… Kate pensò che i due ragazzi erano cambiati molto nel corso dell’ultimo anno. Nadia stava per compiere quindici anni e suo nipote diciotto; aveva già l’aspetto fisico e la serietà di un adulto.
Anche Nadia e Alexander erano consapevoli dei mutamenti. Durante le separazioni obbligate rimanevano in contatto con una tenacia maniacale grazie alla posta elettronica. Passavano la vita al computer in una conversazione senza fine, nella quale condividevano dai dettagli più noiosi della routine quotidiana ai tormenti esistenziali tipici dell’adolescenza. Si spedivano fotografie con una certa frequenza, ma ciò non impediva loro, quando si rivedevano, di rimanere sbalorditi per quanto erano cambiati. Alexander ormai era alto già quanto suo padre. I lineamenti si erano fatti più marcati e da qualche mese doveva radersi quotidianamente. Dal canto suo, Nadia non era più la creatura mingherlina con la piuma di pappagallo all’orecchio che aveva conosciuto qualche anno prima in Amazzonia; ora si poteva già intravedere la donna che nel giro di poco sarebbe diventata.
La nonna e i due ragazzi si trovavano nel cuore dell’africa a compiere il loro primo safari in groppa a un elefante. L’idea era venuta a Michael Mushaha, uno studioso di scienze naturali laureatosi a Londra, convinto che quello fosse il modo migliore per avvicinarsi alla fauna selvaggia. Gli elefanti africani, diversamente da quelli indiani e di altre zone del mondo, non si lasciavano addomesticare facilmente, ma con pazienza e grande cautela Michael ce l’aveva fatta. Nel dépliant lo spiegava in poche parole: “Gli elefanti fanno parte del contesto naturale e la loro presenza non allontana altri animali; non hanno bisogno di benzina né di strade, non inquinano e non sono rumorosi”.
Quando a Kate Cold fu commissionato il reportage, Alexander e Nadia si trovavano con lei a Tunkhala, la capitale del Regno del Drago d’oro. Erano stati invitati dal re Dil Bahadur e dalla moglie Pema a conoscere il loro primogenito e ad assistere all’inaugurazione della nuova statua del drago. Quella originale, andata distrutta in seguito a un’esplosione, era stata sostituita da una copia identica, opera di un gioielliere amico di Kate.
Per la prima volta, il popolo di quel regno dell’Himalaya aveva l’occasione di ammirare il misterioso oggetto leggendario la cui vista fino ad allora era stata riservata esclusivamente al monarca. Dil Bahadur aveva deciso di esporre la statua d’oro e pietre preziose in una sala del palazzo reale dove la gente era sfilata per vederla e depositare offerte di fiori e incenso. Era uno spettacolo magnifico: il drago, posto su una piattaforma di legno policromo, brillava alla luce di cento lampade. Quattro soldati, che sfoggiavano l’uniforme di gala, con i copricapi di pelliccia e i pennacchi di piume, montavano la guardia con lance decorative. Dil Bahadur, infatti, non aveva permesso che si offendesse il popolo dispiegando misure di sicurezza. La cerimonia ufficiale di inaugurazione della statua stava per volgere al termine quando Kate Cold venne avvisata che c’era una telefonata per lei dagli Stati Uniti. Il sistema telefonico del paese era antiquato e le comunicazioni internazionali erano un vero e proprio incubo, ma dopo molto gridare e ripetere, l’editore dell’“International Geographic” era riuscito a far comprendere alla giornalista quale tipo di incarico la stesse aspettando. Si trattava di partire per l’africa, immediatamente.
“Dovrò portarmi dietro mio nipote e la sua amica Nadia, che sono qui con me” aveva spiegato Kate.
“La rivista non può coprire le loro spese, Kate!” aveva replicato l’editore, da una distanza siderale.
“In questo caso, allora, non vado” aveva gridato lei in risposta.
Ed era stato così che alcuni giorni dopo si era ritrovata in africa con i ragazzi, dove era stata raggiunta dai fotografi che lavoravano sempre con lei, l’inglese Timothy Bruce e il latinoamericano Joel González. Nonostante Kate avesse deciso che non avrebbe mai più compiuto un viaggio con suo nipote e Nadia, visti gli spaventi presi nei due viaggi precedenti, aveva poi pensato che una passeggiata turistica per l’africa non avrebbe presentato alcun pericolo.
Un collaboratore di Michael Mushaha ricevette i membri della spedizione al loro atterraggio in Kenya. Diede loro il benvenuto e li accompagnò all’hotel dove si sarebbero potuti riprendere da quel viaggio estenuante: avevano cambiato quattro aerei, attraversato tre continenti e volato per migliaia di chilometri. Il giorno successivo si svegliarono di buon’ora per fare un giro della città e visitare un museo e il mercato, prima di imbarcarsi sull’aereo da turismo che li avrebbe portati al safari.
Il mercato si trovava in un quartiere popolare dalla vegetazione lussureggiante. Le stradine, non asfaltate, erano gremite di gente e di veicoli: motociclette che trasportavano tre o quattro persone alla volta, autobus sconquassati, carretti trainati a mano. Lì si potevano trovare i più svariati prodotti della terra, del mare e della creatività umana, dalle corna di rinoceronte ai pesci dorati del Nilo fino alle armi di contrabbando. I membri del safari si separarono con l’accordo di ritrovarsi dopo un’ora in un determinato angolo. Era più facile a dirsi che a farsi, perché nel frastuono e nella confusione era impossibile orientarsi. Temendo che Nadia si perdesse o venisse investita, Alexander la prese per mano e si allontanarono insieme.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice di origine cilena rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Isabel Allende.
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