Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Forze irresistibili di Danielle Steel, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 5,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99.
Forze irresistibili: trama del libro
Un posto ambitissimo in California è un’occasione da non perdere per Meredith che, sicura del rapporto saldo e tenerissimo con il marito Steve, un valente chirurgo, non esita a lasciare New York. Ma quando si trova davanti Callan Dow, titolare dell’azienda a cui si propone, i dubbi cominciano ad assillarla: Callan, infatti, divorziato con tre figli, la induce a riflettere su quanto un amore possa definirsi completo senza il desiderio di un bambino. E intanto anche Steve scopre di avere molte affinità con la collega Anne…
D’un tratto, alle quattro e dieci, le risate e il chiacchiericcio di tante voci, così come il suono dell’acqua scrosciante, furono coperti dal rumore secco di una serie di colpi d’arma da fuoco. In quella zona della città era tutt’altro che un suono insolito. La gente ammutolì. Per un attimo sembrò che tutti rimanessero immobili, in attesa di ciò che sarebbe successo. Ci fu chi arretrò all’interno del vano di qualche porta, chi si appiattì lungo i muri; due mamme si precipitarono ad acciuffare i loro bambini sotto il getto d’acqua che scaturiva da uno degli idranti. Ma prima che potessero riguadagnare la sicurezza di una porta si udì un’altra scarica di colpi, questa volta più forti e più vicini; tre ragazzi arrivarono correndo e piombarono nel gruppo di persone fermo vicino all’idrante. Durante la corsa inciamparono in qualche bambino, facendolo cadere, e investirono una giovane donna con una violenza tale che crollò all’indietro rotolando sotto l’acqua. Poi, improvvisamente, si levò qualche urlo, mentre comparivano due poliziotti, sbucati da dietro una casa, lanciati all’inseguimento dei tre ragazzi, le pistole in pugno, le pallottole che volavano fra la gente.
Tutto era accaduto talmente in fretta che nessuno aveva avuto tempo di scostarsi per liberare la strada agli agenti, né di mettersi in guardia. In lontananza si sentivano già le sirene. Poi, al di sopra dell’ululato delle auto della polizia che si stavano avvicinando, si levò il suono di un’altra serie di rivoltellate, e questa volta uno dei giovanotti crollò di schianto a terra, con una spalla insanguinata; contemporaneamente uno dei suoi compagni si girò all’improvviso e fece partire dalla pistola che impugnava un colpo che attraversò da parte a parte la testa di un poliziotto, mentre una bambina si mise a urlare cadendo al suolo sotto il violento fiotto d’acqua che scaturiva dall’idrante. Di colpo tutti cominciarono a gridare e a scappare da ogni parte; la madre, vedendo cadere la figlioletta, le corse vicino staccandosi dal vano della porta dove si era riparata, impietrita e inorridita.
In un attimo l’inseguimento giunse al termine. Due dei ragazzi si ritrovarono distesi bocconi sul lastricato mentre uno stuolo di poliziotti badava ad ammanettarli; sul terzo si stavano concentrando i paramedici. A pochi passi di distanza c’era la bambina, gravemente ferita da una pallottola che le aveva attraversato il petto da parte a parte. Giaceva in un mare di sangue e la madre, inginocchiata di fianco a lei, bagnata fino alle ossa dagli spruzzi d’acqua, singhiozzava istericamente stringendola fra le braccia. Ma ormai la creaturina, che aveva cinque anni, aveva perso conoscenza e gli infermieri dovettero lottare con tutte le forze per liberarla dalla stretta convulsa della donna. In meno di un minuto la caricarono su un’ambulanza dove fecero salire in fretta e furia anche la mamma, che continuava a piangere, sconvolta. Era una scena che tutta quella gente aveva già visto decine, se non centinaia, di volte, ma assumeva un significato particolare solo se qualcuno conosceva gli esecutori o le vittime del crimine.
All’angolo della Centoventicinquesima Strada si era formato un enorme groviglio di automobili; l’ambulanza cercò di disincagliarsi dal traffico impazzito e di ripartire con la sirena spiegata. La gente era rimasta ammassata sulla strada, ancora sbalordita dall’accaduto. Una seconda ambulanza portò via dalla scena il giovane ferito durante l’inseguimento, mentre le volanti azzurre e bianche arrivavano da ogni parte, avvertite via radio che un agente era caduto. Gli abitanti del quartiere sapevano benissimo che cosa avrebbe significato la diffusione della notizia. Chissà a quante persone sarebbero saltati i nervi! Chissà quanto odio, che covava sotto la cenere, sarebbe divampato!
C’era da temere il peggio, perché in quella calura terribile sarebbe potuto succedere di tutto. Quella era Harlem d’agosto: la vita era dura, e un poliziotto era appena stato ammazzato.
Intanto, sull’ambulanza che correva a velocità folle in direzione del centro, Henrietta Washington stringeva la mano della sua bambina e osservava, ammutolita e con occhi colmi di orrore, i paramedici che lottavano per tenerla in vita. Ma per il momento non sembrava che sarebbero usciti vittoriosi da quella dura lotta. La piccola era livida, immobile, e tutto intorno a lei era ricoperto del suo sangue: il pavimento, le lenzuola, le braccine, la lettiga, la faccia, il vestito e le mani di sua madre. Sembrava che lì dentro si fosse verificata una carneficina. E per che cosa? Questa creatura non era altro che un’ennesima vittima della guerra infinita tra poliziotti e gangster, gente della malavita, spacciatori, tossici. Anche lei era diventata una pedina di un gioco di cui ignorava tutto, un sacrificio quasi trascurabile fra guerrieri che cercavano di distruggersi a vicenda. Dinella Washington non significava niente per loro, aveva importanza soltanto per le sue amichette, i vicini di casa, le sorelle e la madre. Era la maggiore di quattro figli che Henrietta aveva avuto fra i sedici e i vent’anni, ma, nonostante la loro povertà, nonostante i problemi del quartiere e dell’ambiente in cui lottavano per vivere, la sua mamma le voleva un bene infinito.
«Sta per morire?» domandò Henrietta con voce strozzata, gli occhi sgranati che cercavano lo sguardo di un paramedico. Ma lui non le rispose. Non lo sapeva.
«Stiamo facendo tutto quello che possiamo, signora.» Henrietta Washington aveva ventun anni. Era una donna qualsiasi, un numero, un dato statistico, ma anche molto di più: era una madre, era giovane e voleva ben altro che questo per le sue creature. Voleva un lavoro, sperava di sposare un brav’uomo che l’amasse e accettasse di prendersi cura di lei e delle sue bambine. Ma fino a quel giorno non aveva mai incontrato un uomo così. Al momento le sue bambine erano tutto ciò che possedeva, e non aveva altro da dare loro all’infuori del suo affetto.
Ogni tanto un amico la portava fuori a cena, ma anche lui aveva tre figli da mantenere. Da sei mesi era senza lavoro, e quando usciva con lei beveva troppo. Nessuno dei due se la cavava molto bene: avevano solo il sussidio di disoccupazione e qualche lavoretto saltuario. Non avevano terminato le scuole superiori e vivevano in una zona che poteva considerarsi di guerra. L’esistenza che conducevano e il quartiere in cui abitavano erano praticamente una sentenza di condanna a morte per i loro figli.
L’ambulanza si fermò davanti all’ospedale con uno stridio di freni e i paramedici scesero in fretta e furia con Dinella sulla lettiga. Aveva una maschera d’ossigeno sulla faccia e l’ago di una flebo infilato nel braccio; quanto a Henrietta, capiva solo che sua figlia respirava ancora, ma a stento. Corse dietro la lettiga nella sala del pronto soccorso, con il vestito macchiato di sangue, ma non riuscì più ad avvicinarsi alla sua bambina. Dinella era stata immediatamente circondata da una decina fra infermiere e medici che la stavano già trasportando lungo un corridoio, verso il reparto di traumatologia. Henrietta provò a seguirli, decisa a chiedere a qualcuno che cosa stava succedendo, che cosa avevano intenzione di fare. Voleva sapere se Dinella se la sarebbe cavata. Mille e mille domande le si affollavano nel cervello, quando qualcuno le mise davanti una cartella e una penna.
«Firmi qui!» disse l’infermiera, andando per le spicce.
«Che cos’è?» Henrietta sembrava terrorizzata.
«Dobbiamo operare. Presto, firmi qui!» La donna fece quello che le veniva detto, poi si ritrovò sola in un corridoio, a guardare altre barelle che passavano e le infermiere e i dottori già pronti per un intervento chirurgico che correvano verso la sala operatoria o le camere dei pazienti. Si sentì totalmente sperduta, in preda a un terrore folle. Cominciò a piangere, singhiozzando, in preda al panico. Un’infermiera in casacca e pantaloni di tela verde, la tenuta ospedaliera, accorse e le mise un braccio intorno alle spalle, accompagnandola verso una sedia su cui l’aiutò a prendere posto. Poi si accoccolò vicino a lei, cercando di rassicurarla con voce dolce.
«Stanno facendo tutto quello che possono per sua figlia.» Però aveva già sentito dire che la bambina era in condizioni gravissime, addirittura critiche, e che probabilmente non ne sarebbe uscita viva.
«Che cosa vogliono farle?»
«Cercheranno di riparare per quanto è possibile ai danni provocati dalla ferita e di bloccare l’emorragia. Ha perduto moltissimo sangue prima di arrivare qui.» Era un’interpretazione esageratamente ottimistica della realtà. D’altra parte, bastava osservare le condizioni della madre per capire quanto la situazione fosse drammatica. Henrietta era letteralmente coperta di sangue.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice newyorchese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Danielle Steel.
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