Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il fuoco di Acrab di Licia Troisi. Il romanzo è pubblicato in Italia da Mondadori con un prezzo di copertina di 19,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il fuoco di Acrab: trama del libro
Myra ha creduto al sogno di Acrab, il condottiero che sta abbattendo uno dopo l’altro i regni del Dominio delle Lacrime. Ha creduto alla possibilità di un mondo senza schiavi, senza regnanti crudeli e maghi spietati, dove esseri umani ed elementali potessero vivere liberi e in pace. Per questo è diventata la guerriera più abile dell’esercito ribelle, per questo le sue lame a forma di mezzaluna hanno falciato nemici e sparso sangue, per questo ha rinunciato a tutto quello che non fosse guerra, combattimento e morte. Adesso, però, Myra ha capito che Acrab le ha mentito. Che è stato lui a uccidere suo padre e che l’ha salvata dall’arena e cresciuta come una figlia solo per usare il suo potere di Liberatrice. Dopo aver incontrato l’elementale che protegge la spada sacra di Phylaitek, Myra ha infatti scoperto di essere l’eroina destinata a cambiare il mondo, esattamente quello che Acrab vuole. Aiutata dai suoi nuovi compagni di viaggio, il mago Puro Kyllen e la giovane schiava Marjane, Myra intraprende così un nuovo viaggio attraverso il Dominio delle Lacrime alla ricerca del proprio destino, spazzando via guerrieri e mostri che cercano di sbarrarle la strada. Ma se riuscirà ad arrivare ad Acrab superando le sue difese, sarà in grado di uccidere l’uomo di cui è segretamente innamorata?
Approfondimenti sul libro
Il fuoco di Acrab è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 9,99.
Philagrios era accanto a lei, ma non le aveva rivolto neppure uno sguardo da quando i monaci avevano fatto irruzione nella stanza. Teneva il capo chino, muto e distante, e l’aveva lasciata sola ad affrontare ciò che stava accadendo.
Non era stato così nelle lunghe notti in cui si era infilato nel suo povero alloggio. Non era stato così quando la copriva di carezze e di speranze.
“Un giorno io e te ce ne andremo di qui, ci faremo un’altra vita, una vita solo nostra.”
“E avremo dei figli?”
“Certo, ne avremo molti.”
Simgez gliel’aveva detto: le promesse dei monaci sono prive di significato. “Del resto, prima di giurarti amore eterno, il tuo Philagrios aveva anche fatto voto solenne di castità…”
Ma lei era poco più di una ragazzina: sedici anni, di cui dieci trascorsi a servire al monastero di Kurrah, e gli altri sei un vago ricordo di fame, carestia e disperazione. Era stato facile abbandonarsi a quelle bugie, credere che sarebbero potute diventare verità.
Ma poi il ciclo era scomparso, e a poco a poco il ventre si era ingrossato.
“Sei incinta” aveva sentenziato Simgez.
Non c’era stato neppure bisogno di scegliere; Katifa aveva sempre saputo nel profondo del cuore ciò che voleva: una famiglia numerosa e una vita semplice.
“I bambini non si buttano” aveva risposto a Simgez che aveva paventato la soluzione più semplice, quella che innumerevoli altre ragazze prima di lei avevano praticato tra quelle mura.
“E allora sei morta.”
Katifa lo aveva detto a Philagrios. Nella sua ingenuità, aveva pensato che tutto sarebbe andato bene: avrebbero abbandonato il monastero e sarebbero andati a vivere nell’Alcak, da dove lei proveniva. Non si era posta il problema di come avrebbero vissuto né del fatto che avevano peccato, e questo non sarebbe stato loro perdonato. Il bambino aveva cambiato tutto. La sera si accarezzava il ventre e si sentiva forte, pronta.
Ma Philagrios non aveva reagito come si era immaginata. Aveva balbettato che bisognava aspettare il momento opportuno, che prima era necessario tessere una rete di contatti che potesse proteggere tanto lui quanto lei. E poi le aveva chiesto se era sicura di voler tenere il bambino. Era stato allora che Katifa aveva iniziato a capire.
Gli aveva detto che se la sarebbe cavata da sola, e allora lui le aveva preso le mani e l’aveva rassicurata. Ci sarebbe stato, l’avrebbe aiutata. “Devo solo organizzare tutto.”
Lei aveva scacciato i dubbi e ci aveva creduto.
Era andata avanti così: abiti larghi e fasce a stringere il ventre sempre più prominente durante la gravidanza, e l’aiuto delle altre per evitare quei lavori che non le era più possibile svolgere. E poi, gli ultimi giorni, il rifugio di una piccola cella separata dal resto degli alloggi, dove aveva fatto vita da reclusa, con la creatura che si muoveva dentro di lei come unica compagnia.
Quando aveva partorito, l’aveva fatto stringendo un panno tra i denti. Urlava, e il dolore sembrava insopportabile. Ma come giustificare le grida, nel silenzio del monastero? Simgez le aveva imposto per tutto il tempo di tacere, mentre da sola faceva nascere il suo bambino.
Aveva preso le sue cose due giorni dopo il parto. Si sentiva ancora malissimo, e il neonato non avrebbe potuto affrontare un viaggio così lungo e insidioso: Kurrah si trovava in una zona isolata, lontano da uno qualsiasi dei radissimi villaggi che punteggiavano la Phoinika. Ma non aveva altra scelta.
In un ultimo impeto di follia, aveva fatto visita a Philagrios. Non era mai andato a trovarla negli ultimi mesi, ma Katifa aveva comunque pensato che, se avesse visto il bambino, si sarebbe improvvisamente scoperto padre e l’avrebbe seguita.
E invece, nella stanza, non aveva trovato solo Philagrios, ma anche il suo maestro. Ed era tutto finito.
Il piccolo ora si trovava in braccio a Simgez. Aveva giurato e spergiurato che pensava che Katifa fosse solo ingrassata.
«Nessuna di noi ne sapeva niente.»
«Lo vedremo» disse gelido il Padre Comune.
I monaci del Consiglio erano tutti lì schierati. Katifa sentiva i loro sguardi puntati su di sé, accusatori e disgustati. Eppure la stessa Simgez le aveva detto che uno di loro la andava a trovare spesso quando era giovane. Tutti sapevano che il voto di castità era il più disatteso. Ma l’importante era trasgredire nell’ombra. Il suo peccato non era stato quello di soggiacere ai desideri della carne; era stato sognare una vita diversa, amare il suo bambino e decidere di tenerlo.
Il Padre Comune si fece avanti e si fermò di fronte a Philagrios. Era un vecchio con la schiena ingobbita, il volto rugoso e il capo rasato coperto da una rete di tatuaggi così fitta e antica che ormai i disegni erano pressoché illeggibili. Rimase immobile davanti al ragazzo a lungo, scrutandolo con occhi neri come pozzi.
«Sei consapevole che il voto che hai preso è sacro?»
Philagrios iniziò a singhiozzare. «Sì, maestro.»
«E allora perché hai trasgredito?»
Il ragazzo cercò di rispondere, ma il suo maestro lo interruppe. «È giovane e ha compiuto un grave errore» disse con voce salda e sicura. A differenza del suo allievo, sembrava controllare perfettamente la situazione. «Ma voi sapete come sono queste ragazze, le arti che sanno mettere in campo per irretire un giovane ingenuo…»
Katifa avrebbe voluto dire che era stato Philagrios a farsi avanti la prima volta, che lei non aveva mai fatto nulla per “irretirlo”, ma sapeva che non sarebbe servito a nulla. La vita di un monaco vale molto, in un monastero, quella di una serva qualsiasi non è nulla.
Il Padre Comune si fermò allora davanti a lei. Il suo sguardo era così penetrante che si sentì nuda sotto di esso. «Volevi solo soddisfare la tua lussuria? Oppure speravi di ricattare Philagrios? Volevi costringerlo a portarti via? Immaginavi che si sarebbe fatto carico di te e del tuo figlio bastardo?»
Katifa rimase a testa bassa, ma non pianse. Non voleva dare a quell’uomo questa soddisfazione. Provava pena per Philagrios e le sue lacrime da moccioso debole e vigliacco.
«Non avrai nulla di tutto questo, ne sei consapevole?» Poi il vecchio si girò verso Philagrios. «Non c’è più posto per te qui» disse duro. «Andrai in un altro monastero e lì resterai novizio, senza possibilità di accedere all’ordine.»
Philagrios si portò le mani al volto e pianse senza ritegno.
Il Padre Comune tornò a rivolgersi a Katifa. «Tu e il tuo bambino, invece, verrete abbandonati nel bosco.»
Quella era ben più che una punizione. I novizi, per accedere all’ordine, dovevano trascorrere un anno nel Bosco dell’Ombra; la maggior parte di loro non ce la faceva, moriva di stenti o uccisa dai daralmek, i terribili Draghi Arborei che popolavano quel luogo. Lei non aveva alcuna possibilità di uscirne viva.
«Mi state condannando a morte!» protestò, mentre il vecchio se ne stava già andando, seguito dai monaci del Consiglio. «E assieme a me state condannando una creatura innocente!»
«Dovevi pensarci prima di aprire le gambe» disse il Padre Comune.
Due monaci la afferrarono. Aveva pochi secondi in cui giocarsi la propria vita e quella del bambino. Si guardò intorno come una bestia in gabbia, e i suoi occhi incrociarono quelli del figlio.
E decise.
«Voglio consacrarlo a Urak!»
Il Padre Comune si fermò.
«Voglio consacrarlo a Urak!» gridò Katifa e non smise fino a quando qualcuno la colpì al volto con un manrovescio.
Il silenzio era assoluto.
Il Padre Comune si girò e tornò verso di lei. «È figlio del peccato.»
«Espierò per lui» disse Katifa con sicurezza.
Simgez, accanto a lei, scosse la testa in segno di disapprovazione.
Il Padre Comune le si fece più dappresso, fin quasi a sfiorarle il volto col naso. «Questo non ti salverà.»
«Ma salverà lui.»
«Non sarà mai monaco. È segnato.»
«Ma sarà vivo.»
Il vecchio la guardò a lungo, e per la prima volta Katifa vide nei suoi occhi qualcosa di diverso dal fastidio e dal disgusto. La rispettava. «A quanto pare, almeno uno di voi due sa prendersi le proprie responsabilità» disse a Philagrios, che ne se stava in un angolo, ancora col volto rigato di lacrime e muto.
Poi si scostò dalla ragazza.
«Il piccolo resterà nel monastero, perché è stato consacrato. La madre prenderà su di sé il peso della sua colpa. Domani all’alba verrà portata al nido.»
Katifa rabbrividì un solo istante. Il nido. Uno dei luoghi segreti del Bosco dell’Ombra in cui i daralmek crescevano i loro piccoli e consumavano i pasti. Sarebbe stata sacrificata ai draghi.
Ebbe paura un solo istante. Lei era persa comunque, lo era stata nel momento stesso in cui aveva lasciato che Philagrios entrasse nella sua stanza, quando aveva creduto alle sue menzogne. Ma qualcosa di lei sarebbe rimasto, e allora, se poteva salvare il piccolo, la sua vita non sarebbe stata sprecata.
«Portatela via.»
«Un attimo, ancora un attimo!» Katifa si divincolò.
Il Padre Comune serrò le labbra, nuovamente irritato. «Hai avuto quel che volevi, non mettere alla prova la mia pazienza.»
«Voglio dire addio al mio bambino.»
Il Padre Comune indugiò un istante, quindi alzò una mano.
Simgez annuì e le portò il piccolo. Era minuscolo, ma sembrava incredibilmente consapevole di sé e di tutto ciò che lo circondava. Gli occhi neri, leggermente a mandorla, erano aperti e puntati su di lei. Non piangeva, non si agitava. La guardava tranquillo e al tempo stesso con un’intensità impensabile in un neonato.
Katifa gli accarezzò una guancia e lo baciò. Quindi fissò Simgez. «Qualsiasi nome vogliano mettergli, lui è Acrab. A-crab» scandì. Come suo padre, che l’aveva accompagnata al monastero dieci anni prima, promettendole che avrebbe avuto una bella vita.
“Anche senza di noi” aveva detto stringendola a sé con forza per un’ultima volta.
Simgez e Acrab rimpicciolirono mentre Katifa veniva trascinata via. Si fissò nella mente l’ovale di suo figlio, pensò a tutte le notti trascorse insieme a lui, a sfiorarsi il ventre e a sentirlo muoversi, a giurargli che sarebbe andato tutto bene e a cantargli piano l’unica ninnananna che conosceva.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice italiana rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Licia Troisi.
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