Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Giacomo Casanova di Matteo Strukul. Il romanzo è pubblicato in Italia il 27 marzo 2018 da Mondadori, con un prezzo di copertina di 19,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto).
Giacomo Casanova: trama del libro
Venezia, 1755. Giacomo Casanova è tornato in città, e il precario equilibrio su cui si regge la Repubblica, ormai prossima alla decadenza, rischia di frantumarsi e degenerare nel caos. Lo scenario politico internazionale è in una fase transitoria di delicate alleanze e il disastroso esito della Seconda guerra di Morea ha svuotato le casse della Serenissima.Il doge Francesco Loredan versa in pessime condizioni di salute, e l’inquisitore Pietro Garzoni trama alle sue spalle per ottenere il consenso all’interno del Consiglio dei Dieci e influenzare così la successione al dogado. Il suo sogno proibito è arrestare il seduttore spadaccino, e per far questo gli mette alle calcagna il suo laido servitore Zago.
Rubacuori galante e agile funambolo, Casanova entra in scena prendendo parte a una rissa alla Cantina do Mori, la più antica osteria della laguna, per difendere una bellissima fanciulla, Gretchen Fassnauer, apparsa a consegnargli un messaggio: la contessa Margarethe von Steinberg vorrebbe incontrarlo. La nobile austriaca intende sfidarlo a una singolare contesa: se riuscirà a sedurre la bella Francesca Erizzo, figlia di uno dei maggiorenti della città, allora lei sarà sua. Casanova accetta, forte del suo impareggiabile fascino. È l’inizio di una serie di rocambolesche avventure che lo porteranno ad affrontare in duello Alvise, il focoso spasimante di lei, uccidendolo. Il guaio più serio e inaspettato è però un altro: Casanova, per la prima volta, si innamorerà davvero.
Le fosche macchinazioni dell’inquisitore avranno successo e Giacomo verrà incarcerato ai Piombi, mentre Francesca finirà murata in convento. Con il cuore spezzato, Casanova nutrirà il sospetto che l’intera vicenda sia stata architettata dalla diabolica contessa per toglierlo di mezzo. Evaso, si metterà sulle sue tracce e, fra inseguimenti, imboscate e intrighi notturni, arriverà ad affrontarla in un ultimo faccia a faccia mozzafiato: scoprirà di essere stato pedina in un gioco di spie fra Venezia e l’Impero Austriaco e infine si troverà ad accettare a sua volta un incarico della massima segretezza.
Approfondimenti sul libro
Giacomo Casanova è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 9,99.
Il gioco dell’impiccato
Il leone alato da una parte. San Teodoro dall’altra.
La folla urlò inferocita. Una marea scomposta e annerita di collera in cui galleggiavano volti sporchi e miserabili, facce dipinte di smorfie e risa di scherno, occhi bistrati e nasi bianchi di cipria. Mercanti, calderai, osti e profumieri, serve e camerieri, puttane, ricchi signori e dame dal viso candido, poi ancora pezzenti, macellai e perfino bambini: tutti uguali, per una volta, tutti pronti a non perdere nemmeno un istante di quel gioco macabro e irresistibile.
Il condannato era davanti a loro. In piedi sul palco in legno.
Qualcuno alzò i pugni al cielo, qualcun altro gridò il proprio disgusto.
Stormi bianchi di gabbiani gridavano litanie sghembe sopra la forca. Pregustavano il pasto, il gozzo pieno di quel che l’uomo sarebbe divenuto: pattume e merda.
Il condannato aveva gli occhi sbarrati: lacrime si allungavano sulle gote e gli impastavano il volto sporco di muco e fango. Alle sue spalle, le gondole danzavano macabre nel bacino di San Marco; alla sua destra, oltre la gente urlante, le arcate bianche di Palazzo Ducale.
Il sole primaverile dondolò distratto, virando all’arancio, per poi immergersi nella laguna, incendiandola come ambra liquida. Il condannato girò lo sguardo di lato. Sopra un tavolaccio vide la bacinella di ferro contenente le tenaglie brune, grondanti sangue. Nella pozza rossa galleggiavano denti.
I suoi.
Avrebbe voluto sputare. Eppure la bocca rimaneva sigillata in una sfera molle di carne mentre la lingua si allungava disperata nei buchi lasciati dai canini strappati.
La paura gli mangiava l’anima. Voleva urlare, ma l’aria era finita da un pezzo. Al suo posto, un sasso scuro gli spaccava il respiro.
Il moncherino pulsò rabbioso. Il dolore s’irradiava in onde che gli dilaniavano la carne come arpioni: dal polso fino alla spalla e poi al resto del corpo.
Quando gli avevano mozzato la mano, un barbiere, insieme agli sbirri, gli aveva chiuso quel che restava del braccio dentro a una guaina di porco per impedirgli di morire dissanguato.
Non subito, perlomeno.
Il cappio già tirava sopra la nuca, impaziente, e sembrò ricordargli quello che sarebbe seguito. Vide gli inquisitori di Stato osservarlo in silenzio dal palco drappeggiato di nero: le labbra sigillate, gli occhi a fessura simili a ferite di coltello.
Lo fissavano con sdegno come uccelli del malaugurio.
Torce e bracieri e mazzi di candele lambivano con lingue scarlatte l’aria che andava facendosi scura sotto il rame del tramonto.
L’inquisitore rosso abbassò il capo in cenno d’assenso.
La sua mano si alzò.
Il boia cominciò a spingere la sbarra di legno.
La folla rombò grida di giubilo.
Il condannato udì le ruote cigolare sinistre nell’ingranaggio e scandire gli istanti della sua morte.
La corda si tese. Il condannato perse l’appoggio delle assi del palco.
Il nodo gli tagliò il respiro. Le gambe scalciarono nel vuoto.
Mentre davanti ai suoi occhi il mondo si deformava in un carnevale di morte, portò la mano ancora buona alla corda. Gli uscì un urlo sordo. Vide il moncherino nella guaina di porco agitarsi nell’aria, quasi fosse altro da sé.
Salendo verso l’alto, issato dalla corda, l’intero suo corpo fremette disperato per tentare di rimettere i piedi a terra.
Le punte dei suoi stivali danzarono nell’aria.
Gli ultimi spasmi lo fecero tremare.
Avvertì l’odore marcio della laguna salirgli un’ultima volta nella strozza, ma era già troppo tardi. Venezia gli aveva appena spremuto la vita fuori dal corpo e ora se ne stava lì, da puttana qual era, a vederlo agonizzare, succhiandogli gli ultimi attimi di vita.
Fino a quando non rimase appeso, fermo, gli occhi ormai di vetro.
Impiccato.
In piazzetta San Marco.
2
Ritorno a Venezia
I lunghi capelli color carbone gli ricadevano sul viso in ciocche disordinate e lucenti. Gli occhi, in parte nascosti dietro un ciuffo ribaldo, lampeggiavano un irriverente color acquamarina e rivelavano un’energia non comune. Un sorriso bianco gli tagliava il viso mentre se ne stava comodamente seduto a un tavolaccio in legno.
Si gingillava con un goto, un bicchiere in vetro, incerto se gustare la Malvasia dalle sfumature chiare che vi era appena stata versata.
Situata nel sestiere di San Polo, nei pressi di Rialto, la Cantina Do Mori non era certo il miglior bacaro di Venezia, anzi godeva di pessima fama, frequentata com’era da balordi e avventurieri della peggior risma. Era però l’osteria più antica della città e su un fatto concordavano tutti: vi si servivano i vini migliori della Serenissima. Il goto de’ vin dei Do Mori non temeva confronti.
Inoltre, un’altra caratteristica la rendeva unica: godeva di due provvidenziali entrate, l’una da calle Do Mori, l’altra da calle Galeazza. E dato che Casanova era l’uomo che era, un doppio ingresso, o meglio, una doppia via d’uscita era quanto di più utile potesse chiedere a un bacaro.
Un paio di botti di legno come tavoli, qualche sedia impagliata e un lungo bancone di rovere incorniciavano un luogo semplice e franco che rifletteva in modo autentico il carattere dell’oste, Marco Spinazzi: un pezzo d’uomo dall’aria coriacea e dal codino catramato che pareva uscito fuori dalla cambusa di una nave pirata.
Eppure, quel pomeriggio, gli avventori dei Do Mori avrebbero avuto ben altro di cui parlare, oltre alla bontà del vino o alle avverse fortune che sembravano aver precipitato Venezia nel periodo più buio e complesso della sua storia straordinaria.
Poiché, era un fatto, alcuni fra loro conoscevano di fama l’uomo dai capelli lunghi da poco entrato e che ora si era deciso a portare il goto de’ vin alle labbra.
E proprio perché ne sapevano la fama, erano anche consapevoli che il suo ritorno poteva portare solo sventura.
Qualcuno, non visto, gli scoccò un’occhiata sghemba.
Vestiva una magnifica marsina color marrone bruciato sopra un elegante panciotto e una camicia merlettata dalle maniche a sbuffo. Ai piedi calzava stivali di cuoio lucido. Non portava parrucca, e aveva raccolto la chioma in un fiocco nero di velluto.
Avventuriero, seduttore, spadaccino e cabalista, quell’uomo sguazzava come un pesce nell’acqua fra sfide e duelli, vizi e inganni. Il suo nome era sinonimo di guai, e incrociare il suo sguardo una volta di troppo poteva risultare fatale.
Se i clienti dell’osteria avessero saputo cosa li attendeva di lì a poco, si sarebbero volatilizzati all’istante.
Ma così non fu. Quel che accadde fu solo colpa del destino avverso e dell’unica creatura che avrebbe potuto superare, quanto a sventura, perfino quel campione assoluto.
Quella creatura era una donna.
Di grande avvenenza, per giunta.
Quando entrò, fu come se d’improvviso si fosse alzato il vento. La sua bellezza era talmente vistosa da risultare sfrontata, quasi si divertisse a sfidare chi le stava attorno. Indossava un abito verde smeraldo che esaltava, per contrasto, gli splendidi capelli castani, raccolti in un’acconciatura elaborata ma allo stesso tempo discreta che ne sottolineava i riflessi cioccolato. Le labbra piene e rosse sembravano naturalmente increspate da un sorriso e lo sguardo rivelava una spensierata furbizia che la rendeva immediatamente desiderabile.
L’oste levò impercettibilmente gli occhi al soffitto, presagendo valanghe di guai.
Che puntualmente arrivarono.
Un uomo dalla parrucca candida e lo sguardo arrogante, che da qualche tempo stava conversando con un paio di compari, non mancò di graffiare quell’incantesimo. Mandandolo in frantumi.
«Dunque, non tutti i tuoi avventori sono garzoni e perdigiorno, non è vero, Marco?» e così dicendo strizzò l’occhio con fare complice all’oste, il quale si guardò bene dal rispondere.
Poi, confortato da quel silenzio, l’uomo continuò: «Mia signora, sono il cavalier Andrea Zanon, e la prego di considerarmi fin d’ora suo umile servitore. Di qualsiasi cosa lei abbia bisogno, la imploro, non esiti a chiedere».
La donna lo trafisse con uno sguardo scintillante, come se si aspettasse quel tipo di benvenuto. Poi, in silenzio, osservò per un istante gli altri avventori dell’osteria, lasciando lampeggiare le sue iridi grigie. Infine rispose.
«Gentile cavaliere, mi chiamo Gretchen Fassnauer e sono al servizio della contessa Margarethe von Steinberg. Sto cercando una persona con cui la mia signora vorrebbe interloquire.»
Le parole dondolarono sulle note languide della voce roca e rivelarono un ottimo italiano dal marcato accento austriaco.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore padovano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Matteo Strukul.
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