Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il gioco degli specchi di Andrea Camilleri, romanzo edito in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 9,99 ed è il diciottesimo tra i volumi dedicati al commissario Montalbano.
Il gioco degli specchi: trama del libro
Il commissario Montalbano si tiene costantemente d’occhio. È frastornato dai trasognamenti. Ha paura di scivolare in un mondo che sempre più gli appare complice delle apparenze. Capisce che attorno a lui realtà e illusione si sfiorano e si confondono. Ha anche la sensazione di essere manovrato. Qualcuno, misterioso e inaccessibile, gioca ingegnosamente con lui. Cerca di confonderlo con il suo zelo epistolare e telefonico, con le sue anonime delazioni. Misura i passi del commissario. Li indirizza. Li spinge là dove è inutile che vadano, dove nulla sembra coincidere con nulla: lungo piste che, se sono giuste, si rendono irriconoscibili, si cancellano, o si labirintizzano. Montalbano ha una sua cultura cinematografica. E gli viene in mente il vecchio e glorioso film La signora di Shanghai di Orson Welles: il torbido noir, con tutti i suoi scombussolamenti, e tutti i suoi illusionismi barocchi. Montalbano entra nel film. E vede se stesso disorientato, dentro la scena finale, nella sala degli specchi di un padiglione del Luna Park. Il prodigio degli specchi altera lo spazio visibile. Crea nuove e precarie geometrie, dentro le quali i personaggi si moltiplicano, entrano ed escono, senza che se ne capisca la direzione; senza che possano essere sicuramente collocati, a destra, a sinistra, davanti, di dietro. Si spara, in questo labirinto di riflessi e rifrazioni. Ma non si capisce se i bersagli sono reali o esito di un gioco di specchi. Un villino, un giro di macchine, una storia d’amore un po’ scespiriana, due esplosioni apparentemente insensate, un proiettile senza tracciabile direzione, una coppia di cadaveri, bruciato uno, bestialmente violentato l’altro, entrano nella trama del romanzo. Vorticano tra i riflessi ingannevoli, le deformazioni e le mezze verità di metaforici specchi. La narrazione si concede focali corte, inquadrature insolite, avanzamenti lentissimi alternati a piani-sequenza vertiginosi. Scorre come un film. Turba e sconvolge, ma non si nega qualche respiro ludico, utile anch’esso alla soluzione del giallo. Persino Catarella ha il suo momento di gloria, alla fine. Viene nominato sul campo, con chisciottesca investitura, agente mandato in missione segreta. (Salvatore Silvano Nigro)
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Il profissori, cinquantino, capilli a caschetto con la riga ’n mezzo, varbetta caprigna, occhiali d’oro, cammisi bianco che più bianco non si può e ariata ’ntipatica e supponenti, gli aviva arrivolto a mitraglia un migliaro di dimanne tipo:
«Chi era Abramo Lincoln?».
«Chi scoprì l’America?».
«Se vede un bel sedere di donna a cosa pensa?».
«Nove per nove?».
«Tra un cono gelato e un pezzo di pane ammuffito che preferisce?».
«Quanti furono i sette re di Roma?».
«Tra un film comico e uno spettacolo pirotecnico quale sceglie?».
«Se un cane l’assale, lei scappa o gli ringhia contro?».
A un certo momento il profissori s’azzittì di colpo, fici ehm ehm con la gola, si livò un pilocco dalla manica del cammisi, taliò fisso a Montalbano, po’ sospirò, scotì amaramenti la testa, sospirò ancora, rifici ehm ehm, schiacciò un bottoni e automaticamenti i braccialetti si raprero, il casco si sollivò.
«La visita sarebbe terminata» dissi annanno ad assittarisi darrè alla scrivania che c’era in un angolo dello studdio medico e accomenzanno a scriviri al computer.
Montalbano si susì addritta, pigliò ’n mano mutanne e pantaloni, ma ristò ’mparpagliato.
Che significava quel sarebbe? Era finuta o no, ’sta grannissima camurria di visita?
’Na simana avanti aviva arricivuto un avviso a firma del questori nel quali lo si ’nformava come e qualmenti, in base alle novi norme per il personali emanate di pirsona pirsonalmenti dal ministro, avrebbi dovuto sottoporsi a un controllo di sanità mintali presso la clinica Maria Vergine di Montelusa entro e non oltre deci jorni.
Com’è che un ministro pò fari controllari la sanità mintali di un dipinnenti e un dipinnenti non pò fari controllari la sanità mintali del ministro?, si era spiato santianno. Aviva protistato col questori.
«Cosa vuole che le dica, Montalbano? Sono ordini dall’alto. I suoi colleghi si sono adeguati».
Adeguarsi era la parola d’ordini. Se non t’adeguavi, avrebbiro nisciuto ’na filama, che eri un pedofilo, un magnaccia, uno stupratore abituali di monache e ti avrebbiro costretto alle dimissioni.
«Perché non si riveste?» addimannò il profissori.
«Perché non…» farfugliò tintanno ’na spiegazioni e accomenzanno a rivistirisi. E ccà capitò l’incidenti. I pantaloni non gli trasivano cchiù. Erano sicuramenti quelli stissi che aviva quanno era arrivato, però si erano stringiuti. Per quanto tirasse narrè la panza, per quanto si ’nturciniasse tutto, non c’era verso, non gli trasivano. Come minimo, erano di tre taglie ’nfiriori alla sò. Nell’urtimo dispirato tintativo che fici, persi l’equilibrio, s’appuiò con una mano a un carrello con supra ’n apparecchio mistirioso e il carrello sinni partì a razzo annanno a sbattiri contro la scrivania del profissori. Che satò all’aria scantato.
«Ma è impazzito?!».
«Non mi entrano i pa… i pantaloni» balbettò il commissario tintanno di giustificarisi.
Allura il profissori si susì arraggiato, pigliò i pantaloni per la cintura e glieli tirò su.
Trasero pirfettamenti.
Montalbano si sintì vrigognoso come un picciliddro dell’asilo che, annato al cesso, ha avuto bisogno della maestra per rivistirisi.
«Già nutrivo seri dubbi» fici il profissori riassittannosi e ripiglianno a scriviri «ma quest’ultimo episodio fuga ogni mia incertezza».
Che ’ntinniva diri?
«Si spieghi meglio».
«Cosa vuole che le spieghi? È tutto talmente chiaro! Io le domando a cosa pensa davanti a un bel sedere femminile e lei mi risponde che pensa ad Abramo Lincoln!».
Il commissario strammò.
«Io?! Io ho risposto così?».
«Vuole contestare la registrazione?».
A ’sto punto Montalbano ebbi un lampo e accapì. Era caduto in un trainello!
«È una congiura!» si misi a fari voci. «Voliti farimi passare per pazzo!». Non aviva finuto di gridari che la porta si spalancò e comparsero dù ’nfirmeri forzuti che l’aggramparo. Montalbano circò di libbirarisi santianno e mollanno càvuci a dritta e a manca e allura…
… e allura s’arrisbigliò. Tutto sudatizzo, il linzòlo tanto arravugliato torno torno al corpo che non potiva cataminarisi, pariva ’na mummia.
Quanno doppo contorsioni varie si libbirò, taliò il ralogio. Erano le sei.
Dalla finestra aperta trasiva aria càvuda di scirocco. Il pezzo di celo che vidiva dal letto era tutto cummigliato da ’na nuvolaglia lattiginosa. Addecidì di starisinni corcato ancora ’na decina di minuti.
No, il sogno che aviva appena finuto di fari era sbagliato. Lui non sarebbi mai nisciuto pazzo, ne era certo. Semmai si sarebbi a picca a picca rimbambito, scordannosi macari nomi e facci delle pirsone cchiù care, fino a sprufunnari in una speci di solitudini ’ncoscenti.
Ma che confortevoli pinseri che gli vinivano di primo matino! Reagì susennosi e precipitannosi ’n cucina a pripararisi il cafè.
Quanno fu pronto per nesciri, s’addunò ch’era troppo presto per annare in commissariato. Raprì la porta-finestra della verandina, s’assittò fora, si fumò ’na sicaretta. Faciva veramenti càvudo. Prifirì trasire dintra e mittirisi a tambasiare casa casa fino a quanno non si ficiro le otto.
Allura acchianò ’n machina, principiò a fari la brevi stratuzza che collegava Marinella alla provinciali. A ducento metri dal sò villino cinni stava ’n autro, squasi uguali, che doppo anni che era ristato sfitto, ora da cinco misi era bitato da ’na coppia senza figli, i signori Lombardo. Lui, Adriano, era un quarantacinchino àvuto, aliganti, che, a quanto gli aviva arrifirito Fazio, era il rapprisintanti unico per tutta l’isola di ’na grossa marca di computer epperciò viaggiava spisso. Possidiva ’na machina sportiva viloci. Sò mogliere Liliana, che aviva deci anni meno di lui, era ’na beddra bruna torinisa di tutto rispetto. Àvuta, gamme longhe e pirfette, doviva aviri praticato qualichi sport. E quanno uno la vidiva caminare taliannola di darrè certamenti, manco se era un pazzo furioso, pinsava ad Abramo Lincoln. Lei ’nveci aviva ’na machina giapponisa di cità.
Con Montalbano avivano sulo rapporti limitati al bongiorno e alla bonasira quanno che raramenti si ’ncontravano con le machine nella stratuzza e allura era ’na camurria di manopire pirchì dù auto ’n contemporanea non ci passavano.
Quella matina il commissario vitti, con la cuda dell’occhio, la machina della vicina col cofano isato e la signura calata a mità a taliarici dintra. Di certo c’era qualichi probrema. Dato che non aviva nisciuna prescia, squasi senza pinsarici sterzò a dritta, fici deci metri e s’attrovò davanti al cancello aperto del villino. Senza scinniri dalla machina spiò:
«Serve aiuto?».
La signura Liliana gli arrigalò un sorriso di gratitudini.
«Non parte!».
Montalbano scinnì, ma ristò fora dal cancello.
«Se deve venire in paese, le do un passaggio».
«Grazie, ho anche una certa urgenza. Ma non potrebbe dare un’occhiata al motore?».
«Signora, mi creda, non ci capisco assolutamente niente».
«Allora vengo con lei».
Chiuì il cofano, niscì dal cancello lassannolo aperto, acchianò ’n machina mentri che il commissario le tiniva lo sportello.
Partero. A malgrado dei finistrini calati, la machina si inchì del profumo di lei, dilicato e penetranti a un tempo.
«Il problema è che non conosco nessun meccanico. E mio marito tornerà solo tra quattro giorni».
«Potrebbe telefonargli». La signura parse non aviri sintuto il suggerimento.
«Non potrebbe indicarmene uno lei?».
«Certamente. Ma non ho con me il suo numero di telefono. Se vuole, l’accompagno da lui».
«Lei è veramente gentile».
Non parlaro cchiù per il rimanenti della strata. Montalbano non voliva passari per curioso, lei, da parti sò, era cortesi e affabili, ma si vidiva che non le piaciva dari confidenzia. La prisintò al meccanico, la signura tornò a ringraziarlo e accussì finì il brevi ’ncontro.
«Ci sono Augello e Fazio?».
«Dottori, in loco stanno».
«Mannali ’nni mia».
«E come fanno a viniri, dottori?» spiò ’mparpagliato Catarella.
«Che significa come fanno? Usanno le loro gamme!».
«Ma non stanno ccà, dottori, stanno in loco indov’è il loco!».
«E indov’è ’sto loco?».
«Aspittasse che talio».
Pigliò un pizzino, lo liggì.
«Ccà ci sta scrivuto via Pissaviacane vintotto».
«Sei certo che si chiama via Pissaviacane?».
«Come la morti, dottori».
Mai sintuta nominari.
«Chiamami a Fazio e passamelo in ufficio».
Squillò il tilefono.
«Fazio, che succedi?».
«Stamatina all’arba misiro ’na bumma davanti a un magazzino di via Pisacane. Nisciun firito, sulo un gran scanto e qualichi vitro rotto. Oltri alla saracinesca sfunnata, naturalmenti».
«Un magazzino di che?».
«Di nenti. Da squasi un anno è vacante».
«Ah. Il propietario?».
«L’ho ’nterrogato. Poi ci conto tutto, tra un’orata al massimo semo di ritorno».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore siciliano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrea Camilleri.
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