Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il gioco delle tre carte di Marco Malvaldi. Il romanzo è pubblicato in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il gioco delle tre carte: trama del libro
Ritorna, con la seconda avventura dopo “La briscola in cinque”, la squadra di investigatori del BarLume di Pineta, detto anche “l’asilo senile”. A parte il barista Massimo e la sua banconista, la bella e comprensiva Tiziana, il più giovane del gruppo è Aldo, ultrasettantenne gestore dell’osteria Boccaccio. Seguono Nonno Ampelio, Pilade, il Del Tacca del Comune, il Rimediotti. La loro attività, unica, più che principale, si svolge nel presidiare il BarLume e, dietro il paravento della partita a carte, passare al setaccio tutti gli avvenimenti di Pineta, in un pettegolezzo toscano senza eufemismi e senza ritrosie. Qualche volta resta nelle maglie fitte della rete, un fatto criminale. In realtà è Massimo, pronto all’intuizione ma svogliato all’azione, che è spinto a investigare, richiesto casualmente dal commissario Fusco. I vecchietti fanno da polo dialettico in un contraddire minuzioso che però facilita la sintesi: corale ambientazione umana, provinciale e antiglobalizzata (lenta, senza preoccupazione di efficienza mezzo-fine). Uno sfondo di commedia italiana a dei gialli enigmistici la cui soluzione è affidata alla virtù del ragionamento e alla fortuna del caso. Nel gioco delle tre carte un esercizio di abilità e di elusione fornisce lo schema per risolvere un enigma criminoso consistente nel nascondere ostentando. Nel corso di un congresso, viene ucciso un professore giapponese. La chiave del mistero è in un computer che in apparenza non contiene niente di significativo.
Approfondimenti sul libro
In ebook Il gioco delle tre carte (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 8,49 euro.
Koichi Kawaguchi era preoccupato perché era la prima volta che usciva dal Giappone, non solo per andare ad un congresso ma in generale, e gli avevano detto che l’Italia era un paese bellissimo, ma estremamente confusionario e disorganizzato. Per di più, Koichi era una persona apprensiva in modo quasi patologico. Quindi, l’idea di trovarsi da solo, in un aeroporto sconosciuto, in un paese di cui non conosceva la lingua, a dover prendere un volo interno che partiva solo due ore dopo l’atterraggio da Tokyo gli aveva messo addosso l’ansia da circa un mese.
E invece, era andata molto meglio del previsto.
Tanto per cominciare, già alla partenza da Narita aveva riconosciuto alcune persone che andavano al congresso. Pur non conoscendoli di persona, Koichi aveva visto alcuni ragazzi che tra i bagagli avevano appeso a tracolla un tubo di plastica portadisegni, il che li identificava immediatamente come persone che vanno ad un congresso scientifico.
Ad un congresso, infatti, i giovani raramente tengono una conferenza o una comunicazione orale. Di solito, per loro viene organizzata una cosiddetta «poster session», ovvero un ritaglio di tempo nel quale ogni giovine cosiddetto scienziato spiega di persona ad ogni congressista che si fermi davanti al suo poster che tipo di ricerca ha svolto, in modo molto informale. Il poster in questione di solito viene conservato dal suo proprietario, arrotolato con cura, dentro ad uno di quei tubi portadisegni di cui si diceva prima, e che di solito non passano inosservati. Questo, sia detto per inciso, non per merito del loro design elegante, ma piuttosto per colpa della loro perversa funzionalità: detti marchingegni, infatti, sono progettati con cura al fine di incastrarsi in modo improvviso in ogni apertura che ne dia loro la possibilità, ivi comprese le gambe dell’imberbe proprietario e dei suoi vicini più prossimi. L’imprevedibile dinamica dell’oggetto dà quindi sovente luogo ad un corollario di inciampi, semicadute e scippi involontari che rompono in modo vistoso la monotonia del terminal.
Al di là delle loro fastidiose conseguenze a livello meccanico, i tubi avevano permesso a Koichi di riconoscere dei potenziali congressisti, e dai discorsi colti al volo aveva capito che andavano esattamente allo stesso congresso.
Per cui, aveva deciso con un misto di timidezza e decisione tipicamente nipponica di non perdere di vista il gruppo di compatrioti e di seguirli con discrezione, senza tuttavia presentarsi. Era il suo primo viaggio all’estero, infatti, e voleva gustarselo da solo il più possibile. Nonostante questo, era ben deciso a non pedinare i suoi connazionali e a sfruttarli come cani guida, specialmente all’arrivo a Fiumicino dove, era convinto, si sarebbe trovato di fronte ad una confusione dantesca.
E invece, aveva trovato l’aeroporto romano sorprendentemente tranquillo. Nessuna traccia di quelle straripanti fiumane di gente vociante, popolate da orde di borseggiatori avidi di portafogli del Sol Levante, che caratterizzavano i suoi incubi a occhi aperti da qualche settimana. Nessun urlo, nessuno schiamazzo, e anzi una quantità di persone sorprendentemente bassa. Metterla a confronto con quella in cui si trovava immerso nella stazione di Shinjuku della metropolitana di Tokyo, a cui scendeva tutte le mattine, era come paragonare la densità di giocatori presenti su un campo di calcio rispetto a quella di gente in curva.
L’impressione dell’aeroporto, a prima vista, era abbastanza deludente, con un che di provinciale. Brutti i pochi negozi che occupavano il primo piano, decisamente poco invitanti il ristorante-pizzeria-caffetteria e i due bar che si contendevano il diritto di sfamare l’atterrato viandante.
Eppure, inaspettatamente, il posto gli piaceva.
Gli piaceva l’evidente calma con cui gli italiani facevano le cose, il sorriso con cui l’agente di polizia gli aveva controllato il documento e augurato buon soggiorno in un inglese zoppicante nonostante il lavoro in un aeroporto. L’inspiegabile eppure evidente compiacimento del barista a cui aveva chiesto un caffè, come se prendere un caffè a quell’ora e in quel bar fosse la cosa giusta da fare per uno che sa stare al mondo. E il caffè, scuro e concentrato, servito in una tazzina già riscaldata, era buonissimo.
Altre cose gli erano piaciute di meno, come le toilette. Aveva sentito dire che gli italiani erano il popolo più pulito d’Europa; evidentemente, si era trovato a pensare, le toilette dell’aeroporto devono essere pensate per i tedeschi. Ampie, senza dubbio, ma col pavimento bagnaticcio e sudicio all’inverosimile, il rubinetto senza mezze misure che – se aperto meno della metà – stillava una misera e striminzita gocciolina a intervalli di due o tre secondi oppure – se aperto oltre – dava l’impressione di avere forato una diga. E poi, la tazza con la tavoletta non riscaldata. A Tokyo tutti i bagni pubblici avevano la tazza con tavoletta riscaldata. C’era disaccordo, tra Italia e Giappone, su quali tazze fosse opportuno riscaldare.
Recatosi nella sala check-in, Koichi vide che l’aereo che avrebbe dovuto partire appena due ore dopo l’atterraggio del volo da Tokyo era dato con ulteriori due ore di confortevole ritardo.
Questo lo rasserenò ulteriormente. Anzi, lo tranquillizzò a tal punto che decise, in piena sintonia con lo spirito italiano, di tornare al bar e prendere un altro caffè.
– Un caffè, per favore. Voi cosa volete?
– Anche per me un caffè.
– Per me un succo d’arancia. Se prendo un altro caffè entro in risonanza.
Quella mattina, quando il barista dell’aeroporto Galilei di Pisa li aveva visti per la prima volta, i tre giovani avevano un aspetto decisamente migliore.
Adesso, alle cinque di sera, dopo sette ore di attesa davanti all’unico terminal dell’aeroporto, avevano un’aria un po’ disastrata. Le camicie, nonostante i continui rimboccamenti, fuoriuscivano dai pantaloni in rassegnati sbuffi asimmetrici, e uno dei tre aveva sotto le ascelle due vasti aloni di sudore. Le facce erano sbattute, e la conversazione languiva tra grugniti e lamenti generici.
– Comunque, è l’ultima volta che mi faccio fregare così.
– Sì, come no. Anche l’anno scorso hai detto la stessa cosa. E comunque, è automatico che è l’ultima volta che ci facciamo fregare così. Non so a voi, ma a me la borsa vedrai che non me la rinnovano.
A parlare così era il più anziano – per quanto questo termine potesse sembrare fuori luogo per descrivere dei trentenni – dei tre ragazzi, un tipo alto alto e con le spalle larghe, con un viso dai lineamenti marcati e vari orecchini al lobo destro. La borsa cui si riferiva era nient’altro che la borsa di studio da euri 1.238,56 mensili, della durata di anni uno, che gli era stata generosamente concessa l’anno precedente dal Dipartimento di Chimica e Chimica Industriale di Pisa dopo aver conseguito il dottorato in attesa che – come gli aveva detto il suo professore – «maturino tempi migliori per vedere di ritagliarti qualcosina di un po’ più stabile» o alternativamente – come diceva lui – «che qualcuno di questi vecchiardi che fanno tanto finta di preoccuparsi di noi si accorga di avere centotrent’anni, si ritiri in campagna a coltivare le rape e liberi un posto, maremma maiala».
Gli altri due suoi sodali, invece, erano ancora studenti di dottorato, e la posizione di tutti e tre comportava, come sempre nel caso dei precari universitari, oneri non scritti ai quali non era pensabile sottrarsi; uno di questi, ad esempio, prevedeva che nel caso in cui il tuo Dipartimento organizzi un congresso tu debba far parte in modo ufficioso, ma obbligatorio, del comitato organizzatore. Il che significa, tradotto in pratica, doverti occupare dell’arrivo e dei bisogni dei partecipanti esterni al congresso.
Per questo, nell’ambito del «XII International Workshop on Macromolecular and Biomacromolecular Chemistry» i tre erano stati precettati dalla responsabile amministrativa del Dipartimento di Chimica per andare a prendere all’aeroporto i vari gruppi di professori e studenti esteri e scortarli all’albergo. Dopo aver accolto severi professori scandinavi, someggiato bauli di anziane studiose americane, ritrovato bagagli e figli di isteriche ricercatrici spagnole e guidato armenti di scienziati giapponesi verso il capiente autobus che li avrebbe portati all’albergo, al momento i tre erano quasi alla fine dell’impresa. Per concluderla mancava solo una persona che sarebbe dovuta arrivare con l’ultimo volo, dopodiché i tre sarebbero stati liberi di andare a casa. Come spesso accade quando la fine di un compito ingrato è vicina, non ne potevano più.
– Insomma, speriamo che questo tizio olandese arrivi presto – disse uno degli altri due, tentando di mettere da parte il discorso della borsa che avrebbe condotto sicuramente a conseguenze poco piacevoli per tutti e tre. Nel corso della giornata, infatti, la conversazione si era sviluppata intorno alla loro situazione in quanto precari universitari. La conclusione a cui erano arrivati, in sostanza, era che i precari della ricerca erano considerati dall’università e dal Ministero più o meno come la flora batterica intestinale: ovvero, dei parassiti. Parassiti buoni, s’intende; necessari per il buon funzionamento dell’organismo (in quanto sono i precari quelli che stanno realmente in laboratorio), ma mantenuti in vita con gli ultimi residui delle risorse ingerite e, in ultima analisi, in una situazione oggettivamente di merda.
– Qualcuno lo conosce, questo Snijders? – chiese il terzo. – Non è che ci tocca rincorrerlo per tutto l’aeroporto come l’ungherese di prima, vero?
– No, no – disse il ragazzo alto. – Lo conosco io, l’ho già visto ad un paio di congressi. Non c’è rischio di confonderlo.
– In che senso?
– Ora lo vedi.
– Proprio ora, guarda – disse il terzo sorridendo. – Sono arrivati. Vedo movimento.
– Grande! Vai, andiamo a prendere il crucco e poi si va a casa.
– È olandese.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Marco Malvaldi.
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