Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il giorno dei morti di Maurizio De Giovanni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 13,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il giorno dei morti: trama del libro
Il commissario Ricciardi è il protagonista indiscutibile della scena criminale della Napoli anni Trenta. I casi che prende in consegna vengono risolti con abilità e precisione che lascia sconcertati i suoi colleghi e le istituzioni. A non tutti piace questa sua capacità che si dice sia innaturale, dettata addirittura dal demonio. Certo Ricciardi ha dalla sua un dono, quello di ascoltare le ultime parole del morto assassinato nel luogo del delitto. Un’abilità divinatoria che lo inserisce quasi in una categoria stregonesca. Eppure a volte neanche questi mezzi sembrano bastare di fronte ai misteri di certi crimini. Il Giorno dei Morti viene rinvenuto il cadavere di un bambino. Ricciardi è allertato e parte subito con la ricerca degli indizi. È un’indagine che però nasce in nefaste condizioni. Le autorità fermano ogni tipo di inchiesta perché sta per arrivare in città Benito Mussolini. Non è il caso di distogliere l’attenzione e a Ricciardi viene sottratta la pratica. Al giovane e coraggioso commissario toccherà indagare in modo clandestino, ma soprattutto dovrà indagare senza alcun indizio perché nel luogo del delitto, per la prima volta non viene avvertita alcuna voce. A questo punto un interrogativo: ha esaurito il suo dono oppure quel bambino non è stato ucciso lì?
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Quando l’alba tirò fuori dalla notte e dalla pioggia i contorni delle cose, se qualcuno fosse passato avrebbe visto il cane e il bambino ai piedi dello scalone monumentale che portava a Capodimonte. Ma sarebbe stata necessaria grande attenzione: a stento si distinguevano, nella luce incerta del primo mattino.
Se ne stavano là, fermi, indifferenti alle grosse gocce fredde che cadevano dal cielo. Erano seduti sullo scalino di pietra, nella rientranza ornamentale dopo i primi gradini. Le scale erano un torrente d’acqua in piena che trasportava rami e foglie dal bosco della reggia.
Se qualcuno fosse passato e si fosse fermato a guardare, si sarebbe forse chiesto come mai il flusso dell’acqua e dei detriti che incessante cadeva a valle sembrasse rispettare il cane e il bambino, passandogli accanto senza toccarli se non per qualche schizzo occasionale. La rientranza offriva un po’ di riparo, anche dalla pioggia: solo il pelo sul dorso del cane ogni tanto aveva un fremito, come un brivido di vento.
Qualcuno avrebbe potuto chiedersi che cosa facessero là il cane e il bambino, fermi nella fredda alba di un autunno pieno di pioggia.
Il bambino era grigio, i capelli attaccati alla testa dall’acqua, le mani in grembo e i piedi sospesi a pochi centimetri dal suolo, la testa lievemente reclinata, gli occhi persi come dietro a un sogno o a un pensiero. Il cane sembrava dormire, la testa appoggiata sulle zampe, il mantello a macchie marroni zuppo, un orecchio sollevato, la coda ferma lungo il fianco.
Qualcuno si sarebbe chiesto se stessero aspettando l’arrivo di qualcuno. O se stessero ripensando a qualcosa che era accaduto, e che aveva lasciato il segno nella memoria. O ancora se ascoltassero un suono, una musica lieve.
Ora la pioggia rinforza, uno scroscio forte come una ribellione al sorgere del sole; il cane e il bambino non reagiscono, la furia dell’acqua li lascia indifferenti. Dal naso dell’uno e dall’orecchio sollevato dell’altro scorrono rivoli freddi.
Il cane sta aspettando.
Il bambino non ha più sogni.
II
Lunedì, 26 ottobre 1931 – anno IX
La chiamata arrivò alle sei e mezza, un’ora prima della fine del turno di notte.
A Ricciardi non dispiaceva rimanere in questura, quando gli toccava: erano per lo più ore tranquille, da dedicare alla lettura o a un piacevole dormiveglia sul divano della stanza di fianco al suo ufficio. Ed era piuttosto raro che il riposo o le riflessioni fossero disturbati da una guardia che bussava alla porta, richiedendo un intervento.
I delitti accadono di notte, ma vengono scoperti di mattina; l’ora pericolosa era appunto quella, quando la luce del giorno alzava il velo dalle turpitudini del buio.
Ricciardi si era appena lavato all’acquaio in fondo al corridoio quando vide arrancare il brigadiere Maione lungo la rampa di scale.
“Commissa’, e figuratevi se aspettavano la fine del turno nostro. È arrivata una telefonata, un signore dal Tondo di Capodimonte. Dice che ci sta una lattaia con una capra che piange.”
Ricciardi considerò la questione, asciugandosi le mani.
“E adesso ci chiamano pure quando piangono le lattaie? E poi, chi piange, lei o la capra?”
Maione allargò le braccia, ancora ansimando per la corsa sulle scale.
“Commissa’, voi scherzate: intanto qua piove a dirotto, e siccome abbiamo un’altra ora per finire ci tocca arrivare fino a Capodimonte sotto all’acqua. Il fatto è serio, pare che ci sta un bambino morto sullo scalone monumentale. L’ha trovato proprio la donna, che scendeva da una masseria con la capretta per vendere il latte, dice che è la zona sua, e l’ha visto là fermo, l’ha scosso ma quello non si muoveva. Allora ha chiesto aiuto nel palazzo più vicino, e questo signore che ci ha chiamato era l’unico che teneva il telefono. Mo’ dico io, non poteva succedere tra un paio d’ore, così lo scarpinetto sotto alla pioggia se lo faceva Cozzolino che è giovane e solerte, che io appena piglio un po’ di umidità mi viene un dolore alla schiena che devo camminare storto?”
Ricciardi aveva già l’impermeabile addosso.
“Insomma, ti stai facendo vecchio veramente. Dai, andiamo a vedere di che si tratta: magari è solo uno scherzo, lo sai che alla gente piacciono i poliziotti che vanno su e giù di corsa sotto la pioggia. Poi vai a casa e ti asciughi.”
La strada dalla questura a Capodimonte corrispondeva a quella che faceva Ricciardi per tornare a casa. Un cammino lungo, che a un certo punto cominciava a salire e tagliava il fiato. Bisognava percorrere via Toledo, coi suoi imponenti palazzi nobiliari, attraversare Largo della Carità e lo Spirito Santo, fiancheggiare il Museo Nazionale; una linea di confine, a monte e a valle gli impenetrabili vicoli dei Quartieri Spagnoli, del porto e della Sanità, ribollenti di vita e dolore, di allegria e povertà.
Ricciardi ci pensava sempre, ogni mattina e ogni sera, sentendo sulla pelle gli occhi diffidenti di chi aveva da nascondere il modo in cui si procurava da vivere: quella strada diceva tanto, della città. Diceva tutto.
E cambiava sempre, stagione dopo stagione, offrendo una torrida immagine estiva in cui lo sporco macerava sotto il sole, o un profumato quadro primaverile, coi venditori di frutta e fiori che esponevano la merce al passeggio dei ricchi, o un finto deserto invernale, coi loschi affari che si trasferivano nei bassi adiacenti la strada, al riparo dal vento gelido che soffiava senza sosta.
Ora, in questo autunno umido, la lunga via era attraversata da tanti ruscelli quanti erano i vicoli che la intersecavano portando verso un mare irraggiungibile rifiuti e sporcizia dalla collina lontana.
Maione saltellava per evitare le pozzanghere più profonde, nel vano tentativo di preservare gli stivali.
“Mi uccide. Sicuro. Mia moglie mi uccide. Voi non avete idea, commissa’, della belva che diventa quando deve pulire gli stivali dal fango e dallo sporco. Io ci dico, lascia, che me li pulisco io, e lei ma non dire sciocchezze, mi dice, io sono la moglie di un brigadiere e gli stivali li devo pulire io. E allora, ci dico, perché fai tutte queste storie? E lei dice io li pulisco, ma tu ti potresti pure stare un poco più attento, no?”
Camminando cercava di proteggere se stesso e Ricciardi dalla pioggia reggendo un grande ombrello nero. Il commissario, al solito, non portava cappello né sembrava curarsi del tempo. Maione cambiò facilmente argomento:
“Io a voi non vi capisco, commissa’. Io non dico l’ombrello, che pure sarebbe il caso dato che piove da tre giorni, però uno si può scocciare di portarselo e va bene; ma almeno un cappello, perché non ve lo mettete? Voi siete giovane ma credetemi, quando poi avrete l’età mia ogni singola goccia di pioggia si trasformerà in una fitta alla testa.”
Ricciardi camminava svelto, le mani immerse nelle tasche dell’impermeabile, lo sguardo fisso davanti a sé.
“Lo sai, il cappello non lo sopporto: mi fa venire l’emicrania. Io poi sono di montagna, il freddo e l’umido non mi danno fastidio. Non ti preoccupare; pensa ai dolori tuoi, e a non sporcarti gli stivali.”
Erano arrivati nel punto del percorso che a Ricciardi pesava di più. Si trattava del ponte che i Borboni avevano costruito per arrivare a Palazzo Reale senza dover attraversare la Sanità, da sempre uno dei quartieri più pericolosi. Per qualche strano e inspiegabile motivo, da allora quell’alto viadotto, quel ponte senza fiume che affondava i propri pilastri nei vicoli sottostanti, era il luogo dei suicidi.
Quello che Ricciardi chiamava tra sé “il Fatto”, la sua dolorosa condanna a percepire l’ultimo pensiero dei morti con violenza, diventava nei pressi del ponte un peso insopportabile. C’era sempre almeno un’immagine sospesa, pronta ad alzare lo sguardo al suo passaggio per comunicargli le parole con cui era stata costretta ad abbandonare l’esistenza di carne, ossa e sangue. Un biglietto d’addio con un solo destinatario: lui.
In quella mattina di pioggia, perfettamente visibili agli occhi della sua anima, in bilico sul parapetto distingueva due adolescenti che si tenevano per mano. Il giovane aveva il collo spezzato, e rivolgeva il viso all’indietro come se la testa gli fosse stata montata al contrario; mormorava: senza te no, senza te mai.
La ragazza aveva il torace schiacciato e la faccia quasi cancellata dall’impatto. Dall’ammasso insanguinato che era diventato il suo viso arrivava un pensiero: non voglio morire, sono giovane, non voglio.
Ricciardi pensò che forse aveva fatto più vittime l’amore della guerra. Anzi, senza forse.
Più in là, sullo stesso parapetto, un vecchio grasso dal cranio sfondato diceva: non posso restituirveli, non posso. Debiti, rifletté il commissario avanzando il passo, e lasciandosi dietro l’affannato Maione. Un’altra malattia inguaribile. Dio, quant’era stanco. Sempre uguale, sempre le stesse cose.
Arrivarono finalmente al Tondo di Capodimonte, dal quale partiva lo scalone monumentale. Ci giunsero con qualche difficoltà, perché l’ultimo tratto della strada era un fiume impetuoso di rami e foglie, da percorrere contro corrente. Maione aveva rinunciato a salvaguardare gli stivali, e aveva assunto un’espressione cupa e silenziosa. Ricciardi aveva in corpo l’immagine dei suicidi ed era ancora più triste.
Una piccola folla si era radunata ai piedi dello scalone, dopo la prima rampa di gradini. La fungaia di ombrelli impediva di vedere cosa ci fosse da osservare. L’arrivo di Maione e Ricciardi, accompagnati da due guardie, disperse istantaneamente l’assembramento. Maione sogghignò:
“Al solito. L’unica cosa più forte della curiosità è la paura di essere coinvolti in un guaio, appena arriva la polizia”.
Ricciardi vide subito il bambino, seduto sulla panca di pietra, sotto il contrafforte di sinistra. Era di bassa statura, i piedi non toccavano terra, e fradicio di pioggia. Dai capelli scendeva acqua a inzuppare i vestiti, scadenti, da scugnizzo. Ai piedi un paio di zoccoli, i segni dei geloni perfettamente visibili. Le labbra violacee, gli occhi semiaperti nel vuoto.
Rimase impressionato dalle mani, abbandonate in grembo come due uccellini morti. Bianche, molto più chiare della carnagione delle gambe resa livida dal freddo, sembrarono al commissario un segno di resa e di sfiducia. Guardò istintivamente attorno, e non vide traccia di immagini: il bambino doveva essere morto senza violenza, forse il freddo o la fame, forse una malattia. Abbandonato, pensò: a se stesso, alle intemperie, alla violenza, alla solitudine. Senza poter scegliere.
Se c’era una cosa che odiava erano i bambini morti. La sensazione di spreco, di rinuncia, di occasioni perdute. Un popolo, una civiltà si qualifica dalla cura per la propria infanzia, aveva letto su un libro all’università. Non ne usciva certo bene, quella città.
Maione lo riscosse dai pensieri:
“Prima di lasciare la questura ho disposto di chiamare l’ospedale, sia il medico legale che il carro per la rimozione del corpo, a momenti saranno qua. Là in fondo c’è la lattaia, quella con la capra al guinzaglio, ci volete parlare? Vicino c’è il proprietario del telefono, quel signore con l’ombrello. Gliel’ho detto che non ci serve e che se ne può andare, ma non si muove. Ve li faccio venire qua?”.
La lattaia teneva gli occhi bassi, le tremavano le labbra sotto il fazzoletto stretto sulla testa. Era giovane, poco più che una bambina; con una mano teneva la capra legata a una corda, con l’altra un recipiente di metallo per il latte. A spizzichi e bocconi, balbettando per il freddo, la paura e l’imbarazzo, raccontò che stava scendendo lo scalone per andare a fare il suo giro di vendita del latte, attenta a non cadere, quando la capra aveva fatto uno scarto di lato. C’era un cane, accucciato di fianco all’inizio dell’ultima rampa di gradini, che ringhiava.
“Eccolo là, lo vedete? Si è spostato quando sono tornata da casa del signore, qua, per chiamarvi, e poi non si è mosso più.”
Ricciardi vide, a una ventina di metri di distanza, un cane accucciato sulle zampe posteriori fermo come una statua, che li osservava attento. Era un bastardino come se ne vedono a decine, il manto bianco sporco chiazzato di marrone, il muso aguzzo e un orecchio sollevato.
La donna riprese raccontando di come, dopo aver cercato di capire se il bambino era addormentato o stesse male, era andata di corsa nel palazzo più vicino dove aveva chiamato il ragioniere Caputo, suo cliente. L’uomo, un azzimato signore di mezza età, di bassa statura e con gli occhiali cerchiati d’oro, avanzò di un passo e sollevò il cappello.
“Commissa’, se permettete, io sono il ragioniere Caputo Ferdinando, al vostro servizio. La ragazza, qua, che si chiama Caterina, viene ogni due giorni. Io digerisco solo il latte di capra, quello di vacca mi rimane sullo stomaco e sto male per tutta la giornata. E insomma, stamattina la ragazza, qua, Caterina, arriva nel cortile del palazzo e comincia a strillare, correte, correte, aiuto, ci sta un bambino sullo scalone che non risponde. Io mi ero appena svegliato, stavo ancora con la camicia da notte, mi sono buttato dal letto alla finestra…”
Maione sbuffò, infastidito:
“Va be’, ragionie’, veniamo al punto per cortesia, a noi con tutto il rispetto di come dormite vestito voi non è che ci interessa. E allora, che è successo, siete sceso?”.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Maurizio De Giovanni.
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