Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La giostra dei criceti di Antonio Manzini. Il romanzo è pubblicato in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La giostra dei criceti: trama del libro
«Siamo carne da cannone, aveva detto René. Era vero. Carne da cannone. Gente che muore senza un senso, senza un’utilità. Che ha vissuto senza sapere, e senza sapere se ne va». Quattro malavitosi della più squallida periferia romana fanno una rapina che finisce nei disegni complessi della criminalità che conta. Parallelamente un’organizzazione di altissimi funzionari dello Stato ordisce un folle piano «Anno Zero» per eliminare il problema, delle pensioni. Sono i due ingranaggi, irrazionali quanto brutali nella loro efficienza, che muovono la giostra dei poveri idioti di vari livelli – dal piccolo criminale al boss camorrista, dall’inquietante generale all’alto burocrate, dall’impiegato dell’Inps che si sente un giustiziere alla fantastica ragazza innamorata -, tutti in lotta contro il loro destino insensato. Tragico e comico, noir che si scioglie in limpida e commovente poesia, thriller che offre lo spaccato di una società senza cuore, questo è il secondo dei molti romanzi pubblicati da Antonio Manzini. Con “La giostra dei criceti” siamo all’origine del suo avvincente modo di intrecciare storie; della sua prosa priva di ornamenti ma sorprendentemente musicale; soprattutto di quel pessimismo senza illusioni e di profondo amore che caratterizza il Rocco Schiavone dei romanzi successivi.
In ebook La giostra dei criceti (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 9,99 euro.
René guardò l’orologio.
Cinque minuti era il tempo prestabilito, e ne mancavano tre.
Il sudore gli colava lungo la colonna vertebrale appoggiata al palo della luce. La strada era vuota e grigia. Dalla curva in fondo, spuntavano i banchi di un mercatino rionale. Intravedeva grembiuli colorati, stoviglie, pezzi di baccalà secco che penzolavano da corde sfilacciate. Dall’altra parte della via, dietro un autosalone plurimarche coi vetri appannati dalla sporcizia, doveva esserci la macchina truccata di Cencio, motore acceso, in attesa.
Guardò ancora l’orologio. Fra due minuti e venti secondi Franco e Cinese sarebbero usciti dalla porta a vetri della banca mentre la BMW, in perfetto sincrono, sarebbe spuntata dall’angolo della strada. E poi via. Via per sempre.
Si guardò riflesso nella vetrina del ferramenta che dall’altra parte della via fronteggiava la Cassa rurale delle Marche. Si vide appoggiato al palo. Fermo. Quasi congelato, con gli occhiali da sole e le mani in tasca. Dava molto nell’occhio. Ce l’aveva scritto addosso quello che stava facendo. Un’auto scivolò leggera. Dal sedile posteriore un labrador grasso gli abbaiò.
Due minuti. Mancavano due minuti.
Non aveva il coraggio di girarsi e guardare dentro la banca. Se ci fosse scappato il ferito, o peggio il morto, le cose avrebbero preso tutto un altro sapore. Quello dell’ergastolo. Ma spari René non ne aveva sentiti. E nemmeno grida.
Un minuto e quarantacinque secondi. Mancavano un minuto e quarantacinque secondi.
Le pulsazioni erano salite a centotrenta. L’acido del cornetto con la panna gli risalì l’esofago.
Quanto cazzo durano cinque minuti?, pensò.
Un minuto e venti secondi.
Si tolse gli occhiali da sole e pulì le lenti. Si guardò di nuovo nella vetrina del ferramenta. I suoi capelli rossi brillavano come una boa in mare aperto. Ora senza occhiali aveva l’aria di chi non ha niente da fare e getta solo uno sguardo distratto ai negozi. Molto meglio.
Un minuto. Mancava solo un minuto.
Non riusciva a tenere ferma la mano destra che in tasca continuava a giocare con gli spiccioli. Dietro, fra schiena e pantaloni, sentiva la durezza insensibile dell’arma. Intorno al ferro la pelle aveva sudato.
Una signora grassa andò a gettare la spazzatura nei cassonetti di fronte. Lo guardò. E per un attimo René ebbe paura che quella volesse entrare in banca. Avrebbe dovuto seguirla dentro, buttarla per terra, stordirla, neutralizzarla. E non era il suo pane. Quella era roba di Franco e Cinese. Per fortuna la donna tirò dritto verso il mercato e René tirò un respiro.
Trenta secondi.
Eccola!
Puntuale dall’angolo apparve il muso della BMWmetallizzata. Accelerò con un ruggito che solo una macchina tedesca sa esplodere. René staccò la schiena dal lampione e si affacciò alla vetrata della banca. Bussò. Non riusciva a vedere dentro, ma di sicuro Franco e Cinese l’avevano sentito. Alle sue spalle, gli pneumatici di Cencio si spalmarono sull’asfalto. Lo stridio della frenata durò tre secondi, e si concluse con un orrendo cozzo di lamiere. René si girò verso la strada. Il muso della BMW era cosparso di sacchetti della spazzatura e mezzo cofano si era incastrato nel raccoglitore di bottiglie di vetro e lattine. Contemporaneamente la porta a vetri della banca si aprì e vomitò fuori Franco e Cinese, mitragliette in pugno e occhiali da sole, mentre l’allarme antincendio s’era messo a urlare alle loro spalle.
– Via via via! – urlò Franco.
Cencio facendo retromarcia per liberare l’auto intrappolata si trascinava il bidone che non si voleva staccare. René corse verso la macchina. Franco e Cinese erano già saliti dentro. La BMW ruggiva inutilmente, intrappolata dal contenitore per rifiuti riciclabili come un leone nella rete dei Wairiri.
– Sali, testa di cazzo! – urlò Franco a René. Esitò.
Era inutile salire. Saltò sul cofano dell’auto e cominciò a prendere a calci il bidone dei rifiuti. La gente era uscita dai negozi e stava a guardare. Una ragazza carica di buste come un somaro li osservava e rideva. Cinese e Franco uscirono dalla macchina, e tutti e tre cominciarono a spingere il bestione carico di bottiglie e lattine che non ne voleva sapere di staccarsi.
Il lampeggiante dei carabinieri ululava dall’imboccatura della strada. Stavano arrivando. René fece un rapido calcolo. Anche a partire adesso, li avrebbero presi. Scese dal cofano, buttò la pistola fra i rifiuti e cominciò a correre.
– Pezzo di merda, te vòi staccà? – sentì urlare Franco in lontananza, mentre con Cinese percuoteva il bidone coi pugni.
2
– Nome?
– Renato Massa detto René.
– Nato a?
– Roma, il 7 ottobre 1963.
– Domiciliato in?
– Terzo ponte, Laurentino 38.
– … Laurentino 38, – ripeté l’appuntato mentre pigiava sui tasti del computer.
– Allora, René, – si intromise il maresciallo.
– Marescià, che posso dire?
– Niente, Massa, niente. Ma dico io, stavi fuori con la condizionale e ti metti a fare le rapine? Allora?
– E… che devo dire, marescià?
– Niente, Massa, niente.
Il sole se n’era andato. Un alone di luce grigiastra si affacciava dalle sbarre della finestra nella stanza spoglia e scrostata. René stava seduto sotto un neon crepitante. Davanti a lui, in piedi, il maresciallo con un paio di baffi neri alla Zapata. Di fianco, l’appuntato giovane e pelato seduto a un tavolino sgangherato scriveva sul vecchio Ibm con una rapidità impressionante.
Era la quinta volta che finiva dentro. Ai tre mesi che la condizionale gli aveva abbonato e che ora gli toccava scontare, doveva aggiungere la rapina a mano armata. Almeno sette anni. Sarebbe uscito quasi cinquantenne. E la vita era scivolata via così. Uno slittino su un pendio innevato, che non fai a tempo a sentirlo passare, e quello è già un puntino a fondovalle.
René puzzava di sudore e adrenalina. I suoi capelli rossi come il fuoco stavano in piedi da soli. Gli occhi grigi s’erano spenti nel reticolato di rughe che si strizzavano intorno alle orbite. Le palpebre, pesanti, cedevano al sonno. Si sentiva sporco e doveva andare al bagno. Desiderava solo dormire. Pulito. Anche in una cella. Tanto era fatta. Li avevano presi. Ora solo i tempi burocratici, file, i documenti da riempire. Come le giornate per sette anni. Si pentì di non essersi fatto una bella scopata prima di andare alla Cassa rurale. Avrebbe avuto di che ricordare. Almeno per i primi tre mesi.
Guardò il pezzo di cielo fra le sbarre che s’era fatto nero. Attraverso la porta sentiva il traffico della caserma. Voci, risate, vecchie stampanti ad aghi. Franco e Cinese potevano essere nella stanza accanto a subire un interrogatorio simile al suo. E si augurava ci fosse pure Cencio. Lo avrebbe massacrato con le sue mani. Solo un deficiente avrebbe preso in pieno la campana dei rifiuti. E quello c’era riuscito.
– Allora, Renato Massa detto René stava appoggiato al palo della luce davanti alla Cassa rurale delle Marche alle ore 9,35 del 23 febbraio mentre i complici Franco Trudoni e Antonio Cassaruolo detto Cinese operavano all’interno della stessa. La macchina guidata da un quarto complice…
Un lampo esplose nel cervello sonnacchioso di René.
Da un quarto complice? Non sanno il nome? Allora Cencio non l’hanno beccato!, pensò.
– Vada al punto che il nostro non conosce, – intervenne il maresciallo guardando deluso René.
– Allora, – continuò l’appuntato, – Renato Massa si dileguava in seguito raggiunto e ammanettato dal carabiniere scelto Cecere mentre il Trudoni esplodeva tre colpi contro la volante ferendo l’appuntato Biamonte alla gamba sinistra.
René era seduto e questo gli impedì di cadere per terra. Franco aveva sparato! Il sangue gli defluì dal cervello fino ai piedi e restò lì bloccandogli ogni tentativo di movimento.
– Il maresciallo Borgiani rispondeva al fuoco colpendo al petto Antonio Cassaruolo. Alla vista del compagno caduto, il complice alla guida dell’auto scappava a piedi dileguandosi coperto dal fuoco incrociato del Trudoni che feriva l’appuntato Biamonte al polmone destro. L’appuntato scelto Bucchi centrava con tre colpi al ventre e alla testa Francesco Trudoni che si accasciava privo di vita sul cofano della BMW targata…
– Basta così, grazie. L’appuntato Biamonte è morto in ospedale. Massa, hai capito in quanta merda sei adesso?
René annaspava. La rapina era diventata una sparatoria con tre cadaveri. Un carabiniere. E due suoi complici. Che poche ore prima gli avevano assicurato che sarebbe stato un lavoretto semplice semplice. Una passeggiata. Il concetto che René aveva di lavoretto semplice semplice non era quello di sparare ai carabinieri. Quella era una cosa stupida, e ci rimettevi sempre.
– Marescià, ma io che c’entro? Mica ho sparato. Io sono scappato!
Il maresciallo lo guardò serio.
– Maresciallo, io manco ero armato. Lo scriva, lo scriva questo, – disse René all’appuntato che si limitava a guardare il monitor verdognolo del suo computer.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore romano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Antonio Manzini.
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