Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il giro di boa di Andrea Camilleri, romanzo edito in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 10,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99 ed è il settimo tra i volumi dedicati al commissario Montalbano.
Il giro di boa: trama del libro
L’inchiesta più dura del commissario Montalbano comincia con un cadavere pescato per caso in alto mare. L’incrocia Montalbano mentre nuota al limite dello stordimento per lavarsi di dosso una notte di cattivi pensieri e malumori. I fatti politici, certi eventi di repressione poliziesca, l’atteggiamento verso gli immigrati: tutto cospira a farlo sentire un isolato, e il cadavere anonimo, destinato a restare senza giustizia, archiviato da banale caso di clandestino immigrato, sembra armonizzarsi macabramente con il suo senso di solitudine. Per il commissario è una sfida, che lo scuote dal proposito di dimettersi, e lo spinge in una inchiesta doppia, su delitti apparentemente indipendenti e accomunati solo dalla ferocia.
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Con un’ariata assolutamente indifferente, la giornalista del tg aveva detto che la Procura di Genova, in merito all’irruzione della polizia alla scuola Diaz nel corso del G8, si era fatta pirsuasa che le due bombe molotov, trovate nella scuola, erano state portate lì dagli stessi poliziotti per giustificare l’irruzione. Questo faceva seguito – aveva continuato la giornalista – alla scoperta che l’agente il quale aveva dichiarato di essere stato vittima di un tentativo di accoltellamento da parte di un no-global, sempre nel corso di quell’irruzione, aveva in realtà mentito: il taglio alla divisa se l’era fatto lui stesso per dimostrare la pericolosità di quei ragazzi che invece, a quanto si andava via via svelando, nella scuola Diaz stavano pacificamente dormendo. Ascutata la notizia, per una mezzorata Montalbano era restato assittato sulla poltrona davanti al televisore, privo della capacità di pinsari, scosso da un misto di raggia e di vrigogna, assammarato di sudore. Non aveva manco trovato la forza di susirisi per rispondere al telefono che stette a squillare a longo. Bastava ragionare tanticchia supra quelle notizie che venivano date col contagocce e con governativa osservanza dalla stampa e dalla televisione per farsi preciso concetto: i suoi compagni e colleghi, a Genova, avevano compiuto un illegale atto di violenza alla scordatina, una specie di vendetta fatta a friddo e per di più fabbricando prove false. Cose che facevano tornare a mente episodi seppelluti della polizia fascista o di quella di Scelba. Poi s’arrisolse ad andare a corcarsi. Mentre si susiva dalla poltrona, il telefono ripigliò la camurria degli squilli. Senza manco rendersene conto, sollevò la cornetta. Era Livia.
«Salvo! Dio mio, quanto ti ho chiamato! Stavo cominciando a preoccuparmi! Non sentivi?».
«Ho sentito, ma non avevo voglia di rispondere. Non sapevo che eri tu».
«Che facevi?».
«Niente. Pensavo a quello che hanno detto in televisione».
«Sui fatti di Genova?».
«Sì».
«Ah. Anch’io ho visto il telegiornale».
Pausa. E poi:
«Vorrei essere lì con te. Vuoi che domani prendo un aereo? Possiamo parlarne assieme, con calma. Vedrai che…».
«Livia, ormai c’è poco da dire. In questi ultimi mesi ne abbiamo parlato e riparlato. Stavolta ho preso una decisione seria».
«Quale?».
«Mi dimetto. Domani vado dal Questore e gli presento le dimissioni. Bonetti-Alderighi ne sarà felicissimo».
Livia non reagì subito, tanto che Montalbano ebbe l’impressione che fosse caduta la linea.
«Pronto, Livia? Sei lì?».
«Sono qui. Salvo, a mio parere, tu commetti un errore gravissimo ad andartene così».
«Così come?».
«Arrabbiato e deluso. Tu vuoi lasciare la Polizia perché ti senti come chi è stato tradito dalla persona nella quale aveva più fiducia e allora…».
«Livia, io non mi sento tradito. Io sono stato tradito. Non si tratta di sensazioni. Ho sempre fatto il mio mestiere con onestà. Da galantomo. Se davo la mia parola a un delinquente, la rispettavo. E perciò sono rispettato. È stata la mia forza, lo capisci? Ma ora mi siddriai, m’abbuttai».
«Non gridare, ti prego» fece Livia con la voce che le tremava.
Montalbano non la sentì. Dintra di lui c’era una rumorata stramma, come se il suo sangue fosse arrivato al punto di bollitura. Continuò.
«Manco contro il peggio delinquente ho fabbricato una prova! Mai! Se l’avessi fatto mi sarei messo al suo livello. Allora sì che il mio mestiere di sbirro sarebbe diventato una cosa lorda! Ma ti rendi conto, Livia? Ad assaltare quella scuola e a fabbricare prove false non è stato qualche agente ignorante e violento, c’erano questori e vicequestori, capi della Mobile e compagnia bella!».
Solo allora capì che a fare quel suono che sentiva nella cornetta erano i singhiozzi di Livia. Respirò profondamente.
«Livia?».
«Sì».
«Ti amo. Buonanotte».
Riattaccò. Si curcò. Ed ebbe inizio la nuttata ’nfami.
La vera virità era che il comincio del disagio di Montalbano risaliva a tempo prima, a quando la televisione aveva fatto vidiri il Presidente del consiglio che se la fissiava avanti e narrè per i carrugi di Genova sistemando fioriere e ordinando di togliere le mutanne stese ad asciugare su balconi e finestre mentre il suo ministro dell’Interno pigliava misure di sicurezza assai più adatte a una guerra civile imminente che a una riunione di capi di governo: reti d’acciaio che impedivano l’accesso a certe strade, piombatura dei tombini, chiusura delle frontiere e di alcune stazioni, pattugliamento del mare e persino l’installazione di una batteria di missili. C’era – pinsò il commissario – un eccesso di difesa tanto ostentato da costituire una specie di provocazione. Doppo era successo quello che era successo: certo, c’era scappato il morto tra i dimostranti, ma forse la cosa più grave era stato il comportamento di alcuni reparti della polizia che avevano preferito sparare lacrimogeni su pacifici manifestanti lasciando liberi di fare e disfare i più violenti, i cosiddetti black bloc. E appresso c’era stata la laida facenna della scuola Diaz che assomigliava non a un’operazione di polizia, ma a una specie di trista e violenta sopraffazione per sfogare istinti di vendetta repressi.
Tri jorna doppo il G8, mentre infuriavano le polemiche in tutta Italia, Montalbano era arrivato tardo in ufficio. Appena fermò la macchina e scinnì, s’addunò che due imbianchini stavano passando una mano di calce su un muro laterale del commissariato.
«Ah dottori dottori!» fece Catarella vedendolo trasire. «Vastasate ci scrissero stanotti!».
Montalbano non capì di subito:
«Chi ci ha scritto?».
«Non sono a canoscenza di chi fu che scrisse di pirsona pirsonalmenti».
Ma che minchia voleva dire, Catarella?
«Era una lettera anonima?».
«Nonsi dottori, non era gnonima, dottori, murale era. Fu proprio a scascione di questa muralità che Fazio stamatina di presto mandò a chiamari i pittura per scancillari».
E finalmente il commissario si spiegò la presenza dei due imbianchini.
«Che c’era scritto?».
Catarella arrussicò violentemente e tentò un diversivo. «Con le bombololette spraghi nìvure le avevano scrivute le parolazze».
«Va bene, che c’era scritto?».
«Sbirri farrabuti» arrispunnì Catarella tenendo l’occhi vasci.
«E basta?».
«Nonsi. Macari asasini c’era scrivuto. Farrabuti e asasini».
«Catarè, ma perché te la stai pigliando tanto?».
Catarella parse sul punto di mittirisi a chiangiri.
«Pirchì ccà dintra nisciuno è farrabuto o asasino, a cominzare da vossia, dottori, e a finiri a mia ca sono l’urtima rota del carretto».
Montalbano gli posò a conforto una mano sulla spalla e si avviò verso la sò càmmara. Catarella lo richiamò.
«Ah, dottori! Mi scordai: grannissimi cornuti c’era macari scrivuto».
Figurarsi se in Sicilia, in una scritta offensiva, poteva mancare la parola cornuto! Quella parola era un marchio doc, un modo tipico d’espressione della cosiddetta sicilitudine. Si era appena assittato che trasì Mimì Augello. Era frisco come un quarto di pollo, la faccia distesa e sirena.
«Ci sono novità?» spiò.
«Hai saputo quello che ci hanno scritto sul muro stanotte?».
«Sì, me l’ha contato Fazio».
«E non ti pare una novità?».
Mimì lo taliò imparpagliato.
«Babbii o dici sul serio?».
«Dico sul serio».
«Beh, rispondimi mettendoti la mano supra ’u cori. Pensi che Livia ti metta le corna?».
A taliare strammato Mimì stavolta fu Montalbano.
«Che minchia ti passa per la testa?».
«Quindi non sei cornuto. E manco io penso di esserlo da parte di Beba. Passiamo ora a un’altra parola, farabutto. A mia due o tre fìmmine me l’hanno detto che sono un farabutto. A tia non credo che te l’abbia mai detto nessuno e quindi tu non sei compreso in questa parola. Assassino, manco a parlarne. E allora?».
«Ma quanto sei spiritoso, Mimì, con questa tua logica da Settimana enigmistica!».
«Scusami, Salvo, che è la prima volta che ci chiamano bastardi, figli di buttana e assassini?».
«Solo che stavolta, almeno in parte, hanno ragione».
«Ah, tu accussì la pensi?».
«Sissignore. Spiegami perché abbiamo agito in questo modo a Genova dopo anni e anni che non capitava niente di simile».
Mimì lo taliò con le palpebre quasi completamente calate e non raprì vucca.
«Eh, no!» disse il commissario. «Rispondimi a parole, non con questa tua taliata di sbirro».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore siciliano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrea Camilleri.
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