Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Harvard Square di André Aciman. Il romanzo è pubblicato in Italia da Guanda con un prezzo di copertina di 18,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Harvard Square: trama del libro
È l’estate del 1977 e Cambridge è quasi deserta. Gli studenti di Harvard vanno in vacanza o a fare esperienze di lavoro all’estero, e sono pochi quelli che rimangono nella città oppressa dal gran caldo di luglio. Tra questi c’è un dottorando che si sta preparando per gli esami. È un ebreo di origini egiziane, un outsider nel mondo accademico di una delle università più antiche e prestigiose degli Stati Uniti. Nella suggestiva Harvard Square, punto di riferimento della vita studentesca, c’è un locale dal sapore mediterraneo, il Café Algiers, completamente estraneo all’ambiente pretenzioso che lo circonda. È qui che lo studente fa l’incontro che potrebbe cambiare il corso di tutta la sua vita. Qui conosce Kalashnikov, un tassista tunisino, così soprannominato per la sua parlantina caustica e chiassosa, che non risparmia nessuno: uomini, donne, bianchi, neri, capitalisti, liberali, conservatori… I due, uniti da una lingua comune, il francese, dal profondo senso di sradicamento e dalla nostalgia per le atmosfere dei loro paesi d’origine, diventano inseparabili. Rinviata ogni decisione sul futuro, riempiono le afose giornate di chiacchiere, cibo, vino, caffé, gite al lago e belle donne. Fino a quando non ricomincia il semestre invernale ed entrambi vengono risucchiati dalle loro “vite di sempre”, inconciliabilmente diverse.
Approfondimenti sul libro
Harvard Square è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 9,99.
Nelle settimane trascorse insieme a visitare college, non avevo mai sentito mio figlio dire nulla di simile. Avevamo visto tre università nel Midwest, poi ci eravamo fermati in alcune facoltà umanistiche nel New England, in Pennsylvania e a New York. Adesso, invece, nell’ultima parte del nostro tour estivo, in quell’angolo del Massachusetts che avevo avuto modo di conoscere così bene, mio figlio era arrivato al limite della sopportazione, oppure semplicemente aveva paura.
«Non ci voglio stare qui» disse. Gli spiegai che andarcene era fuori discussione. «Invece sì» mi rispose lui. Per evitare di farci sentire dalle famiglie ammassate intorno a noi nella sala d’attesa dell’ufficio matricole, gli sussurrai che svignarsela prima del discorso di benvenuto sarebbe stato del tutto inappropriato. Lui, però, mi ignorò. «Dai, schiodiamoci» tagliò corto laconico. La sala rivestita di pannelli di legno e con una folta moquette sul pavimento si stava colmando di visitatori. «Tipo subito» sibilò, quasi minacciando di alzare la voce.
«Non capisco» sussurrai. «Questa è la migliore università al mondo, e tu vuoi andartene. Dici sul serio?»
Discutere, però, non sarebbe servito a nulla. Inoltre, mio figlio doveva essersi accorto che non avevo nessuna intenzione di imbarcarmi in un litigio, me lo si leggeva in faccia. Forse ero stanco anch’io, e ne avevo abbastanza di quelle visite guidate. Non aspettò nemmeno che cedessi. Si alzò e prese la voluminosa brochure e il cappellino da baseball. Non mi restò altra scelta che seguirlo, anche solo per evitare figure imbarazzanti o scenate davanti ai presenti. In men che non si dica, ecco che stavamo uscendo con discrezione dalla sala. Quasi subito, i nostri posti vennero occupati da una nuova coppia padre-figlio.
All’ingresso, dove altri genitori si erano radunati in attesa di entrare, sentimmo un’impiegata annunciare con un tono di voce informale e lievemente garrulo, probabilmente per risultare gentile e rassicurante, che dopo una breve introduzione lei e i suoi colleghi ci avrebbero accompagnati nel tal posto, poi nel tal altro, e infine saremmo andati a fare visita al memoriale di vattelappesca godendo così di una vista privilegiata su uno dei tanti luoghi mitici di Harvard. Colsi al volo la cadenza leggermente compiaciuta con cui snocciolava quell’itinerario che voleva farci credere fosse stato abbozzato a casaccio, benché di sicuro pianificato fin nei minimi dettagli, un momento di svago improvvisato in un’altrimenti noiosissima maratona per l’ennesimo campus universitario.
Mentre uscivamo continuavano a entrare genitori insieme a probabili aspiranti matricole, diretti prima verso il banco dell’accettazione, poi in sala d’attesa.
Fuori, sotto il portico, prendemmo una boccata d’aria mattutina. Riconobbi la cappa incipiente che annunciava la tipica giornata estiva afosa di Boston.
Vidi che mio figlio era a disagio. Aveva incrociato un viso che conosceva. I due ragazzi avevano tentato di evitarsi ma invano, alla fine l’altro aveva borbottato quello che doveva sembrare una sorta di fugace saluto tra studenti di scuole rivali. Almeno le regole le conosce, pensai. Si respirava competizione e tacita ostilità, e per tutti, figli e anche genitori, la scelta era evidente: o stai al gioco, o passi.
Lasciammo l’edificio e ci apprestammo a tagliare per il Radcliffe Institute, verso il fiume. Volevo chiedergli il perché di quell’improvviso cambio di umore, perché tanta premura di andare via. Ma preferii aspettare. La tensione insita in quel silenzio era palpabile e non accennava a sciogliersi. Poi, quasi per fornirmi una spiegazione che voleva anche essere un’offerta di scuse, dopo un attimo di esitazione mi disse: «Non fa per me».
In che senso? Si stava riferendo alle visite guidate, alle città universitarie, agli impiegati degli uffici matricole, alla laurea, alle lezioni? O forse intendeva i visitatori, abili nel mettere in mostra i propri figli con soggezione e, al contempo, orgoglio sottaciuto, e facendo a gara per non sembrare troppo ansiosi, troppo diffidenti o troppo sciatti perché il personale dell’ateneo li prendesse sul serio? E se, invece, stava parlando nello specifico di Harvard? Oppure, e a quel punto improvvisamente mi venne paura, ciò che davvero lo irritava di più era il pensiero di doversi far piacere lo studio perché piaceva a me?
Eravamo arrivati il giorno prima e avevamo già visitato diversi luoghi di Harvard, per esempio la Radcliffe House e la River House, poi l’avevo accompagnato all’imponente scalinata della Widener Library, da cui eravamo entrati in punta di piedi nella sala di lettura principale. Ero rimasto lì fermo un istante, immobile. Che mi mancassero i giorni da studente, era palese. Una sala di lettura semideserta in una bella giornata d’estate per me costituiva ancora una delle meraviglie del mondo, avevo detto, poco prima di uscire. «Immagino» era stato il suo unico commento, malinconico quanto sarcastico.
Gli mostrai i posti dove avevo abitato: Oxford Street, Ware Street, la Lowell House. La Howells Memorial House non gli ricordava un grand hotel della Riviera ligure di fine secolo?
«È un dormitorio universitario, punto.»
Mentre lo portavo in giro per la città continuavo a domandarmi che effetto potesse fare camminare insieme a tuo padre e guardarlo fermarsi davanti a luoghi che a te non dicono un bel niente. Ascoltare succosi aneddoti sulla sua vita da studente, molto prima che conoscesse tua madre, senza riuscire a identificarsi con nessuno di essi oppure, essendo in generale poco incline a farlo, probabilmente sentendoti un tantino in colpa perché non ti viene da mostrare quell’interesse che, a quanto pare, tuo padre vuole suscitare in te. Tutto ciò che lui vede è immerso in una stagnante cisterna di nostalgia e in effetti, per quanto appaia roseo in superficie, il passato rilascia sempre quella fragranza stantia e ben poco incoraggiante di tubi vecchi e stanze umide che nessuno arieggia da anni. Cercai di parlargli di Concord Avenue e Prescott Street, avevo abitato anche lì; ma era come chiedergli di venire con me a tagliarsi i capelli dal mio barbiere preferito in Dunster Street. Mi avrebbe assecondato, niente di più. Ma per lui non avrebbe significato nulla. Gliel’avessi chiesto, mi avrebbe risposto: «I miei capelli vanno benissimo così».
Gli dissi che conoscevo un posto dove preparavano ottimi hamburger. «Sicuro che ancora esista?»
Di nuovo quel tono beffardo e quella punta d’ironia nella voce. Che in trent’anni fossero cambiate molte cose me l’aveva già sentito dire più di una volta, non tanto la disposizione delle strade o dei negozi, ma i negozi in sé, le tende parasole e le insegne, forse anche l’atmosfera del luogo. Harvard Square si era rimpicciolita, pareva ingombra, affollata. E poi sembrava anche che avessero spostato alcune cose, che fossero sorti nuovi edifici e che l’Harvard Square Theater, come tanti altri cinema nel mondo, fosse stato sventrato e parcellizzato. Perfino l’immutabile Coop, la Harvard Cooperative Society, gli immensi grandi magazzini di Harvard Square, non era più la stessa; ne avevano trasformato una buona parte in negozio di souvenir per turisti. Mi ricordavo ancora il mio codice cliente. Lo dissi a mio figlio. «Sì, sì, lo so» aggiunsi subito, in un frettoloso tentativo di prevenire l’ennesima battutina da parte sua, «sono solo dei grandi magazzini, punto.»
Come molti genitori che avevano studiato lì volevo che Harvard piacesse anche a lui, ma preferii non insistere per paura che abbandonasse l’idea di proseguire gli studi. Una parte di me voleva che ripercorresse le mie orme. Lungi da lui, naturalmente. O forse ero io che volevo ripercorrerle, attraverso di lui. Un’ipotesi ancor meno auspicabile. Ripercorrere le orme di papà in qualità di controfigura venuta a espiare il passato! Mi sembrava già di sentirlo: Sei l’unico a pensarla così sull’università.
Volevo condividere con lui e ricreare tutti i momenti topici di allora: il giorno in cui avevo attraversato il ponte sotto la neve mentre i miei amici correvano sul Charles ghiacciato e io pensavo che imprudenti; la prima volta che ero entrato nella mia amata Houghton Library e avevo aspettato seduto che la bibliotecaria mi consegnasse il mio primissimo libro raro scritto da Mademoiselle de Gournay, la figliastra di Montaigne; la faccia non più giovanissima del compianto Robert Fitzgerald che mi aveva insegnato tanto in poche parole; la mia ultima bevuta all’Harvest e, per finire, la scoraggiante riluttanza ad andare a lezione in un gelido pomeriggio di novembre quando, invece, non avrei voluto fare altro che raggomitolarmi da qualche parte a leggere e lasciar vagare la mente. Volevo percorrere insieme a lui i vicoli lastricati che portavano al fiume e, in un istante magico, catturare la bellezza di quel mondo protetto che mi aveva promesso tanto e, alla fine, mi aveva concesso molto di più. Gli edifici, la sensazione d’inizio autunno, il rumore degli studenti che ogni mattina si dirigevano in massa a lezione… Non vedevo l’ora che mio figlio ne sentisse il richiamo e la promessa.
Finalmente trovai il coraggio di chiedergli se il nostro giro gli fosse piaciuto.
«Sì, bello.»
Ma poi, inaspettatamente, girò la frittata e mi domandò la stessa cosa. A me era piaciuto?
Sì. Molto.
Stavo parlando con il senno di poi, lo sapevo.
«Sai, ho imparato ad amare Harvard dopo, non durante.»
«In che senso?»
«Allora non era tutto rose e fiori» dissi, «e non mi riferisco ai corsi, anche se bisognava studiare sodo e gli standard erano alti. La cosa più complicata era convivere con la vita che Harvard mi proponeva ostinandosi a negare che fosse un miraggio. Avevo problemi di soldi. C’erano giorni in cui il confine tra ricchi e poveri sembrava più un burrone che una linea tracciata sulla sabbia. Vedevi la festa, sentivi il baccano, ma tu non eri stato invitato.» Il difficile era ricordarmi che in realtà l’invito l’avevo ricevuto, questo stavo cercando di dire.
Io ero l’outsider, il ragazzo di Alessandria d’Egitto, eternamente confuso e desideroso di appartenere a quello strano Nuovo Mondo.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore statunitense rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a André Aciman.
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