Ho sposato un comunistaè un romanzo dello scrittore americano Philip Roth. In questo articolo potete trovare la trama di Ho sposato un comunista, la copertina e un ampio estratto dal testo.
Ho sposato un comunista: la trama del libro
Negli anni Cinquanta Iron Rinn, attore radiofonico e attivista sindacale, sposa Eve Frame, una bella e ricca ex diva del cinema muto. Lui è di estrazione proletaria, lei ha pretese snobistiche, e il matrimonio è destinato a fallire. Cosi, quando Eve rivela a un giornale che suo marito è una spia dell’Unione Sovietica, il dramma privato diventa scandalo nazionale. Una storia di crudeltà, umiliazione, tradimento e vendetta.
Estratto
Il fratello maggiore di Ira Ringold, Murray, fu il mio primo insegnante d’inglese al liceo, e se legai con Ira fu grazie a lui. Nel 1946 Murray si era appena congedato dall’esercito, dove aveva prestato servizio nella Diciassettesima divisione aerotrasportata durante la battaglia delle Ardenne; nel marzo del 1945 aveva partecipato al famoso «salto del Reno» che segnò il principio della fine della guerra in Europa. Era, a quei tempi, un tipo calvo esuberante e duro, non alto come Ira, ma atletico e asciutto, sempre proteso sopra le nostre teste in uno stato di perenne vigilanza. Negli atteggiamenti e nelle pose era assolutamente naturale, ma nel parlare piuttosto prolisso e, sul piano intellettuale, quasi minaccioso. La sua passione era spiegare, chiarire, farci comprendere, col risultato che ogni argomento di cui parlavamo veniva smontato nei suoi elementi principali con una meticolosità non inferiore a quella con cui divideva le frasi sulla lavagna. Aveva un particolare talento per vivacizzare le interrogazioni, per creare un forte incanto narrativo anche quando si limitava ad analizzare e a esaminare ad alta voce, nel suo modo incisivo, ciò che leggevamo e scrivevamo.
Insieme ai muscoli e all’evidente intelligenza, il professor Ringold portava con sé in aula una carica di viscerale spontaneità che, per dei ragazzi come noi, docili ed educati al rispetto, ragazzi che dovevano ancora comprendere che obbedire alle regole del vivere civile dettate dall’insegnante non aveva nulla a che vedere con lo sviluppo mentale, fu una rivelazione. C’era piú importanza di quanto, forse, lui stesso immaginasse nell’accattivante abitudine che aveva di tirarti il cancellino quando la risposta che davi non colpiva il bersaglio. O forse no. Forse il professor Ringold sapeva benissimo che quello che i ragazzi come me avevano bisogno d’imparare non era solo come esprimersi con precisione e acquisire una piú penetrante capacità di reazione alle parole, ma come essere vivaci senza essere stupidi, come non essere troppo ben dissimulati o troppo ben educati, come cominciare a liberare l’esuberanza virile dalla rettitudine istituzionale che intimidiva soprattutto i ragazzi svegli.
Si sentiva la forza, in senso sessuale, di un insegnante liceale come Murray Ringold (maschia autorevolezza non viziata da commiserazione), e si sentiva la vocazione, in senso sacerdotale, di un insegnante liceale come Murray Ringold, che non si era perso dietro l’amorfa aspirazione americana di sfondare, e che – diversamente dagli insegnanti di sesso femminile – avrebbe potuto scegliere di fare qualunque altra cosa o quasi, e che invece aveva scelto, come lavoro della propria vita, di dedicarsi a noi. Per tutta la giornata non voleva far altro che occuparsi dei giovani che poteva influenzare, ed era dalle loro reazioni che ricavava la sua massima soddisfazione.
Non che l’impronta lasciata sulla mia idea della libertà dall’audacia del suo stile professionale fosse evidente allora; nessun ragazzo la pensava cosí, né sulla scuola, né sui professori, né sul proprio conto. L’esempio di Murray, tuttavia, doveva avere nutrito una voglia incipiente d’indipendenza sociale, e io glielo dissi allorché, nel luglio 1997, per la prima volta da quando mi ero diplomato nel 1950, lo incontrai, già novantenne, ma per tutti gli altri versi sempre uguale all’insegnante di un tempo; oggi come allora, per lui il dovere realisticamente consisteva, senza autoparodie né melodrammi, nell’impersonare davanti agli studenti il motto dell’indipendente: «Non me ne importa un cavolo»; e nell’insegnare ai suoi ragazzi che per trasgredire non occorre essere Al Capone: basta pensare. – Nella società umana, – ci insegnava il professor Ringold, – la trasgressione piú grande di tutte è pensare. – Il pen-sie-ro cri-ti-co, – diceva il professor Ringold, battendo le nocche sul piano delle cattedra per sottolineare ogni sillaba: – ecco l’estrema trasgressione –. Dissi a Murray che sentire queste cose tanto tempo prima da un tipo virile come lui – vederle dimostrate da lui – mi aveva dato l’idea piú precisa che potesse mai venirmi di cosa significava diventare grandi, anche se, da quel ragazzo provinciale, privilegiato e d’animo nobile che ero, da quel ragazzo che tanto desiderava diventare razionale, importante e libero, dovevo averla capita solo a metà.
Murray, a sua volta, mi disse tutto ciò che, da ragazzo, non sapevo e non avrei potuto sapere della vita privata di suo fratello, una grave disgrazia dai risvolti farseschi sulla quale ogni tanto si sorprendeva a rimuginare anche se Ira era morto da piú di trent’anni. – Migliaia e migliaia di americani distrutti in quegli anni, vittime della politica, vittime della storia, a causa delle proprie convinzioni, – disse Murray. – Ma non ricordo nessuno massacrato come Ira. Lo scontro non avvenne sul grande campo di battaglia americano che avrebbe scelto lui per la propria distruzione. Forse, a dispetto dell’ideologia, della politica e della storia, ogni vera catastrofe è, nel nocciolo, sempre un patetico dramma personale. Non si può criticare la vita perché qualche volta non le riesce di banalizzare la gente. Devi toglierti il cappello davanti a lei e alle tecniche di cui dispone per privare un uomo del suo significato e svuotarlo totalmente del suo orgoglio.Murray mi disse anche, quando glielo chiesi, in che modo era stato privato lui del suo significato. Conoscevo la storia a grandi linee, ma pochi dei suoi particolari, perché ero andato sotto le armi – e per anni non avevo piú rimesso piede a Newark – subito dopo essermi laureato, al college, nel 1954, mentre le traversie politiche di Murray non erano iniziate fino al maggio del ’55. Cominciammo con la storia di Murray, e fu solo alla fine del pomeriggio, quando gli chiesi se voleva restare a cena, che lui parve sentire, all’unisono con me, che i nostri rapporti erano passati su un piano piú intimo, e che non sarebbe stata una scorrettezza se Murray avesse continuato a parlare apertamente di suo fratello.
Vicino a dove vivo, nella parte occidentale del New England, un piccolo college di nome Athena organizza una serie di corsi estivi per anziani della durata di una settimana, e Murray a novant’anni si era iscritto, come studente, a quello pomposamente intitolato Shakespeare alla fine del Millennio. Ecco come l’avevo incontrato, in città, la domenica del suo arrivo (non avendolo riconosciuto, fui fortunato che mi riconoscesse lui), e come arrivammo a passare le nostre sei serate insieme. Ecco come, questa volta, il passato si ripresentò, nei panni di un uomo vecchissimo la cui dote principale consisteva nel non dedicare alle proprie disgrazie un pensiero in piú di quanto le disgrazie meritassero, e che ancora non riusciva a perder tempo parlando di cose poco serie. Una palpabile ostinazione conferiva alla sua personalità una scabra pienezza, e questo malgrado la radicale potatura alla quale il tempo aveva sottoposto il suo fisico atletico. Guardando Murray mentre parlava in quel suo modo familiare, aperto e scrupoloso, pensai: eccola, la vita umana. Ecco cosa significa durare.
Nel ’55, quasi quattro anni dopo che Ira era stato messo sulla lista nera ed espulso dalla radio perché comunista, Murray era stato sollevato dall’incarico d’insegnante dal Board of Education per essersi rifiutato di collaborare con la Commissione per le Attività Antiamericane quando era passata da Newark per quattro giorni di udienze. Fu reintegrato, ma solo dopo una battaglia legale durata sei anni che finí con una decisione 5-4 della Corte suprema dello stato, reintegrato con gli stipendi arretrati, meno i soldi che aveva guadagnato come piazzista di aspirapolvere per mantenere la famiglia in quei sei anni.
Insieme ai muscoli e all’evidente intelligenza, il professor Ringold portava con sé in aula una carica di viscerale spontaneità che, per dei ragazzi come noi, docili ed educati al rispetto, ragazzi che dovevano ancora comprendere che obbedire alle regole del vivere civile dettate dall’insegnante non aveva nulla a che vedere con lo sviluppo mentale, fu una rivelazione. C’era piú importanza di quanto, forse, lui stesso immaginasse nell’accattivante abitudine che aveva di tirarti il cancellino quando la risposta che davi non colpiva il bersaglio. O forse no. Forse il professor Ringold sapeva benissimo che quello che i ragazzi come me avevano bisogno d’imparare non era solo come esprimersi con precisione e acquisire una piú penetrante capacità di reazione alle parole, ma come essere vivaci senza essere stupidi, come non essere troppo ben dissimulati o troppo ben educati, come cominciare a liberare l’esuberanza virile dalla rettitudine istituzionale che intimidiva soprattutto i ragazzi svegli.
Si sentiva la forza, in senso sessuale, di un insegnante liceale come Murray Ringold (maschia autorevolezza non viziata da commiserazione), e si sentiva la vocazione, in senso sacerdotale, di un insegnante liceale come Murray Ringold, che non si era perso dietro l’amorfa aspirazione americana di sfondare, e che – diversamente dagli insegnanti di sesso femminile – avrebbe potuto scegliere di fare qualunque altra cosa o quasi, e che invece aveva scelto, come lavoro della propria vita, di dedicarsi a noi. Per tutta la giornata non voleva far altro che occuparsi dei giovani che poteva influenzare, ed era dalle loro reazioni che ricavava la sua massima soddisfazione.
Non che l’impronta lasciata sulla mia idea della libertà dall’audacia del suo stile professionale fosse evidente allora; nessun ragazzo la pensava cosí, né sulla scuola, né sui professori, né sul proprio conto. L’esempio di Murray, tuttavia, doveva avere nutrito una voglia incipiente d’indipendenza sociale, e io glielo dissi allorché, nel luglio 1997, per la prima volta da quando mi ero diplomato nel 1950, lo incontrai, già novantenne, ma per tutti gli altri versi sempre uguale all’insegnante di un tempo; oggi come allora, per lui il dovere realisticamente consisteva, senza autoparodie né melodrammi, nell’impersonare davanti agli studenti il motto dell’indipendente: «Non me ne importa un cavolo»; e nell’insegnare ai suoi ragazzi che per trasgredire non occorre essere Al Capone: basta pensare. – Nella società umana, – ci insegnava il professor Ringold, – la trasgressione piú grande di tutte è pensare. – Il pen-sie-ro cri-ti-co, – diceva il professor Ringold, battendo le nocche sul piano delle cattedra per sottolineare ogni sillaba: – ecco l’estrema trasgressione –. Dissi a Murray che sentire queste cose tanto tempo prima da un tipo virile come lui – vederle dimostrate da lui – mi aveva dato l’idea piú precisa che potesse mai venirmi di cosa significava diventare grandi, anche se, da quel ragazzo provinciale, privilegiato e d’animo nobile che ero, da quel ragazzo che tanto desiderava diventare razionale, importante e libero, dovevo averla capita solo a metà.
Murray, a sua volta, mi disse tutto ciò che, da ragazzo, non sapevo e non avrei potuto sapere della vita privata di suo fratello, una grave disgrazia dai risvolti farseschi sulla quale ogni tanto si sorprendeva a rimuginare anche se Ira era morto da piú di trent’anni. – Migliaia e migliaia di americani distrutti in quegli anni, vittime della politica, vittime della storia, a causa delle proprie convinzioni, – disse Murray. – Ma non ricordo nessuno massacrato come Ira. Lo scontro non avvenne sul grande campo di battaglia americano che avrebbe scelto lui per la propria distruzione. Forse, a dispetto dell’ideologia, della politica e della storia, ogni vera catastrofe è, nel nocciolo, sempre un patetico dramma personale. Non si può criticare la vita perché qualche volta non le riesce di banalizzare la gente. Devi toglierti il cappello davanti a lei e alle tecniche di cui dispone per privare un uomo del suo significato e svuotarlo totalmente del suo orgoglio.Murray mi disse anche, quando glielo chiesi, in che modo era stato privato lui del suo significato. Conoscevo la storia a grandi linee, ma pochi dei suoi particolari, perché ero andato sotto le armi – e per anni non avevo piú rimesso piede a Newark – subito dopo essermi laureato, al college, nel 1954, mentre le traversie politiche di Murray non erano iniziate fino al maggio del ’55. Cominciammo con la storia di Murray, e fu solo alla fine del pomeriggio, quando gli chiesi se voleva restare a cena, che lui parve sentire, all’unisono con me, che i nostri rapporti erano passati su un piano piú intimo, e che non sarebbe stata una scorrettezza se Murray avesse continuato a parlare apertamente di suo fratello.
Vicino a dove vivo, nella parte occidentale del New England, un piccolo college di nome Athena organizza una serie di corsi estivi per anziani della durata di una settimana, e Murray a novant’anni si era iscritto, come studente, a quello pomposamente intitolato Shakespeare alla fine del Millennio. Ecco come l’avevo incontrato, in città, la domenica del suo arrivo (non avendolo riconosciuto, fui fortunato che mi riconoscesse lui), e come arrivammo a passare le nostre sei serate insieme. Ecco come, questa volta, il passato si ripresentò, nei panni di un uomo vecchissimo la cui dote principale consisteva nel non dedicare alle proprie disgrazie un pensiero in piú di quanto le disgrazie meritassero, e che ancora non riusciva a perder tempo parlando di cose poco serie. Una palpabile ostinazione conferiva alla sua personalità una scabra pienezza, e questo malgrado la radicale potatura alla quale il tempo aveva sottoposto il suo fisico atletico. Guardando Murray mentre parlava in quel suo modo familiare, aperto e scrupoloso, pensai: eccola, la vita umana. Ecco cosa significa durare.
Nel ’55, quasi quattro anni dopo che Ira era stato messo sulla lista nera ed espulso dalla radio perché comunista, Murray era stato sollevato dall’incarico d’insegnante dal Board of Education per essersi rifiutato di collaborare con la Commissione per le Attività Antiamericane quando era passata da Newark per quattro giorni di udienze. Fu reintegrato, ma solo dopo una battaglia legale durata sei anni che finí con una decisione 5-4 della Corte suprema dello stato, reintegrato con gli stipendi arretrati, meno i soldi che aveva guadagnato come piazzista di aspirapolvere per mantenere la famiglia in quei sei anni.
Editore: Einaudi
Pagine: 182
Collana: Super ET
eBook: 6,99 euro
Philip Roth è uno dei maggiori scrittori contemporanei e uno dei più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese in assoluto. Il suo romanzo più famoso è Pastorale Americana, per il quale Roth ha ricevuto il Premio Pulitzer nel 1998.
Altri libri
Il complotto contro l’America
Il teatro di Sabbath
La macchia umana
Lamento di Portnoy
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Quando lei era buona
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RECENSIONI
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