Indignazione è un romanzo breve dello scrittore americano Philip Roth. In questo articolo potete trovare la trama di Indignazione, la copertina e un ampio estratto dal testo.
Indignazione: la trama del libro
“Indignazione” racconta dell’educazione di un giovane uomo alle terrificanti opportunità e ai bizzarri impedimenti della vita nell’America del 1951. E una storia di inesperienza, stoltezza, resistenza intellettuale, scoperta sessuale, coraggio ed errore. E una storia narrata con tutta l’energia inventiva e l’arguzia di cui Roth è maestro, e un ulteriore poderoso tassello nella sua analisi dell’impatto della storia americana sulla vita di individui vulnerabili.
Estratto
Circa due mesi e mezzo dopo che il 25 giugno 1950 le ben addestrate divisioni della Corea del Nord, armate dai comunisti sovietici e cinesi, avevano attraversato il 38° parallelo invadendo la Corea del Sud, e le sciagure della Guerra di Corea avevano avuto inizio, io avevo cominciato a frequentare il Robert Treat, un piccolo college nel centro di Newark che prendeva nome da colui che nel xvii secolo aveva fondato la città. Ero il primo esponente della mia famiglia ad ambire a un’istruzione universitaria. Nessuno dei miei cugini era andato oltre le superiori, e né mio padre né i suoi tre fratelli avevano finito le elementari. – È da quando avevo dieci anni che lavoro per guadagnarmi da vivere, – mi diceva sempre mio padre. Era un macellaio di quartiere, e io per tutto il periodo delle superiori avevo fatto le consegne in bicicletta per lui, eccetto durante la stagione del baseball e nei pomeriggi in cui dovevo partecipare con la mia squadra agli incontri del campionato interscolastico di dibattito. Quasi dal giorno stesso in cui lasciai il negozio – dove avevo lavorato per lui sessanta ore alla settimana da quando mi ero diplomato in gennaio fino all’inizio del college a settembre –, quasi dal giorno stesso in cui andai alla mia prima lezione al Robert Treat, mio padre cominciò a temere per la mia vita. Forse la sua paura aveva a che fare con la guerra, in cui le forze armate statunitensi, sotto gli auspici delle Nazioni Unite, erano immediatamente entrate per sostenere lo sforzo bellico del male addestrato e poco attrezzato esercito sudcoreano; forse aveva a che fare con le pesanti perdite che le nostre truppe stavano subendo contro la potenza di fuoco comunista e con la paura che, se il conflitto si fosse trascinato altrettanto a lungo della Seconda guerra mondiale, io venissi arruolato nell’esercito per combattere e morire sul campo di battaglia coreano come i miei cugini Abe e Dave erano morti durante la Seconda guerra mondiale. O forse la paura aveva a che fare con le sue preoccupazioni finanziarie: l’anno precedente, il primo supermercato del quartiere aveva aperto i battenti ad appena qualche isolato dalla macelleria kosher della nostra famiglia, e le vendite avevano cominciato progressivamente a calare, in parte perché la sezione carne e pollame del supermercato applicava prezzi inferiori a quelli di mio padre, e in parte perché nel dopoguerra sempre meno famiglie si prendevano il disturbo di mantenere uno stile di vita kosher e di comprare carne e pollo kosher da un negozio con certificazione rabbinica il cui proprietario fosse membro della Federazione dei Macellai Kosher del New Jersey. O forse la sua paura per me nasceva dalla paura per se stesso, poiché a cinquant’anni, dopo aver goduto per tutta la vita di ottima salute, quell’uomo piccolo e robusto cominciava a essere tormentato da una tosse secca e persistente che, per quanto inquietasse mia madre, non gli impediva di tenere per l’intera giornata una sigaretta accesa all’angolo della bocca. Qualunque fosse stata la causa, o la concomitanza di cause, dell’improvvisa trasformazione del suo precedentemente benevolo comportamento paterno, ora mio padre manifestava la sua paura perseguitandomi giorno e notte con le sue domande ossessive. Dove sei stato? Perché non eri a casa? Come faccio a sapere dove sei quando esci? Sei un ragazzo con un magnifico futuro davanti… come faccio a sapere che non vai in posti dove potresti farti ammazzare?
Erano domande grottesche, dal momento che, negli anni delle superiori, ero stato uno studente giudizioso, responsabile, diligente, che prendeva sempre il massimo dei voti e usciva solo con le ragazze piú ammodo, raffinato argomentatore nelle sfide di dibattito, jolly interno per la squadra di baseball della scuola, soddisfatto di mantenermi nell’ambito delle norme adolescenziali del nostro quartiere e della mia scuola. Erano anche domande esasperanti: era come se il padre a cui ero stato cosí vicino nel corso di tutti quegli anni, crescendo praticamente al suo fianco in negozio, non avesse piú la minima idea di chi o cosa fosse suo figlio. Al negozio, i clienti deliziavano lui e mia madre dicendo loro quant’era stato bello veder crescere il piccolino a cui una volta portavano i biscotti – quando il padre per farlo giocare gli lasciava tagliare i pezzi di grasso come un «macellaio grande», sebbene con un coltello dalla lama smussata –, vederlo trasformarsi sotto i loro occhi in un giovanotto distinto e forbito che passava il manzo nel tritacarne e spargeva la segatura per spazzare il pavimento e strappava via le piume rimaste al collo dei polli morti appesi ai ganci quando il padre lo chiamava e gli diceva: – Fa’ il piacere, Markie, pulisci due polli per la signora Tal-dei-tali –. Durante i sette mesi prima del college, fece molto piú che darmi la carne da tritare e i polli da pulire. Mi insegnò come ricavare le braciole da un carré d’agnello, come separare ogni costola e, quand’ero arrivato al fondo, prendere la mannaia e affettare quel che restava. E mi insegnò sempre con grande disinvoltura. – Basta che tieni l’altra mano lontana dalla mannaia e andrà tutto bene, – diceva. Mi insegnò a essere paziente con i clienti piú pignoli, in particolare quelli che volevano esaminare la carne da ogni angolazione prima di comprarla, quelli per cui dovevo reggere il pollo in modo tale che loro potessero letteralmente guardargli su per il buco del culo per assicurarsi che fosse pulito. – È incredibile cosa ti fanno passare certe donne prima di convincersi a comprare il pollo, – mi diceva. E poi ne faceva l’imitazione: – «Me lo giri. No, dall’altra parte. Mi faccia vedere il didietro» –. Il mio compito non era solo spennare i polli, ma anche sviscerarli. Incidergli il culo in modo da allargarlo un po’, infilarci la mano dentro, agguantare le viscere e tirarle fuori. Odiavo quell’operazione. Era nauseante e disgustosa, ma andava fatta. Ecco cosa imparavo da mio padre e cosa mi piaceva imparare da lui: si fa quel che va fatto.
Erano domande grottesche, dal momento che, negli anni delle superiori, ero stato uno studente giudizioso, responsabile, diligente, che prendeva sempre il massimo dei voti e usciva solo con le ragazze piú ammodo, raffinato argomentatore nelle sfide di dibattito, jolly interno per la squadra di baseball della scuola, soddisfatto di mantenermi nell’ambito delle norme adolescenziali del nostro quartiere e della mia scuola. Erano anche domande esasperanti: era come se il padre a cui ero stato cosí vicino nel corso di tutti quegli anni, crescendo praticamente al suo fianco in negozio, non avesse piú la minima idea di chi o cosa fosse suo figlio. Al negozio, i clienti deliziavano lui e mia madre dicendo loro quant’era stato bello veder crescere il piccolino a cui una volta portavano i biscotti – quando il padre per farlo giocare gli lasciava tagliare i pezzi di grasso come un «macellaio grande», sebbene con un coltello dalla lama smussata –, vederlo trasformarsi sotto i loro occhi in un giovanotto distinto e forbito che passava il manzo nel tritacarne e spargeva la segatura per spazzare il pavimento e strappava via le piume rimaste al collo dei polli morti appesi ai ganci quando il padre lo chiamava e gli diceva: – Fa’ il piacere, Markie, pulisci due polli per la signora Tal-dei-tali –. Durante i sette mesi prima del college, fece molto piú che darmi la carne da tritare e i polli da pulire. Mi insegnò come ricavare le braciole da un carré d’agnello, come separare ogni costola e, quand’ero arrivato al fondo, prendere la mannaia e affettare quel che restava. E mi insegnò sempre con grande disinvoltura. – Basta che tieni l’altra mano lontana dalla mannaia e andrà tutto bene, – diceva. Mi insegnò a essere paziente con i clienti piú pignoli, in particolare quelli che volevano esaminare la carne da ogni angolazione prima di comprarla, quelli per cui dovevo reggere il pollo in modo tale che loro potessero letteralmente guardargli su per il buco del culo per assicurarsi che fosse pulito. – È incredibile cosa ti fanno passare certe donne prima di convincersi a comprare il pollo, – mi diceva. E poi ne faceva l’imitazione: – «Me lo giri. No, dall’altra parte. Mi faccia vedere il didietro» –. Il mio compito non era solo spennare i polli, ma anche sviscerarli. Incidergli il culo in modo da allargarlo un po’, infilarci la mano dentro, agguantare le viscere e tirarle fuori. Odiavo quell’operazione. Era nauseante e disgustosa, ma andava fatta. Ecco cosa imparavo da mio padre e cosa mi piaceva imparare da lui: si fa quel che va fatto.
Editore: Einaudi
Pagine: 144
Collana: Super ET
eBook: 7,99 euro
Philip Roth è uno dei maggiori scrittori contemporanei e uno dei più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese in assoluto. Il suo romanzo più famoso è Pastorale Americana, per il quale Roth ha ricevuto il Premio Pulitzer nel 1998.
Altri libri
Il complotto contro l’America
Il teatro di Sabbath
La macchia umana
Lamento di Portnoy
Pastorale Americana
Everyman
Quando lei era buona
Ho sposato un comunista
L’animale morente
La controvita
Inganno
L’umiliazione
La mia vita di uomo
Patrimonio
RECENSIONI
Lascia un commento