Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Invisibile di Paul Auster. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einiaudi con un prezzo di copertina di 11,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Invisibile: trama del libro
Nel 1967, Adam Walker ha vent’anni e studia a New York; la sua unica aspirazione è diventare poeta. Durante una festa, conosce l’enigmatico e inquietante professore parigino Rudolf Born e la sua seducente fidanzata, Margot. Tra loro si instaura immediatamente un legame fatto di sottintesi, di cose dette e non dette: Rudolf sembra aver preso in simpatia il giovane e gli offre di ideare e curare una rivista letteraria che intende finanziare. Adam, dal canto suo, prova una forte attrazione per Margot con la quale, quando Born torna temporaneamente in Europa, si abbandona a cinque giorni di sesso. Scoperto il tradimento, Rudolf caccia Margot. Non mostra tuttavia risentimento nei confronti di Adam che, pur sconcertato da questa ambiguità, continua a frequentarlo: sino a quando, una sera, non assiste alla criminale esplosione della sua aggressività. Tormentato dai sensi di colpa per non avere tempestivamente avvisato la polizia e consapevole di aver vissuto un’esperienza che lo segnerà per sempre, trascorre l’estate in città con la sorella Gwyn: complici le loro solitudini e i loro lutti, i due riallacciano le fila di un legame profondo che li unisce sin dall’infanzia. All’inizio dell’autunno, Adam parte per Parigi, ufficialmente perché ha vinto una borsa di studio. Ma Parigi è anche la città in cui, sfuggendo alle autorità americane, è tornato a vivere Born. Adam sa bene che si dovrà così confrontare con la parte più nera e imperscrutabile della propria anima.
Approfondimenti sul libro
In ebook Invisibile (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Quando si presentò come Rudolf Born, i miei pensieri andarono subito al poeta. Per caso lei è parente di Bertran? gli chiesi.
Ah, mi rispose, quella disgraziata creatura che perse la testa. Può darsi, ma temo sia improbabile. Manca il de. Per averlo bisogna far parte della nobiltà, e la triste verità è che io sono tutt’altro che nobile.
Non ricordo perché mi trovassi lí. Qualcuno doveva avermi chiesto di accompagnarlo, ma chi fosse quel qualcuno mi è svanito da tempo dalla mente. Non ricordo nemmeno dove si tenesse la festa – in periferia o in centro, in un appartamento o in un loft – e per la verità neanche il motivo per cui avevo accettato l’invito, dato che all’epoca tendevo a evitare le occasioni mondane, respinto dal baccano del chiacchiericcio generale, imbarazzato dalla timidezza che mi dominava in presenza degli sconosciuti. Ma quella sera, chissà come mai, dissi di sí e seguii il mio amico dimenticato nel luogo, qualunque fosse, dove mi portò.
Ricordo invece questo: che a un certo punto della serata mi ritrovai solo, in piedi, in un angolo della stanza. Fumavo una sigaretta e guardavo gli invitati, decine e decine di giovani corpi ammassati nei limiti di quello spazio, ascoltavo il clamore misto di parole e risa, chiedendomi che diavolo ci stavo a fare lí, e pensai che forse era ora di andarsene. Sul calorifero alla mia sinistra era appoggiato un portacenere, e quando mi voltai per spegnere la sigaretta vidi che il ricettacolo colmo di cicche si stava alzando verso di me retto nel palmo della mano di un uomo. Poco prima, senza che me ne accorgessi, si erano sedute sul calorifero due persone: un uomo e una donna, entrambi piú grandi di me, anzi senz’altro piú vecchi di tutti gli altri presenti nella sala: lui sui trentacinque anni, lei attorno alla trentina.
Sembravano una coppia un po’ incongrua, Born con un vestito di lino bianco stropicciato e anche piuttosto sudicio, e la donna (che risultò poi chiamarsi Margot) tutta in nero. Quando lo ringraziai per il portacenere, lui mi fece un breve cenno di cortesia e disse Le pare con una minima traccia di accento straniero. Francese o tedesco, non avrei saputo decidere, perché parlava un inglese quasi impeccabile. Cos’altro notai in quei primi momenti? Carnagione pallida, capelli rossicci e spettinati (tagliati piú corti della maggioranza degli uomini dell’epoca), una bella faccia larga senza tratti caratteristici (una faccia, per cosí dire, generica, una faccia che in mezzo a qualsiasi folla sarebbe diventata invisibile), e due occhi castani, fermi, gli occhi indagatori di un uomo che sembrava non avere paura di niente. Né magro né grasso, né alto né basso, ma in tutto ciò una sensazione di forza fisica, forse dovuta alle mani poderose. Quanto a Margot, stava seduta senza muovere un muscolo, gli occhi fissi nello spazio come se la sua missione principale nella vita fosse apparire annoiata. Però affascinante, molto affascinante per un ventenne come me, con i capelli neri, la dolcevita nera, la minigonna nera, gli stivali di pelle nera e il trucco pesante nero attorno ai grandi occhi verdi. Non una bellezza, forse, ma un simulacro della bellezza, come se lo stile e la raffinatezza del suo aspetto incarnassero una sorta di ideale femminile dell’epoca.
Born dichiarò che lui e Margot erano stati lí lí per andarsene, ma poi mi avevano visto lí, in piedi da solo in un angolo, e dato che avevo un’aria cosí infelice avevano deciso di avvicinarsi e tirarmi un po’ su… tanto per essere sicuri che non mi tagliassi le vene prima della fine della serata. Non avevo idea di come interpretare la battuta. Quest’uomo mi sta insultando, mi chiesi, oppure cerca davvero di mostrarsi gentile con un ragazzo sconosciuto, avendolo visto a disagio? Di per sé le parole avevano un carattere abbastanza scherzoso, disarmante, ma lo sguardo di Born mentre le pronunciava era freddo e distaccato, e non potei fare a meno di sentire che mi stava sondando, mi provocava per ragioni che proprio non capivo.
Scrollai le spalle, gli feci un sorrisetto e ribattei: Che ci creda o no, non mi sono mai divertito tanto in vita mia.
Fu allora che si alzò, mi porse la mano e mi disse il suo nome. Dopo la mia domanda su Bertran de Born mi presentò a Margot, la quale mi sorrise in silenzio e tornò alla sua occupazione di fissare gli occhi nel vuoto.
A giudicare dalla sua età, disse Born, e dalla sua conoscenza di poeti poco noti, direi che è uno studente. Di lettere, senz’altro. NYU o Columbia?
Columbia.
Columbia, sospirò lui. Che posto triste.
La conosce?
Insegno lí da settembre, alla Scuola di Affari Internazionali. Professore in visita con incarico annuale. Per fortuna ormai è aprile, e fra due mesi me ne tornerò a Parigi.
Dunque è francese.
Per circostanze, anima e passaporto. Ma di nascita, svizzero.
Svizzero francese o tedesco? Nella sua voce sento un po’ di entrambi.
Born schioccò appena la lingua e poi mi guardò intensamente negli occhi. Orecchio fino, disse. In effetti io sono entrambi… il prodotto ibrido di una madre germanofona e di un padre francofono. Sono cresciuto facendo avanti e indietro fra le due lingue.
A quel punto, non sapendo che dire, mi interruppi un momento e poi gli rivolsi una domanda innocua: E cosa insegna nel nostro lugubre ateneo?
Disastri.
Una materia molto vasta, no?
Per la precisione, i disastri del colonialismo francese. Tengo un corso sulla perdita dell’Algeria, e un altro sulla perdita dell’Indocina.
Quella deliziosa guerra che abbiamo ereditato da voi.
Mai sottovalutare l’importanza della guerra. La guerra è l’espressione piú pura e vivace dell’anima umana.
Sta iniziando a parlare come il nostro poeta senza testa.
Mi scusi?
Deduco che non l’ha letto.
Nemmeno una parola. Tutto quello che so di lui, lo so da Dante.
De Born era un buon poeta, forse anche un grande poeta… ma inquietante a dir poco. Ha scritto incantevoli poesie d’amore e un commovente lamento per la morte del principe Enrico, ma il suo tema piú autentico, la sola cosa che sembrava stargli a cuore con autentica passione, era la guerra. Ne traeva godimento, davvero.
Capisco, disse Born con un sorriso ironico. Un uomo come piace a me.
Parlo del godimento nel vedere uomini che si sfondano il cranio a vicenda, o nel contemplare castelli incendiati e demoliti, e cadaveri con le lance piantate nel fianco. Roba sanguinolenta, mi creda, ma de Born non fa una piega. Il semplice pensiero di un campo di battaglia lo colma di gioia.
Deduco che lei non ambisce a diventare un soldato.
Per niente. Preferirei andare in prigione che combattere in Vietnam.
E premesso che eviti sia la prigione sia l’esercito, che progetti avrebbe?
Nessuno. Solo continuare con quello che sto facendo nella speranza che funzioni.
E sarebbe?
La scrittura. La bella arte dell’imbrattacarte.
Mi sembrava. Quando Margot l’ha vista in fondo alla stanza, mi ha detto: Guarda quel ragazzo con gli occhi tristi e il viso pensieroso… scommetto che è un poeta. E, mi dica, è proprio cosí?
Sí, scrivo poesie. E recensisco qualche libro per lo «Spectator».
Ah, il giornaletto degli studenti.
Da qualche parte si deve pur iniziare.
Interessante…
Mica tanto. Metà delle persone che conosco vogliono diventare scrittori.
Perché dice volere? Se già lo sta facendo, non lo vuole soltanto. È una cosa che già esiste.
Perché è ancora troppo presto per sapere se sono abbastanza bravo.
Le pagano gli articoli?
No, figurarsi. È un giornalino universitario.
Quando cominceranno a pagarla saprà che è abbastanza bravo.
D’un tratto, prima che potessi rispondere, Born si voltò verso Margot per annunciarle: Avevi ragione, angelo mio. Il tuo giovanotto è un poeta.
Margot alzò gli occhi verso di me e con uno sguardo neutro, valutativo, parlò per la prima volta, pronunciando le frasi con un accento straniero che risultò molto piú spiccato di quello del suo compagno – un inconfondibile accento francese. Io ho sempre ragione, disse. Ormai dovresti saperlo, Rudolf.
Un poeta, continuò Born, sempre rivolto a Margot, occasionale recensore di libri, e studente nel tristo maniero sulle alture, vale a dire che probabilmente è nostro vicino. Ma non ha nome. O almeno, nessuno che io conosca.
Mi chiamo Walker, dissi, rendendomi conto che quando ci eravamo stretti la mano avevo dimenticato di presentarmi. Adam Walker.
Adam Walker, ripetè Born staccando gli occhi da Margot e guardando me mentre sfoderava un altro dei suoi sorrisi enigmatici. Un bel nome americano, solido. Cosí forte, cosí insulso, cosí affidabile. Adam Walker. Il cacciatore di taglie solitario in un western in cinemascope, che perlustra il deserto con il fucile e la sei colpi in sella al suo castrone sauro. O magari il chirurgo di buon cuore, un uomo tanto perbene, in una soap opera per casalinghe, tragicamente innamorato di due donne nello stesso tempo.
Sí, sembra solido, risposi, ma in America niente lo è. Il cognome fu assegnato a mio nonno quando sbarcò a Ellis Island, nel 1900. Pare che gli addetti dell’ufficio immigrazione considerassero Walshinksky troppo difficile da scrivere, e cosí lo chiamarono Walker.
Che paese, disse Born. Funzionari analfabeti che defraudano un uomo della sua identità con un semplice tratto di penna.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Paul Auster.
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