Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Io non ho paura di Niccolò Ammaniti, romanzo edito in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99.
Io non ho paura: trama del libro
Michele Amitrano, nove anni, si trova di colpo a fare i conti con un segreto cosi grande e terribile da non poterlo nemmeno raccontare. E per affrontarlo dovrà trovare la forza proprio nelle sue fantasie di bambino, mentre il lettore assiste a una doppia storia: quella vista con gli occhi di Michele e quella, tragica, che coinvolge i grandi di Acqua Traverse, misera frazione dispersa tra i campi di grano. Il risultato è un racconto potente e di assoluta felicità narrativa, dove si respirano atmosfere che vanno da Clive Barker alle Avventure di Tom Sawyer, alle Fiabe italiane di Calvino. La storia è ambientata nell’estate torrida del 1978 nella campagna di un Sud dell’Italia non identificato, ma evocato con rara forza descrittiva. In questo paesaggio dominato dal contrasto tra la luce abbagliante del sole e il buio della notte, Ammaniti alterna, a colpi di scena sapienti, la commedia, il mondo dei rapporti infantili, la lingua e la buffa saggezza dei bambini, la loro tenacia, la forza dell’amicizia e il dramma del tradimento.
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Non dovevo portarmela dietro, mamma me l’avrebbe fatta pagare cara.
Mi sono fermato. Ero sudato. Ho preso fiato e l’ho chiamata. – Maria? Maria?
Mi ha risposto una vocina sofferente. – Michele!
– Ti sei fatta male?
– Sí, vieni.
– Dove ti sei fatta male?
– Alla gamba.
Faceva finta, era stanca. Vado avanti, mi sono detto. E se si era fatta male davvero?
Dov’erano gli altri?
Vedevo le loro scie nel grano. Salivano piano, in file parallele, come le dita di una mano, verso la cima della collina, lasciandosi dietro una coda di steli abbattuti.
Quell’anno il grano era alto. A fine primavera aveva piovuto tanto, e a metà giugno le piante erano piú rigogliose che mai. Crescevano fitte, cariche di spighe, pronte per essere raccolte.
Ogni cosa era coperta di grano. Le colline, basse, si susseguivano come onde di un oceano dorato. Fino in fondo all’orizzonte grano, cielo, grilli, sole e caldo.
Non avevo idea di quanto faceva caldo, uno a nove anni, di gradi centigradi se ne intende poco, ma sapevo che non era normale.
Quella maledetta estate del 1978 è rimasta famosa come una delle piú calde del secolo. Il calore entrava nelle pietre, sbriciolava la terra, bruciava le piante e uccideva le bestie, infuocava le case. Quando prendevi i pomodori nell’orto, erano senza succo e le zucchine piccole e dure. Il sole ti levava il respiro, la forza, la voglia di giocare, tutto. E la notte si schiattava uguale.
Ad Acqua Traverse gli adulti non uscivano di casa prima delle sei di sera. Si tappavano dentro, con le persiane chiuse. Solo noi ci avventuravamo nella campagna rovente e abbandonata.
Mia sorella Maria aveva cinque anni e mi seguiva con l’ostinazione di un bastardino tirato fuori da un canile.
«Voglio fare quello che fai tu», diceva sempre. Mamma le dava ragione.
«Sei o non sei il fratello maggiore?» E non c’erano santi, mi toccava portarmela dietro.
Nessuno si era fermato ad aiutarla.
Normale, era una gara.
– Dritti, su per la collina. Niente curve. È vietato stare uno dietro l’altro. È vietato fermarsi. Chi arriva ultimo paga penitenza –. Aveva deciso il Teschio e mi aveva concesso: – Va bene, tua sorella non gareggia. È troppo piccola.
– Non sono troppo piccola! – aveva protestato Maria. – Voglio fare anch’io la gara! – E poi era caduta.
Peccato, ero terzo.
Primo era Antonio. Come sempre.
Antonio Natale, detto il Teschio. Perché lo chiamavamo il Teschio non me lo ricordo. Forse perché una volta si era appiccicato sul braccio un teschio, una di quelle decalcomanie che si compravano dal tabaccaio e si attaccavano con l’acqua. Il Teschio era il piú grande della banda. Dodici anni. Ed era il capo. Gli piaceva comandare e se non obbedivi diventava cattivo. Non era una cima, ma era grosso, forte e coraggioso. E si arrampicava su per quella collina come una dannata ruspa.
Secondo era Salvatore.
Salvatore Scardaccione aveva nove anni, la mia stessa età. Eravamo in classe insieme. Era il mio migliore amico. Salvatore era piú alto di me. Era un ragazzino solitario. A volte veniva con noi ma spesso se ne stava per i fatti suoi. Era piú sveglio del Teschio, gli sarebbe stato facilissimo spodestarlo, ma non gli interessava diventare capo. Il padre, l’avvocato Emilio Scardaccione, era una persona importante a Roma. E aveva un sacco di soldi in Svizzera. Questo si diceva.
Poi c’ero io, Michele. Michele Amitrano. E anche quella volta ero terzo, stavo salendo bene, ma per colpa di mia sorella adesso ero fermo.
Stavo decidendo se tornare indietro o lasciarla là, quando mi sono ritrovato quarto. Dall’altra parte del crinale quella schiappa di Remo Marzano mi aveva superato. E se non mi rimettevo subito ad arrampicarmi mi sorpassava pure Barbara Mura.
Sarebbe stato orribile. Sorpassato da una femmina. Cicciona.
Barbara Mura saliva a quattro zampe come una scrofa inferocita. Tutta sudata e coperta di terra.
– Che fai, non vai dalla sorellina? Non l’hai sentita? Si è fatta male, poverina, – ha grugnito felice. Per una volta non sarebbe toccata a lei la penitenza.
– Ci vado, ci vado… E ti batto pure –. Non potevo dargliela vinta cosí.
Mi sono voltato e ho cominciato a scendere, agitando le braccia e urlando come un sioux. I sandali di cuoio scivolavano sul grano. Sono finito culo a terra un paio di volte.
Non la vedevo. – Maria! Maria! Dove stai?
– Michele…
Eccola. Era lí. Piccola e infelice. Seduta sopra un cerchio di steli spezzati. Con una mano si massaggiava una caviglia e con l’altra si teneva gli occhiali. Aveva i capelli appiccicati alla fronte e gli occhi lucidi. Quando mi ha visto, ha storto la bocca e si è gonfiata come un tacchino.
– Michele…?
– Maria, mi hai fatto perdere la gara! Te l’avevo detto di non venire, mannaggia a te –. Mi sono seduto. – Che ti sei fatta?
– Sono inciampata. Mi sono fatta male al piede e… – Ha spalancato la bocca, ha strizzato gli occhi, ha dondolato la testa ed è esplosa a frignare. – Gli occhiali! Gli occhiali si sono rotti!
Le avrei mollato uno schiaffone. Era la terza volta che rompeva gli occhiali da quando era finita la scuola. E ogni volta con chi se la prendeva mamma?
«Devi stare attento a tua sorella, sei il fratello maggiore».
«Mamma, io…»
«Niente mamma io. Tu non hai ancora capito, ma io i soldi non li trovo nell’orto. La prossima volta che rompete gli occhiali ti prendi una di quelle punizioni che…»
Si erano spezzati al centro, dove erano stati già incollati. Erano da buttare.
Mia sorella intanto continuava a piangere.
– Mamma… Si arrabbia… Come si fa?
– E come si fa? Ci mettiamo lo scotch. Alzati, su.
– Sono brutti con lo scotch. Sono bruttissimi. Non mi piacciono.
Mi sono infilato gli occhiali in tasca. Senza, Maria non ci vedeva, aveva gli occhi storti e il medico aveva detto che si sarebbe dovuta operare prima di diventare grande. – Non fa niente. Alzati.
Ha smesso di piangere e ha cominciato a tirare su con il naso. – Mi fa male il piede.
– Dove? – Continuavo a pensare agli altri, dovevano essere arrivati sopra la collina da un’ora. Ero ultimo. Speravo solo che il Teschio non mi facesse scontare una penitenza troppo dura. Una volta che avevo perso una gara mi aveva obbligato a correre nell’ortica.
– Dove ti fa male?
– Qua –. Mi ha mostrato la caviglia.
– Una storta. Non è niente. Passa subito.
Le ho slacciato la scarpa da ginnastica e l’ho sfilata con molta attenzione. Come avrebbe fatto un dottore. – Ora va meglio?
– Un po’. Torniamo a casa? Ho sete da morire. E mamma…
Aveva ragione. Ci eravamo allontanati troppo. E da troppo tempo. L’ora di pranzo era passata da un pezzo e mamma doveva stare di vedetta alla finestra.
Lo vedevo male il ritorno a casa.
Ma chi se lo immaginava poche ore prima.
Quella mattina avevamo preso le biciclette.
Di solito facevamo dei giri piccoli, intorno alle case, arrivavamo ai bordi dei campi, al torrente secco e tornavamo indietro facendo le gare.
La mia bicicletta era un ferro vecchio, con il sellino rattoppato, e cosí alta che dovevo piegarmi tutto per toccare a terra.
Tutti la chiamavano la Scassona. Salvatore diceva che era la bicicletta degli alpini. Ma a me piaceva, era quella di mio padre.
Se non andavamo in bicicletta ce ne stavamo in strada a giocare a pallone, a ruba bandiera, a un due tre stella o sotto la tettoia del capannone a non fare niente.
Potevamo fare quello che ci pareva. Macchine non ne passavano. Pericoli non ce n’erano. E i grandi se ne stavano rintanati in casa, come rospi che aspettano la fine del caldo.
Il tempo scorreva lento. A fine estate non vedevamo l’ora che ricominciasse la scuola.
Quella mattina avevamo attaccato a parlare dei maiali di Melichetti.
Si parlava spesso, tra noi, dei maiali di Melichetti. Si diceva che il vecchio Melichetti li addestrava a sbranare le galline, e a volte pure i conigli e i gatti che raccattava per strada.
Il Teschio ha sputato uno spruzzo di saliva bianca. – Finora non ve l’ho mai raccontato. Perché non lo potevo dire. Ma ora ve lo dico: quei maiali si sono mangiati il bassotto della figlia di Melichetti.
Si è sollevato un coro generale. – No, non è vero!
– È vero. Ve lo giuro sul cuore della Madonna. Vivo. Completamente vivo.
– È impossibile!
Che razza di bestie dovevano essere per mangiarsi pure un cane di razza?
Il Teschio ha fatto di sí con la testa. – Melichetti glielo ha lanciato dentro il recinto. Il bassotto ha provato a scappare, è un animale furbo, ma i maiali di Melichetti di piú. Non gli hanno dato scampo. Massacrato in due secondi –. Poi ha aggiunto: – Peggio dei cinghiali.
Barbara gli ha chiesto: – E perché glielo ha lanciato?
Il Teschio ci ha pensato un po’. – Ha pisciato in casa. E se tu finisci là dentro, cicciona come sei, ti spolpano fino alle ossa.
Maria si è messa in piedi. – È pazzo Melichetti?
Il Teschio ha sputato di nuovo a terra. – Piú pazzo dei suoi maiali.
Siamo rimasti zitti a immaginarci la figlia di Melichetti con un padre cosí cattivo. Nessuno di noi sapeva come si chiamava, ma era famosa per avere una specie di armatura di ferro intorno a una gamba.
– Possiamo andarli a vedere! – me ne sono uscito.
– Una spedizione! – ha fatto Barbara.
– È lontanissima la fattoria di Melichetti. Ci mettiamo un sacco, – ha brontolato Salvatore.
– E invece è vicinissima, andiamo… – Il Teschio è montato sulla bicicletta. Non sprecava mai l’occasione per avere la meglio su Salvatore.
Mi è venuta un’idea. – Perché non prendiamo una gallina dal pollaio di Remo, cosí quando arriviamo la gettiamo nel recinto dei maiali e vediamo come la spolpano?
– Forte! – il Teschio ha approvato.
– Ma papà mi uccide se gli prendiamo una gallina, – ha piagnucolato Remo.
Non c’è stato niente da fare, l’idea era buonissima.
Siamo entrati nel pollaio, abbiamo scelto la gallina piú magra e spelacchiata e l’abbiamo messa in una sacca.
E siamo partiti, tutti e sei e la gallina, per andare a vedere questi famosi maiali di Melichetti e abbiamo pedalato tra i campi di grano, e pedala pedala il sole è salito e ha arroventato tutto.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore romano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Niccolò Ammaniti.
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