Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’ipotesi del male di Donato Carrisi. Il romanzo è pubblicato in Italia da TEA con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è disponibile in eBook al prezzo di euro 8,99.
L’ipotesi del male: trama del libro
C’è una sensazione che tutti, prima o poi, abbiamo provato nella vita: il desiderio di sparire. Di fuggire da tutto. Di lasciarci ogni cosa alle spalle. Ma per alcuni non è solo un pensiero passeggero. Diviene un’ossessione che li divora e li inghiotte. Queste persone spariscono nel buio. Nessuno sa perché. Mila Vasquez invece è circondata dai loro sguardi. Ogni volta che mette piede nell’ufficio persone scomparse dove lavora, centinaia di occhi la fissano dalle pareti della stanza dei passi perduti, ricoperte di fotografie. Per lei, è impossibile dimenticare chi è svanito nel nulla. Forse per questo Mila è la migliore in ciò che fa: dare la caccia a quelli che il mondo ha dimenticato. Ma se d’improvviso alcuni scomparsi tornassero con intenzioni oscure? Sembrano identici a prima, questi scomparsi, ma il male li ha cambiati. Alla domanda su chi li ha presi, se ne aggiungono altre. Dove sono stati tutto questo tempo? E perché sono tornati?
Si trovava al quarto e ultimo livello del sotterraneo, nel gelido inferno delle sale frigorifere. Il piano era riservato ai cadaveri senza identità. Di rado qualcuno chiedeva di visitarlo.
Ma quella notte era in arrivo un ospite.
Il custode lo attendeva davanti all’ascensore con il naso sollevato al soffitto. Osservava i numeri che apparivano uno alla volta sul quadro luminoso e scandivano la discesa della cabina, e intanto si domandava chi potesse essere l’inatteso visitatore. Ma, soprattutto, s’interrogava sul motivo per cui si era spinto fino a quel confine lontano dalle cose dei vivi.
Quando l’ultimo numero luminoso si accese, ci fu un lungo attimo di silenzio, poi le porte della cabina si spalancarono. Il custode osservò l’ospite, un uomo oltre la quarantina che indossava un completo blu scuro. E subito – come accadeva sempre a chi metteva piede per la prima volta laggiù – vide dipingersi lo stupore sul suo volto quando capì di non avere di fronte un ambiente rivestito da piastrelle bianche, illuminato da asettici neon, bensì pareti di colore verde e punti luce arancione.
«La policromia blocca gli attacchi di panico» spiegò il custode, rispondendo a una tacita domanda. Quindi gli porse un camice azzurro.
L’ospite non disse niente. Si preparò e, poco dopo, i due s’incamminarono.
«I cadaveri di questo piano sono soprattutto di senzatetto o clandestini. Niente documenti e nessun parente, tirano le cuoia e finiscono qua sotto. Si trovano tutti nelle stanze dalla numero uno alla nove» spiegò il custode. «La dieci e la undici, invece, sono per gente che – come me e come lei – paga le tasse e guarda la partita in tv, ma una mattina crepa per infarto in metropolitana. Qualche passeggero finge di aiutarli e invece li alleggerisce del portafoglio e voilà, il gioco di prestigio è riuscito: il tizio o la tizia sparisce per sempre. A volte, invece, è solo questione di burocrazia: un’impiegata fa casino con le scartoffie e ai tuoi parenti convocati per il riconoscimento mostrano il cadavere di un altro. Tu è come se non fossi morto e loro continuano a cercarti.» Provava a fare colpo sull’ospite improvvisandosi guida turistica, ma l’uomo non mostrava alcuna reazione. «Poi ci sono i casi di suicidio o incidente: stanza dodici. Perché può capitare che il cadavere sia tanto malridotto da far persino dubitare che sia stato una persona» aggiunse cercando di saggiare lo stomaco del visitatore, che evidentemente non era schizzinoso. «A ogni modo, la legge prevede lo stesso trattamento per tutti: un periodo di permanenza in camera refrigerante non inferiore ai diciotto mesi. Trascorso il termine, se nessuno identifica o reclama i resti, e qualora non sussistano ulteriori esigenze di indagine, viene autorizzato lo smaltimento tramite cremazione.» Aveva citato a memoria il regolamento.
A quel punto il tono cambiò, si fece inquieto, perché il seguito riguardava la ragione di quella strana visita notturna.
«Poi ci sono quelli della stanza numero tredici.»
Le vittime anonime degli omicidi irrisolti.
«Nei casi di omicidio, la legge dice che il corpo costituisce elemento di prova fino a quando non viene accertata l’identità della vittima» affermò il custode. «Non si può condannare un assassino se non si dimostra che la persona che ha ucciso esisteva veramente. Senza un nome, il corpo è la sola prova di quell’esistenza. Perciò viene conservato senza limite di tempo. È uno di quegli strambi cavilli legali che piacciono tanto agli avvocati.»
Fin quando non veniva definito il fatto criminoso a cui era collegata la morte, le spoglie non potevano essere distrutte o destinate a naturale deperimento, recitavano le disposizioni.
«Noi li chiamiamo i dormienti.»
Uomini, donne, bambini sconosciuti per la cui uccisione non era stato ancora individuato un colpevole. Da anni attendevano che qualcuno si presentasse per liberarli dalla maledizione di somigliare ai vivi. E, come in una fiaba macabra, perché ciò accadesse era sufficiente pronunciare una parola segreta.
Il loro nome.
La dimora che li accoglieva – la stanza numero 13 – era l’ultima in fondo.
Arrivati di fronte alla porta di metallo, il custode armeggiò con un mazzo di chiavi finché non trovò quella giusta. Aprì e indietreggiò per cedere il passo. Appena l’ospite mise piede nel buio, sul soffitto si accese una fila di lampade gialle azionate da sensori di movimento. Al centro della sala c’era un tavolo autoptico circondato da alte pareti frigorifero con decine di celle.
Un alveare d’acciaio.
«Deve firmare qui, è il regolamento» disse il custode porgendo un registro. «Quale le interessa?» domandò poi, tradendo una certa irrequietezza.
L’ospite finalmente parlò. «Il cadavere che sta qui da più tempo.»
AHF-93-K999.
Il custode aveva imparato la sigla a memoria, pregustando la soluzione di un antico mistero. Individuò subito la cella con l’etichetta attaccata alla maniglia. Era situata sulla parete sinistra, la terza dal basso. La indicò all’ospite. «Fra le storie dei corpi che sono qua sotto, non è neanche la più originale» ci tenne a precisare l’uomo. «Un sabato pomeriggio alcuni ragazzi giocano a calcio nel parco e il pallone finisce dentro un cespuglio: è così che l’hanno trovato. Gli avevano sparato in testa. Non ha documenti, nemmeno le chiavi di casa. Il volto è ancora perfettamente riconoscibile, ma nessuno chiama i numeri di emergenza in cerca d’informazioni e non vengono presentate denunce di scomparsa. In attesa di un colpevole, che potrebbe anche non essere mai individuato, la sola prova del delitto è proprio il cadavere. Per questo il tribunale decide che venga preservato finché il caso non sarà risolto e verrà fatta giustizia.» Fece una pausa. «Da allora sono passati anni, ma lui sta ancora qui.»
Per tanto tempo il custode si era domandato che senso avesse conservare la prova di un crimine di cui ormai nessuno serbava memoria. Come d’altronde aveva sempre ritenuto che il mondo si fosse scordato da un pezzo dell’anonimo inquilino della stanza 13. Ma dalla successiva richiesta dell’ospite intuì che il segreto conservato dietro quei pochi centimetri d’acciaio andava ben oltre una semplice identità.
«Apra, voglio vederlo.»
AHF-93-K999. Per anni era stato il suo nome. Ma quella notte forse le cose sarebbero cambiate. Il custode dei morti azionò la valvola di sfiato per procedere all’apertura della cella.
Il dormiente stava per essere svegliato…
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore e regista pugliese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Donato Carrisi.
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