Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La voce del violino di Andrea Camilleri, romanzo edito in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 10,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99 ed è il quarto tra i volumi dedicati al commissario Montalbano.
La voce del violino: trama del libro
“Il commissario invece era di Catania, di nome faceva Salvo Montalbano, e quando voleva capire una cosa, la capiva. ” Quarta inchiesta per Salvo Montalbano, ‘il Maigret siciliano’ di stanza a Vigàta, “il centro più inventato della Sicilia più tipica”.
Questa volta Montalbano deve trovare il colpevole dell’omicidio di una bella signora vigatese, assassinata nella sua villa. Ma i problemi di vita privata non sono meno spinosi per il commissario: c’è la questione del figlio adottivo e quella dell’eterna fidanzata Livia, che punta decisa al matrimonio…
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La sera avanti, trovate nel frigo delle acciughe freschissime accattategli dalla cammarera Adelina, se l’era sbafate in insalata, condite con molto sugo di limone, olio d’oliva e pepe nero macinato al momento. Se l’era scialata, ma a rovinargli tutto era stata una telefonata.
«Pronti, dottori? Dottori, è lei stesso di pirsona al tilefono?».
«Io stesso di pirsona mia sono, Catarè. Parla tranquillo».
Catarella, al commissariato, l’avevano messo a rispondere alle telefonate nell’errata convinzione che lì potesse fare meno danno che altrove. Montalbano, dopo alcune solenni incazzature, aveva capito che l’unico modo per poter avere con lui un dialogo entro limiti tollerabili di delirio era di adottare il suo stesso linguaggio.
«Domando pirdonanza e compressione, dottori».
Ahi. Domandava perdono e comprensione. Montalbano appizzò le orecchie, se il cosiddetto italiano di Catarella diventava cerimonioso e pomposo, veniva a significare che la quistione non era leggera.
«Parla senza esitanza, Catarè».
«Tre giorni passati cercarono propio lei di lei, dottori, lei non c’era, però io me lo scordai a farle referenza».
«Da dove telefonavano?».
«Dalla Flòrida, dottori».
Atterrì, letteralmente. In un lampo vide se stesso in felpa fare footing assieme a baldi, atletici agenti
americani dell’antinarcotici impegnati con lui in una complessa indagine sul traffico di droga.
«Levami una curiosità, come vi siete parlati?».
«E come dovevamo parlarci? In taliàno, dottori».
«Ti hanno detto che volevano?».
«Certo, tutto di ogni cosa mi dissero. Dissero così che morse la mogliere del vicequestore Tamburanno».
Tirò un sospiro di sollievo, non poté impedirselo. Non dalla Flòrida avevano telefonato, ma dal commissariato di Floridia, vicino a Siracusa. Caterina Tamburrano era molto malata da tempo e la notizia non gli arrivò inaspettata.
«Dottori, sempre lei di persona è?».
«Sempre io sono, Catarè, non sono cangiato».
«Dissero pure macari che la finzione funerea la facevano giovedì matino alli nove».
«Giovedì? Cioè domani matino?».
«Sissi, dottori».
Era troppo amico di Michele Tamburrano per non andare al funerale, mettendo una pezza al non essersi fatto vivo con lui nemmeno con una telefonata. Da Vigàta a Floridia, almeno tre ore e mezzo di macchina.
«Senti, Catarè, la mia auto è dal meccanico. Ho bisogno di una macchina di servizio per domani matino alle cinque precise da me, a Marinella. Avverti il dottor Augello che io sarò assente e rientrerò nelle prime ore del dopopranzo. Hai capito bene?».
Dalla doccia ne uscì con la pelle colore aragosta: per equilibrare la sensazione di freddo provata alla vista del mare aveva abusato d’acqua bollente. Principiò a farsi la barba e sentì arrivare l’auto di servizio. Del resto, chi non l’aveva sentita arrivare nel raggio di una decina di chilometri? La macchina si catapultò ultrasonica, frenò con grande stridore sparando raffiche di ghiaietta che rimbalzarono in tutte le direzioni, poi ci fu un disperato ruggire di motore imballato, un lacerante cambio di marcia, un acuto sgommare, un’altra raffica di ghiaietta. Il conducente aveva fatto manovra, si era rimesso in posizione di ritorno.
Quando niscì da casa pronto per la partenza, c’era Gallo, l’autista ufficiale del commissariato, che gongolava.
«Taliasse ccà, dottore! Guardi le tracce! Che manovra! Ho fatto firriàre la macchina su se stessa!».
«Complimenti» fece cupo Montalbano.
«Metto la sirena?» spiò Gallo nel momento che partivano.
«Sì, nel culo» rispose Montalbano tòrvolo. E chiuse gli occhi, non aveva gana di parlare.
Gallo, che pativa del complesso d’Indianapolis, appena vide il suo superiore chiudere gli occhi principiò ad aumentare la velocità per toccare un chilometraggio
orario a livello delle capacità di guida che credeva d’avere. E fu così che manco un quarto d’ora ch’erano in marcia avvenne il botto. Allo stridìo della frenata, Montalbano raprì gli occhi ma non vide nenti di nenti, la sua testa venne prima violentemente spinta in avanti poi tirata narrè dalla cintura di sicurezza. Seguì una devastante rumorata di lamiera contro lamiera e poi tornò il silenzio, un silenzio da conto di fate, con canto di uccellini e abbaiare di cani.
«Ti sei fatto male?» spiò il commissario a Gallo vedendo che si massaggiava il petto.
«No. E lei?».
«Niente. Ma come fu?».
«Una gaddrina mi tagliò la strata».
«Non ho mai visto una gallina traversare quando sta venendo una macchina. Vediamo il danno».
Scesero. Non passava anima viva. Le tracce della lunga frenata si erano stampate sull’asfalto: proprio all’inizio di esse si notava un mucchietto scuro. Gallo vi si avvicinò, si rivolse trionfante al commissario.
«Che le avevo detto? Gaddrina era!».
Suicidio, era chiaro. La macchina contro cui erano andati a sbattere fracassandole tutta la parte posteriore, doveva essere stata regolarmente parcheggiata al bordo della strada, ma la botta l’aveva messa tanticchia di traverso. Era una Renault Twingo verde-bottiglia, sistemata a chiudere un viottolo sterrato che dopo una trentina di metri portava a una villetta a due piani, porta e finestre sbarrate. L’auto di servizio aveva invece un faro frantumato e il parafango destro accartocciato.
«E ora che facciamo?» spiò Gallo sconsolato.
«Ce ne andiamo. Secondo te la nostra macchina funziona?».
«Ci provo».
A marcia indietro, sferragliando, l’auto di servizio si liberò dall’incastro con l’altra macchina. Nessuno s’affacciò a una delle finestre della villetta manco questa volta. Stavano a dormire di sonno piombigno, perché sicuramente la Twingo doveva appartenere a qualcuno di casa, non c’erano altre abitazioni nelle vicinanze. Mentre Gallo, con le due mani, tentava di sollevare il parafango che faceva attrito sul pneumatico, Montalbano scrisse su un pezzetto di carta il numero di telefono del commissariato e lo infilò sotto un tergicristallo.
Quando non è cosa, non è cosa. Dopo una mezzorata ch’erano ripartiti, Gallo ripigliò a massaggiarsi il petto, di tanto in tanto la faccia gli si stracangiava per una smorfia di dolore.
«Guido io» fece il commissario e Gallo non protestò.
Quando arrivarono all’altezza di Fela, Montalbano invece di proseguire lungo la superstrada, imboccò una deviazione che portava al centro del paese. Gallo non se
ne addunò, teneva gli occhi chiusi e la testa appoggiata al vetro del finestrino.
«Dove siamo?» spiò raprendo gli occhi appena sentì la macchina che si fermava.
«Ti porto all’ospedale di Fela. Scendi».
«Ma non è niente, commissario».
«Scendi. Voglio che ti diano un’occhiata».
«Però lei mi lascia qua e prosegue. Mi ripiglia quando torna».
«Non dire minchiate. Cammina».
L’occhiata che diedero a Gallo, tra auscultazioni, triplice misurazione della pressione, radiografie e compagnia bella durò più di due ore. Alla fine sentenziarono che Gallo non aveva niente di rotto, il dolore era dovuto al fatto che aveva battuto malamente contro il volante e lo stato di debolezza era da addebitare alla reazione per lo scanto che si era pigliato.
«E ora che facciamo?» rispiò Gallo sempre più sconsolato.
«Che vuoi fare? Proseguiamo. Però guido io».
A Floridia c’era già stato due o tre volte, ricordava macari dove abitava Tamburrano. Si diresse perciò verso la chiesa della Madonna delle Grazie che era quasi attaccata alla casa del collega. Arrivato sulla piazza, scorse la chiesa parata a lutto, gente che s’affrettava a entrare. La funzione doveva essere cominciata in ritardo, i contrattempi non capitavano solo a lui.
«Io vado al garage del commissariato per far vedere la macchina» fece Gallo «poi ripasso di qua a prenderla».
Montalbano trasì nella chiesa gremita, la funzione era appena principiata. Si taliò torno torno, non raccanoscì nisciuno. Tamburrano doveva essere in prima fila, vicino al tabbuto davanti all’altare maggiore. Il commissario decise di restarsene dov’era, allato al portone d’ingresso: avrebbe stretto la mano a Tamburrano quando il feretro nisciva dalla chiesa. Alle prime parole del parrino, dopo già tanto che la Messa procedeva, ebbe un sobbalzo. Aveva sentito bene, ne era certo.
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