Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Una lama di luce di Andrea Camilleri, romanzo edito in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 9,99 ed è il diciannovesimo tra i volumi dedicati al commissario Montalbano.
Una lama di luce: trama del libro
“Un gorgo d’angoscia governa l’alterno respiro delle storie che nel romanzo si tramescolano. Il commissario Montalbano è in apprensione. Gli orli sfumati di un sogno trasudano malessere, sensazioni superstiziose, oscure premonizioni. Un pensiero laterale stenta a chiarirsi, e perdura nella realtà come sospettosa vigilanza; e come soprassalto a ogni minima coincidenza con lo squallore infausto del sogno che di uno straccio di terra aspra e solitaria ha fatto un obitorio a cielo aperto, con bara chiusa e cadavere da riconoscere, sotto una luce itterica e di meteoropatica influenza. Persino il consueto barbugliamento di Catarella si è dato in sogno negli arcani costernanti di una locuzione latina. La rotta sequenza delle indagini, su un’aggressione a mano armata e violenza carnale, su un traffico d’armi, e su degli esportatori di opere d’arte rubate, allinea e intreccia storie di donne di forte e deciso temperamento; mentre il commissario, così esposto al lato oscuro delle cose e ai clandestini giochi della mente, è in attesa che qualcosa di non del tutto delucidato esca fuori, alla fine, da un qualche retroscena, e si riveli. Si sedimenta lo spaesamento in Montalbano. Nella vita del commissario va crescendo un senso di solitudine che accascia e predispone a una morbidità di sentimento. Livia continua a essere una voce nel telefono, una minaccia costante e fastidiosa di baruffe. Un’assenza. Una lontananza impegnativa. Irrompe in carne e ossa una donna fatale…”. (Salvatore Silvano Nigro)
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Cchiù passavano l’anni e cchiù s’addimostrava d’umori sensibili alle variazioni climatiche, all’istesso modo che una maggiori o minori umidità agisci supra ai dolori d’ossa di un vecchio. E arrinisciva sempri meno a controllarisi, ad ammucciari l’eccessi d’alligria o di grivianza.
Nel tempo che ci aviva dovuto ’mpiegari per arrivari dalla sò casa di Marinella insino alla contrata Casuzza, sì e no ’na quinnicina di chilometri ma tutti fatti di trazzere bone per cingolati o di stratuzze di campagna tanticchia meno larghe della larghizza della machina, il celo dal rosa chiaro era passato al grigio e po’ dal grigio si era convirtuto al cilestre splapito per firmarisi momintaneo a un bianchizzo neglioso che sfumava i contorni e confonniva la vista.
La tilefonata gli era arrivata alle otto del matino, mentri che stava finenno di farisi la doccia. Si era susuto tardo pirchì sapiva che quel jorno non doviva annare in ufficio.
S’infuscò. Non s’aspittava d’essiri chiamato al tilefono. Chi era che gli scassava i cabasisi?
In linia teorica, in commissariato non avrebbi dovuto essirici nisciuno fatta cizzioni del cintralinista pirchì quella sarebbi stata ’na jornata spiciali per Vigàta.
Spiciali in quanto che il signori e ministro dell’Interno, di ritorno dalla visita all’isola di Lampidusa indove i centri d’accoglienza (sissignori, avivano il coraggio d’acchiamarli accussì!) per gli immigrati non erano cchiù ’n condizioni di continiri manco un picciliddro di un misi, le sarde salate avivano maggiori spazio, aviva espresso la ’ntinzioni di spezionari l’attendamenti di fortuna priparati a Vigàta. Che già, da parti loro, erano chini come l’ova, con l’aggravanti che quei povirazzi erano costretti a dormiri ’n terra e a fari i loro bisogni all’aperto.
Epperciò il signori e quistori Bonetti-Alderighi aveva proclamato la mobilitazioni generali tanto della questura di Montelusa quanto del commissariato di Vigàta per blindari le strate del percorso che avrebbi dovuto fari l’alto pirsonaggio onde evitari che ai sò oricchi non arrivassiro frischi, piriti e parolazzi (in taliàno chiamati contestazioni) della popolazioni, ma sulo gli applausi di quattro morti di fami appositamenti pagati.
Montalbano, senza pinsarici supra un momento, aviva scarricato il tutto supra alle spalli di Mimì Augello e sinni era approfittato per pigliarisi ’na jornata di riposo. Al sulo vidirlo in tilevisioni, a Montalbano il signori e ministro gli faciva viniri il sangue suttasupra, figurarisi a vidirlo di pirsona pirsonalmenti.
Il tutto, nella sottintisa spiranzia che, per il rispetto dovuto a un membro del governo, ’n paìsi e nei dintorni non capitassero né ammazzatine né autri fatti delittuosi. I sdilinquenti di certo avrebbiro avuto la sdilicatizza d’animo di non trubbare quella jornata gaudiosa.
Perciò chi poteva essiri a tilefonari?
Addecidì di non arrispunniri, ma il tilefono, doppo essirisi azzittuto per tanticchia, tornò a sonari.
E se era Livia? Che macari gli doviva diri qualichi cosa d’importanti? No, non c’erano santi, doviva sollevari il ricevitori.
«Pronti, dottori? Catarella sum».
Strammò. Catarella parlava ’n latino? Che stava capitanno all’universo? La fini del munno era vicina? Di sicuro non aviva sintuto bono.
«Che dicisti?».
«Catarella sugno, dottori».
Respirò sollivato. Aviva malo sintuto. L’universo tornò nell’ordine.
«Dimmi».
«Dottori, lo devo avvirtiri in primizia di tutto che di cosa longa e compricata trattasi».
Montalbano col pedi si tirò vicina ’na seggia, ci s’assittò.
«E io ccà sugno».
«Vabbeni. Stamatina essenno che il sottoscritto erasi arrecatosi all’ordini del dottori Augello in quanto che c’era l’aspittativa dell’arrivanza dell’aliquottero che apportava il signori e ministro…».
«Arrivò?».
«Non lo saccio, dottori. Sono ignorevole della circostanzia».
«E pirchì?».
«Sono ignorevole in quanto non trovomi in loco».
«Ma dove sei?».
«In un autro loco dettosi contrata Casuzza, dottori, che attrovasi appresso al vecchio passaggio a livello che veni doppo…».
«Lo saccio indov’è ’sta contrata Casuzza. Ma mi vuoi spiegari che ci fai, sì o no?».
«Dottori, addimanno compressione e pirdonanza, ma se vossia mi metti ’n mezzo ’n continuo la ’ntirruzioni io…».
«Scusami, vai avanti».
«Donchi, a un certo momento il detto dottori Augello arricivitti ’na tilefonata dal nostro cintralino indove che io ero stato assostituito dall’agenti Filippazzo Michele in quanto che il detto erasi storciuniato ’na gamma e…».
«Scusami, il detto cu? Il dottor Augello o Filippazzo?».
Trimò al pinsero che essennosi fatto mali Mimì attoccava a lui annare a riciviri al ministro.
«Filippazzo, dottori, il quali che quindi non potevasi apprestare al servizio attivico, e la passò a Fazio, il quali, sintuta la suddetta tilefonata, mi dissi di lassari perdiri l’aspittativa dell’aliquottero e di arricarimi urgentevole ’n contrata Casuzza. La quali…».
Montalbano si fici pirsuaso che ci sarebbi voluta mezza matinata per arrivari ad accapirici qualichi cosa.
«Senti, Catarè, facemo accussì. Ora m’informo e po’ mi faccio risentire io tra cinco minuti».
«Ma il ciallulare ’ntanto io lo devo tiniri astutato o no?».
«Astutalo».
Chiamò a Fazio. Il quali arrispunnì ’mmidiato.
«È arrivato il ministro?».
«Non ancora».
«Mi ha telefonato Catarella ma dopo un quarto d’ora di parlata ancora non ci avevo accapito nenti».
«Dottore, le spiego io di che si tratta. Un contadino ha chiamato il nostro centralino per farci sapere che nel suo campo ha trovato una cassa da morto».
«Vuota o piena?».
«Non l’ho capito bene. Si sentiva malissimo».
«Perché ci hai mandato Catarella?».
«Non m’è parsa cosa impegnativa».
Ringraziò Fazio e richiamò Catarella.
«Il tabbuto è vacante o chino?».
«Dottori, il sullodato tabbuto attrovasi col coperchio posato di supra e quindi di conseguenzia addiventa invisibili il continuto di esso midesimo tabbuto».
«Tu perciò non l’hai sollivato?».
«Nonsi, dottori, in quanto che c’era fallanza d’ordini ’n proposito al sollivamento del coperchio. Si vossia m’ordina che lo rapro, io lo rapro. Ma cosa ’nutili è».
«Pirchì?».
«Pirchì il tabbuto non è vacante».
«Come fai a saperlo?».
«Lo saccio in quanto che il viddrano contatino che sarebbi che è il propietario del tirreno indove attrovasi apposto il suddetto tabbuto e che chiamasi Annibale Lococo fu Giuseppe e che sta ccà allato a mia, il coperchio lo sollivò quel tanto che abbastava e videsi che il tabbuto erasi accupato».
«Occupato da chi?».
«Da un catafero di morto, dottori».
Epperciò la cosa era ’mpignativa, al contrario di quello che aviva pinsato Fazio.
«Vabbè, aspettami».
E accussì aviva dovuto mittirisi, santianno, ’n machina e partiri.
Il tabbuto era di quelli per i morti di terza classe, i cchiù povirazzi, di ligno grezzo senza manco ’na passata di vernici.
Un angolo di tila bianca sporgiva da sutta al coperchio posato malamenti.
Montalbano si calò a taliarlo meglio. Con il pollici e l’indici della mano dritta lo pigliò e ne tirò fora ’n autro tanticchia. Accussì potti vidiri che c’erano arraccamate supra una B e una A ’ntricciate.
Annibale Lococo stava assittato ’n punta al tabbuto, dalla parti dei pedi, un fucili in spalla e si fumava un mezzo toscano. Era un cinquantino sigaligno arrustuto dal soli.
Catarella era a un passo di distanzia, ma addritta, immobili sull’attenti, ’ncapaci di spiccicari parola, sopraffatto dalla mozioni di stari facenno ’n’indagini ’nzemmula al commissario.
Torno torno un paisaggio sdisolato, cchiù petre che terra, rari àrboli che pativano di millinnaria mancanza d’acqua, macchie di saggina, troffe enormi d’erba servatica. A un chilometro di distanzia ’na casuzza solitaria, forsi quella che dava il nomi alla contrata.
Nelle vicinanze del tabbuto, supra al pruvolazzo che una volta era stato terra, si vidivano chiaramenti ’mpresse le orme dei copertoni di un camioncino e delle scarpe di due uomini.
«È suo ’sto tirreno?» spiò Montalbano a Lococo.
«Tirreno? Quali tirreno?» fici Lococo taliannolo strammato.
«Questo dove stiamo noi».
«Ah. E vossia me lo chiama tirreno?».
«Che ci coltiva?».
Prima d’arrispunniri, il viddrano lo taliò novamenti, si isò la coppola, si grattò la testa, si livò il sicarro dalla vucca, sputò ’n terra con disprezzo, si rimittì il mezzo toscano tra le labbra.
«Nenti. Che minchia ci voli coltivari? Ccà non piglia nisciuna cosa. Terra mallitta è. Ma ci vegno a caccia. È chino di lepri».
«Ha scoperto lei il tabbuto?».
«Sissi».
«Quando?».
«Stamatina verso le sei e mezza. E vi ho chiamato subito col tilefonino».
«Ieri sera è passato da qui?».
«Nonsi, sunno tri jorni che non ci vegno».
«Quindi non sa quando hanno lasciato qua il tabbuto».
«Esattamenti».
«Ha guardato dentro?».
«Certo. Pirchì, vossia no? Vinni pigliato di curiosità. Vitti che il coperchio non era avvitato e lo isai tanticchia. Ci sta un catafero cummigliato da un linzolo».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore siciliano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrea Camilleri.
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