Lamento di Portnoy: la trama
Il romanzo è strutturato come un ininterrotto monologo del narratore, Alexander Portnoy, un ebreo americano, al suo psicanalista, il dottor Spielvogel, prima che quest’ultimo inizi la terapia prevista. Suddiviso in sette capitoli dai titoli alquanto esilaranti, ha come filo conduttore l’alternanza dei piani temporali prodotta dalla rievocazione memoriale del protagonista-narratore: nevrotico, erotomane, morbosamente attaccato alla madre e alle tradizioni ebraiche, spesso peraltro dileggiate e contestate nei loro assurdi divieti, uomo di successo (secondo coordinate americane: è Responsabile di un dipartimento dell’amministrazione di New York contro la Discriminazione), eppure incapace di trovare un centro stabile e disperatamente alla ricerca di una moglie, una famiglia, dei figli. Da Newark a New York, dalla Grecia fino in Israele, Alex Portnoy si porta dietro le sue manie, i suoi tic, le sue idiosincrasie e le sue morbosità sessuali, alla disperata ricerca di una banale, ordinaria, normalità.
Mi era cosí profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita. Come suonava la campanella dell’ultima ora, mi precipitavo fuori di corsa chiedendomi se ce l’avrei fatta ad arrivare a casa prima che riuscisse a trasformarsi di nuovo. Al mio arrivo lei era già regolarmente in cucina, intenta a prepararmi latte e biscotti. Invece di spingermi a lasciar perdere le mie fantasie, il fenomeno non faceva che aumentare il mio rispetto per i suoi poteri. Ed era sempre un sollievo non averla sorpresa nell’atto dell’incarnazione, anche se non smettevo mai di provarci; sapevo che mio padre e mia sorella ignoravano la vera natura di mia madre, e il peso del tradimento, che immaginavo avrei dovuto affrontare se l’avessi colta sul fatto, era piú di quanto intendessi sopportare all’età di cinque anni. Credo addirittura di aver temuto che, qualora l’avessi vista rientrare in volo da scuola attraverso la finestra della camera o materializzarsi nel grembiule, membro dopo membro, da uno stato d’invisibilità, avrei dovuto per questo morire.
Ovviamente, quando mi chiedeva di raccontarle tutta la mia giornata all’asilo, lo facevo scrupolosamente. Non pretendevo di capire tutte le implicazioni della sua ubiquità, ma era indubbio che ciò avesse a che fare con il desiderio di scoprire che genere di bambino fossi quando non la credevo presente. Una conseguenza di tale fantasia, sopravvissuta (in questa forma particolare) fino alla prima elementare, fu che non avendo altra scelta divenni onesto.
Ah, e brillantissimo. Della mia scialba e grassoccia sorella maggiore, mia madre diceva (in presenza di Hannah, naturalmente: l’onestà era parte della sua politica): «La bimba non è un genio, ma non possiamo poi pretendere l’impossibile. Lavora sodo, Dio la protegga, si applica al limite delle sue capacità, e quello che ottiene è tanto di guadagnato». Di me, erede del suo lungo naso egizio e della bocca loquace e intelligente, di me mia madre diceva con caratteristico ritegno: «Questo bonditt1! Lui non ha neppure bisogno di aprire un libro… I migliori voti in tutto… Albert Einstein Secondo!»
E mio padre come prendeva tutto ciò? Beveva; ovviamente non whiskey come un goy2, ma olio minerale e magnesia; e masticava lassativi; e mangiava crusca mattina e sera; e cacciava giú frutta secca mista. Soffriva – come ne soffriva! – di stitichezza. L’ubiquità di lei e la stitichezza di lui, mia madre che volava dentro dalla finestra della camera, mio padre che leggeva il giornale della sera con una supposta su per il culo… ecco, Dottore, le piú antiche immagini che ho dei miei genitori, dei loro attributi e segreti. Lui era solito far bollire foglie secche di senna in un pentolino, e questo, insieme con la supposta che gli si squagliava invisibile nel retto, riassumeva la sua stregoneria: bollire le foglie verdi e venate, mescolare con un cucchiaio il liquido pestilenziale, poi filtrarlo accuratamente con un colino e versarlo nel corpo ingorgato attraverso quell’espressione affaticata e afflitta del viso. E poi, curvo in silenzio sul bicchiere vuoto, come in ascolto di un tuono lontano, attendere il miracolo. Da piccolo sedevo qualche volta in cucina ad aspettare con lui. Ma il miracolo non arrivava mai, almeno non come lo immaginavamo e invocavamo: assoluzione dalla condanna, completa liberazione dalla tortura. Ricordo che quando la radio annunciò l’esplosione della prima bomba atomica, lui sbottò: «Forse mi ci vorrebbe quella». Ma tutte le purghe erano inutili per lui: le sue kishkas3 erano strette nella morsa ferrea dell’oltraggio e della frustrazione. Tra le sue varie disgrazie, poi, io ero il preferito di sua moglie.
A complicargli la vita c’era che mi voleva bene anche lui. Anche lui vedeva in me l’opportunità per la famiglia di essere «a livello di qualsiasi altra», la nostra possibilità di conquistare onore e rispetto; sebbene, quand’ero piccolo, tendesse a parlarmi delle sue ambizioni nei miei confronti principalmente in termini di denaro. «Non fare l’idiota come tuo padre» mi diceva, trastullandosi col pupo in grembo, «non sposarti per la bellezza, non sposarti per amore… sposati per i soldi». No, no, proprio non gli piaceva farsi guardare dall’alto in basso. Lavorava come un cane, tutto per un futuro che nessuno aveva in serbo per lui. Nessuno in realtà gli diede mai soddisfazione, o un rientro adeguato alla consegna della merce: né mia madre, né io, neppure la mia amorevole sorella, il cui marito lui considera tuttora un comunista (sebbene oggi sia socio di una redditizia azienda di bibite, e abiti in una casa di proprietà nel West Orange). Né certo quell’organizzazione di miliardari protestanti (o «istituzione» come preferiscono definirsi) dalla quale era stato spolpato fino all’osso. «La Piú Generosa Istituzione Finanziaria d’America» ricordo che mi annunciò mio padre quando per la prima volta mi portò a visitare il suo spazietto, scrivania e sedia, negli ampi uffici della Boston & Northeastern Life. Sí, davanti a suo figlio parlava con orgoglio della «Compagnia»; non aveva senso abbassarsi a criticarli in pubblico: dopotutto gli avevano pagato uno stipendio durante la Depressione; gli davano carta da lettere con il suo nome stampato sotto un ritratto del «Mayflower», il loro marchio (e per estensione anche il suo, ha ha); e ogni primavera, in uno slancio di benevolenza, spedivano gratis lui e mia madre a trascorrere un weekend con i fiocchi ad Atlantic City, e nientemeno che in un lussuoso albergo da goy, dove (con tutti gli altri agenti assicurativi degli stati del Middle Atlantic che avevano superato il Tac, tetto annuale dei contratti) si faceva intimidire dal portiere, dal cameriere, dal fattorino, per non parlare degli altri perplessi clienti.
Editore: Einaudi
Pagine: 220
Collana: Super ET
eBook: 6,99 euro
Philip Roth è uno dei maggiori scrittori contemporanei e uno dei più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese in assoluto. Il suo romanzo più famoso è Pastorale Americana, per il quale Roth ha ricevuto il Premio Pulitzer nel 1998.
Altri libri
Il complotto contro l’America
Il teatro di Sabbath
La macchia umana
Pastorale Americana
Everyman
Quando lei era buona
Nemesi
Ho sposato un comunista
L’animale morente
La controvita
Inganno
L’umiliazione
La mia vita di uomo
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