Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Leggenda privata di Michele Mari. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 18,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Leggenda privata: trama del libro
L’Accademia dei Ciechi ha deliberato: Michele Mari deve scrivere la sua autobiografia. O, come gli ha intimato Quello che Gorgoglia, «isshgioman’zo con cui ti chonshgedi». Se hai avuto un padre il cui carattere si colloca all’intersezione di Mose con John Huston, e una madre costretta a darti il bacino della buonanotte di nascosto, allora l’infanzia che hai vissuto non poteva definirsi altro che «sanguinosa». Poi arriva l’adolescenza, e fra un viscido bollito e un Mottarello, in trattoria, avviene l’incontro fatale: una cameriera volgarotta e senza nome che accende le fantasie erotiche del futuro autore delle Cento poesie d’amore a Ladyhawke… Ma è davvero una ragazza o un golem manovrato da qualche Entità? Assieme a lei, in una «leggenda privata» documentata da straordinarie fotografie, la famiglia dell’autore e il suo originalissimo lessico. E poi la scuola, la cultura a Milano negli anni Sessanta e Settanta, e alcune illustri comparse come Dino Buzzati, Walter Bonatti, Eugenio Montale, Enzo Jannacci e Giorgio Gaber.
Approfondimenti sul libro
L’ebook di Leggenda privata (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 9,99 euro.
Vogliono tutti sapere chi sono, come se avermi sempre osservato non contasse nulla: l’idea è che io finga anche quando sono da solo, che mi muova e faccia gesti come uno che finge. Ma fingere cosa, se non c’è nulla de quo? «Scrivi!» E io non scrivo. Sono furbi: pensano che mi lasci tentare dalla possibilità di mentire ancora di piú, e meglio, ma io so che è proprio in coincidenza con il massimo della menzogna che intendono sorprendermi, candido e ignudo nella mia stessa impudenza. Allora, mi maciulleranno. La mia autobiografia sarà il testamento con cui li autorizzerò a succhiarmi medulla e cerebro. Oppure no, si limiteranno a sapermi, e saputo, impazzirò. Ovvero, finissimi esegeti, interpreteranno la mia scrittura, e mi ci metteranno davanti come a uno specchio, e allora altro che impazzire, allora mi ricongiungerò tutto e per sempre all’angoscia che mi tempesta da prima che nascessi.
Da prima che nascessi: perché quell’angoscia era già nei miei genitori, per il fatto stesso che io ne ero l’ipotesi: io il responsabile dell’orrore di quell’amplesso fatale, io suo telo e sua ratio. Ipocrita poi di necessità, professionista dell’eufemismo e della maniera, ma sempre tentato dalla lustra ipogea: sicché, non è chi nol vegga, l’Accademia della Cantina gode un cospicuo vantaggio, il che spiegherebbe la maggiore pazienza dei Ciechi appo la concitazione degli Altri («Scrivi, se non vuoi essere scritto!» mi intimò un giorno il Mucògeno in tono carico di sottintesi).
Ma… ma! È inutile che faccia il gradasso: ho paura, soprattutto perché potrebbero affidare l’intera faccenda a Quella dalle Orbite Vuote, e questo non lo sopporterei. In quelle orbite si può vedere di tutto, credetemi ché so quel che dico. Cosí, scrivo.
Nacqui d’inverno, otto mesi dopo l’increscioso viluppo primaverile: otto che è stigma di aberrazione. Non però mostro, fui: sibbene mostruoso fu il rapporto che fin dall’inizio intrattenni con me, mecomé metepsismo. Mi pensavo doppio, e cosí pensandoci entrambi eravamo già quattro, squartati. Ed io, ed io! volevo essere un ricamo, consistere nello stesso mio ricamarmi: povera sfera orgogliosa scagliata nell’onta! Nacqui, dunque; e crebbi sotto l’usbergo del nome Michele, che avrebbe dovuto proteggermi: avrebbe. Né meglio funse il secondo, segreto e a me noto; né il terzo, segreto e a me ignoto. La superstizione onomastica è un antico tratto della mia famiglia in effetti, tanto antico che piú propriamente si qualificherebbe per tara, ma glissiamo. Quante cose devo farci stare, in poche pagine? Solitudine, palpitazioni, nevrosi: ecco, intanto con questo trílogo ho già raccontato il grosso; il resto sono i soldatini dipinti con gli smalti Humbrol-Enamel, le Mercury, i disegni con la Rapidograph Rotring Koh-I-Noor 0.1, Dick Tracy e Cocco Bill. Si getteranno avidi su queste notizie, gli Accademici? Ne dubito. Per loro la mia mitologia personale è solo una divisa, quante volte mi avranno visto mimarla, quante volte sentito citarla? Svalutano tutto a priori convinti che sottoci sia qualcosa di forte, qualcosa che ho mistificato talmente bene e perfezionato nel tempo da averne perso io stesso memoria e nozione. Se scrivo qualcosa di nuovo, invece, pur insistendo nel falso potrei offrire al dente della loro ermeneutica la lonza molle del primo concepimento fantastico, l’umida rima in cui insinuarsi per fare leva, e rivoltarmi come un guanto.
Se parlassi di Ovidio, ad esempio? Sarebbe una novità assoluta, rispetto alla tradizione. Ovidio, dunque, era il bidello piú anziano della scuola: alto e ingobbito, con un naso eminente, disponeva a embrice su un tavolino le focaccine avvolte nella carta oleata (lire cinquanta cadauna): messo di traverso sulla soglia del suo bugigattolo, il tavolino era spalto o bastione che lo separava dagli assalitori, adolescentuli che alla campanella della ricreazione ci assiepavamo all’acquisto. Per quanto l’embricatura si infittisse fino a sfiorare il collasso, ovvero la compiuta verticalizzazione di ogni focaccia individua, mai la cibaria sufficeva al bisogno, sicché il concorso delle genti era convulso e violento: andava cosí che di quel cibo raramente io partecipassi. Ma quando accadeva, quando fra gli scappellotti e le spinte mi veniva fatto di raggiunger lo spalto, oh allora maravigliosissima cosa era la sospensione del tumulto, anzi del cosmo: ché fissati come in un bassorilievo neoclassico solo lui ed io eravamo, in assoluta posa e silenzio, lui che mi porgeva il translucido involto come Iddio porge il dito ad Adamo, e con una tale consapevolezza nello sguardo, una tale allusività che io ne ero totalmente investito e diventavo parte della sua visione, che era poi, troppo ben lo capivo, era previsione accorata, costernata, al tutto disapprovante, «Ti veggo e ti piango» diceva quello sguardo, lo sguardo di Ovidio, il bidello, l’antico officiante delle merendine che a me solo, fra tutti, a me solo rivelava un barbaglio della sua facoltà di veggente: onde poi, incassatomi nelle spalle per sgusciare all’indietro attraverso la calca, mi allontanavo in preda alla vergogna di essere stato nudo davanti a lui, nudo nella flagranza dei miei nomi segreti, nudo nella verminosa tenerezza di chi già secerneva lo stame bavoso di che intessere le infrangibili maglie delle proprie corazze future. Veduto da Ovidio, saputo da Ovidio: qual poi volventibus annis ho continuato a evocare nei momenti di maggiore abiezione, vivido in me mentre scuoteva la testa, «ti piango, ti piango».
(Non sfugga: c’è dell’economia, in questo racconto, precipuamente dovuto alla speranza che gli Accademici, edotti dell’esistenza di una simile testimonianza, la intuiscano lí, la mia biografia: prolettico epilegomeno, certo, ma ben piú fededegno d’ogni mio ipotizzabil conato).
[…] Quello che Gorgoglia mi ha subito disilluso: non il timbro o il tenore a loro interessa, quanto già è dato in embrione o appunto in prolessi, ma la mia vita in extenso, istoriata, con la responsabilità di chi in calce, ex post, conferma e sigilla. Credo non ne possano piú di avere a che fare con un soggetto, quale magistralmente son stato e permango, e che mi pretendano ora come oggetto: ma pur sempre in forma verbale, perché sono marci di decadenza, i miei Accademici, raffinatissimi e marci. Ovidio, si entusiasmerebbero solo per quello di Tomi.
Cosí, ricomincio. Nacqui d’inverno eccetera, l’abominevole coito i miei nomi. Poi, lo studio. Ecco: lo studio. Recupero tutti i miei quaderni di scuola, li dispongo in sinossi, ricalco le chiose, la Guerra dei Trent’Anni, nonostante sia una vecchia amica la ristudio come fosse la prima volta, ma dubito che a quelli interessi la mia regressione, soprattutto Quelli di Sotto, gli umidi. Non so dar loro torto del resto: quante volte mi avranno visto alzare lo sguardo a tutti questi quaderni e a questi raccoglitori come alla mia parte piú vera? È triste, ma che la mia identità risieda in queste carte è per loro solo una modalità della mia commedia. Per loro, ma come posso ignorarlo? Cosí come la pretesa di consistere nelle mie Mercury, nei miei soldatini: una pretesa sublime, potrei argomentare per giorni in materia, d’altronde tutti i miei libri ben di questo trattano, l’anima affidata alle cose e a quella cosa fissa che è il tempo. Ma loro storcono il ceffo, strabuzzano in guisa orrenda, non hanno paura di risultare scettici, o ottusi, e come potrebbero, loro che la generano, la paura, te la depongono dentro ed è lí che allora consisti, in quel te-stesso-paura prigioniero del te-stesso-Vergine-di-Norimberga?
Tempo fa il Mucògeno mi leccò la faccia nel sonno: ridestomi nel raccapriccio, capii immediatamente che la sua flegmatica bava, impregnandomi la pelle, mi stava trasmettendo dei dati. Fra questi un apologo, corrispondente a un dipresso al testo che segue:
«Ogne conchiglia ha lo càlcare secreto e formato dalle medulla sue; e tutto è congruo e verace. Ma se il mollusco defunge, e l’asilo deserto viene occupato da l’infingardo Paguro, questa l’addimandiamo Menzogna, poiché tutto è distorto: epperò la natura stessa del parassito la denuncia per tale, sicché a noi sape tuttavia di socratica Verità. Ma dassi anche il caso, ch’è il tertium, per cui il mollusco maliziosamente dia al proprio alloggio forma non necessaria, com’è a dire bivalve allora che sia d’uopo di una, oppure in guisa di coclea allor che sua stirpe vorrebbe cuspide ovver cannolicchio: dove non è chi non veda come lo starsi dell’informe mollurie nel càlcare strutturato partecipi eziandío e del falso (poiché mentita è la forma) e del vero (poiché essa è nella Storia). Diximus».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore italiano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Michele Mari.
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