Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il libro delle illusioni di Paul Auster. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einiaudi con un prezzo di copertina di 11,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il libro delle illusioni trama del libro
Professore universitario e critico di prestigio, David Zimmer trascorre le sue giornate in uno stato di semicoscienza alcolica davanti alla tv da quando ha perso moglie e figli in un incidente aereo. Ma una sera un vecchio film comico del cinema muto lo scuote dal torpore: il regista del film, Hector Mann, è scomparso nel 1929 all’apice della sua carriera. Affascinato, Zimmer decide di ricostruire la vicenda e, dopo accurate documentazioni, pubblica un libro sull’argomento. Ma, a un anno dalla pubblicazione, una lettera spedita da una cittadina del New Mexico arriva a confondere tutte le sue conclusioni: è firmata dalla moglie di Mann e dice che il regista sarebbe lieto di incontrare il suo biografo.
Approfondimenti sul libro
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Dopo la sua scomparsa, per qualche anno circolarono storie e dicerie su quello che poteva essergli successo, ma nessuna delle ipotesi portò a scoprire la verità. Delle piú logiche – un suicidio, un omicidio – non si poté dimostrare che fossero né vere né false, dato che il cadavere non fu mai trovato. Altre congetture sulla sorte di Hector furono piú fantasiose, piú ottimistiche, piú consone ai risvolti romantici di un caso come il suo. Secondo una di esse, sarebbe ritornato nella natia Argentina, dove aveva acquistato la proprietà di un piccolo circo di provincia. Stando a un’altra, era entrato nel Partito comunista e stava svolgendo attività organizzativa sotto falso nome tra i lavoratori caseari a Utica, nello stato di New York. In una terza versione, saltabeccava su e giú dai treni come un tipico hobo della Depressione. Se Hector fosse stato un vero divo, senza dubbio le storie sarebbero andate avanti: sarebbe sopravvissuto nella leggenda, trasformandosi via via in una di quelle figure emblematiche che risiedono ai piani bassi della memoria collettiva, un simbolo di giovinezza, di speranza e delle svolte diaboliche della sorte. Invece non accadde nulla di tutto ciò, perché in realtà al concludersi della sua carriera Hector stava solo iniziando a farsi un nome a Hollywood. Era arrivato troppo tardi per sfruttare appieno il suo talento, e non era durato abbastanza per lasciare un’impressione persistente di sé e di quello che sapeva fare. Passò qualche anno ancora, e a poco a poco la gente smise di pensarci. Già verso il 1932 o il ’33, Hector apparteneva a un universo estinto, e se di lui restava qualche traccia, non erano che note a piè di pagina in un libro oscuro che nessuno piú leggeva. Adesso i film erano sonori, e le tremule pellicole mute di un tempo finirono nel dimenticatoio. Non piú clown, non piú mimi, né le belle maschiette che ballavano alla musica di non udite orchestre. Quei film erano morti solo da pochi anni, ma sembravano già preistorici, creature che avevano calcato la superficie terrestre quando gli uomini vivevano ancora nelle caverne.
Nel mio libro non davo molte informazioni sulla vita di Hector. Il mondo muto di Hector Mann non era una biografia, ma uno studio sui suoi film, e tutta l’aneddotica extracinematografica che vi acclusi era presa dalle fonti piú canoniche: enciclopedie del cinema, memorie, storie dei tempi eroici di Hollywood. Scrissi il libro perché volevo spartire con altri la mia passione per il lavoro di Hector. La storia della sua vita mi interessava meno, e invece di almanaccare su quale fine poteva avere fatto, mi limitai a un’analisi approfondita delle sue opere. Dato che era nato nel 1900, e che non era piú stato visto dal 1929, non mi sarei mai sognato di insinuare che Hector Mann fosse ancora vivo. I morti non escono dalle tombe, e per quanto mi riguardava, solo un morto poteva essersi tenuto nascosto cosí a lungo.
Il marzo scorso erano passati undici anni dall’uscita del libro, pubblicato dalla University of Pennsylvania Press. Tre mesi dopo, proprio mentre iniziavano ad apparire le prime recensioni sui periodici di cinema e sulle riviste universitarie, trovai una busta nella buca delle lettere. Era piú grande e squadrata del formato standard che si trova nei negozi, e di carta resistente e lussuosa: perciò all’inizio pensai a un invito a nozze o all’annuncio della nascita di un figlio. Il mio nome e indirizzo erano scritti per esteso in una grafia elegante e sinuosa. Se non era la scrittura di un calligrafo professionista, doveva comunque appartenere a una persona convinta della nobiltà di far correre una penna con grazia, una persona educata presso le antiche accademie del galateo e del decoro sociale. Sul francobollo c’era il timbro di Albuquerque, New Mexico, ma l’indirizzo del mittente sull’aletta posteriore indicava che la lettera era stata scritta altrove – ammesso che esistesse quella località, e che il nome del luogo fosse autentico. Su due righe sovrapposte c’era scritto: Blue Stone Ranch; Tierra del Sueño, New Mexico. Può darsi – adesso non ricordo piú – che leggendo quelle parole abbia sorriso. Non c’era nome, e aprendo la busta per leggere il messaggio sul cartoncino al suo interno, percepii una traccia di profumo, il piú flebile indizio di essenza alla lavanda.
Il biglietto diceva: Gentile professor Zimmer, Hector ha letto il libro e gradirebbe fare la sua conoscenza. Può interessarle venirci a trovare? Con viva cordialità, Frieda Spelling Mann.
Lo rilessi sei o sette volte. Poi lo appoggiai, andai fino in fondo alla stanza e tornai indietro. Quando lo ripresi in mano, non ero certo che quelle parole ci fossero ancora. O se c’erano, che fossero le stesse. Rilessi il testo per altre sei o sette volte; poi, ancora pieno di incertezza, decisi che era uno scherzo. Un attimo dopo ero dubbiosissimo, e dopo un altro attimo cominciai a dubitare dei miei dubbi. Pensare una cosa significava pensare il suo contrario, e il ripensamento non faceva in tempo ad annullare il pensiero originario che un terzo ne sorgeva ad annullare il secondo. Non sapendo che altro fare, salii in macchina e andai alla posta. In America, sulla guida dei codici postali sono elencate tutte le località, e se non avessi trovato Tierra del Sueño avrei potuto buttar via il biglietto e scordarmi l’episodio. Ma c’era. La trovai a p. 1933 del primo volume, al rigo fra Tierra Amarilla e Tijeras: era un centro abitato con tanto di ufficio postale e codice a cinque cifre. Naturalmente questo non garantiva l’autenticità della lettera, ma le dava comunque una parvenza di credibilità, e quando rincasai avevo deciso che dovevo rispondere. Un messaggio del genere non può essere ignorato. Una volta letto, è inevitabile o mettersi a tavolino e scrivere una risposta, o continuare a ruminarci sopra per il resto della vita.
Non ho conservato una copia della mia risposta, ma ricordo che la scrissi a mano sforzandomi di essere il piú stringato possibile, di limitarmi a poche frasi. Senza rifletterci troppo, mi ritrovai ad adottare lo stesso stile scarno e conciso del messaggio che avevo ricevuto. In questo modo mi sentivo meno vulnerabile, meno esposto a passare da idiota agli occhi del burlone… se proprio si trattava di una burla. Piú o meno alla lettera, la risposta suonava cosí: Gentile Frieda Spelling, certo che mi piacerebbe incontrare Hector Mann. Ma come posso essere sicuro che sia vivo? A quanto ne so, nessuno l’ha piú visto da oltre mezzo secolo. La prego di fornirmi qualche dettaglio in piú. Con ossequio, David Zimmer.
Tutti, immagino, desideriamo credere nell’impossibile per convincerci che i miracoli possono succedere davvero. Dato che ero l’autore dell’unico libro mai scritto su Hector Mann, potrebbe essere logico pensare che mi tuffai a pesce sull’opportunità di crederlo ancora vivo. Ma non ero dell’umore adatto per i tuffi. O almeno non pensavo di esserlo. Il mio libro era nato da un grande dolore, e adesso che mi ero lasciato alle spalle il libro, il dolore era ancora presente. Scrivere di comiche non era stato niente di piú che un pretesto, una specie di bizzarro farmaco che avevo ingerito tutti i giorni per oltre un anno, nella remota possibilità che lenisse il dolore che avevo in me. Ed entro certi limiti, cosí era stato. Ma Frieda Spelling (o chiunque si spacciasse per Frieda Spelling) non poteva saperlo. Non poteva sapere che il 7 giugno del 1985, proprio una settimana prima del nostro decimo anniversario di nozze, mia moglie e i miei due figli erano morti in un incidente aereo. Ammettiamo che avesse notato la dedica sul libro (Per Helen, Todd e Marco – alla memoria): pur tuttavia quei nomi non potevano significare nulla per lei, e anche se ne avesse dedotto l’importanza per l’autore, non poteva sapere che ai suoi occhi rappresentavano tutto quello che ha senso nella vita – e che nel momento in cui Helen, trentasei anni, e Todd, sette anni, e Marco, quattro anni, erano morti, gran parte di lui era morta con loro.
Erano in viaggio verso Milwaukee per andare a trovare i genitori di Helen. Io ero rimasto nel Vermont a correggere le tesine e ad assegnare le valutazioni finali del semestre appena terminato. Era il mio lavoro – professore di letteratura comparata all’Hampton College di Hampton, Vermont – e lo dovevo fare. Di norma avremmo preso l’aereo tutti insieme il ventiquattro o il venticinque, ma il padre di Helen era appena stato operato di un tumore a una gamba, e la famiglia decise all’unanimità che lei e i ragazzi partissero al piú presto. Ciò diede luogo ad alcune complesse trattative dell’ultimo momento con la scuola di Todd per avere il permesso di fargli saltare le ultime due settimane di seconda. La direttrice si mostrò perplessa ma comprensiva, e alla fine accordò la dispensa. Fu uno dei dettagli su cui continuai a rimuginare dopo l’incidente. Se soltanto si fosse rifiutata, Todd sarebbe dovuto rimanere a casa insieme a me, e non sarebbe morto. Almeno uno dei tre avrebbe avuto salva la vita. Almeno uno dei tre non sarebbe precipitato per diecimila metri di cielo, e io non sarei rimasto solo in una casa fatta per quattro persone. C’erano altri aspetti, certo, altre contingenze su cui lambiccare e con cui torturarmi: e mi sembrava di non esser mai stanco di riandare sempre per gli stessi vicoli ciechi. Tutto apparteneva all’orrore: ogni anello nella catena di causa-effetto ne era una componente decisiva – dal cancro alla gamba di mio suocero alle condizioni meteo di quella settimana nel Midwest, al numero telefonico dell’agenzia che ci aveva prenotato i biglietti dell’aereo. Ma la cosa piú atroce era la mia insistenza nel volerli accompagnare a Boston in modo che potessero prendere il volo diretto. Non avevo permesso che partissero da Burlington, perché avrebbero dovuto volare su un apparecchio a diciotto posti fino a New York e là prendere la coincidenza per Milwaukee, e dissi a Helen che quegli aeroplanini non mi piacevano. Erano troppo pericolosi, dissi, e non potevo sopportare l’idea di far salire a bordo lei e i ragazzi senza di me. Per questo – per non mettermi in ansia – scegliemmo un’altra soluzione. Partirono con un aereo piú grande, e la cosa agghiacciante è che guidai come un pazzo per non farglielo perdere. C’era molto traffico quella mattina, e quando finalmente arrivammo a Springfield e imboccammo la Massachusetts Turnpike, dovetti superare ampiamente il limite di velocità per arrivare al Logan in tempo.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Paul Auster.
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