Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Lucernario di José Saramago. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 10,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Lucernario: trama del libro
L’azione si svolge a Lisbona a metà del XX secolo, in un palazzo di un quartiere popolare non meglio identificato dove vivono sei famiglie. Su questa scena si animano personaggi minati da tristezza e rimpianto le cui esistenze paiono ravvivarsi solo per l’improvvisa eco di un concerto di musica classica trasmesso alla radio o per l’instancabile elaborazione delle strategie, fatte di piccole ipocrisie e compromessi, con cui si tenta di fugare la minaccia dell’indigenza o di realizzare le aspirazioni conformiste della piccola borghesia. Un universo di mantenute, mogli tradite e dolenti, uomini sconfitti dalla vita che hanno rinunciato al futuro a cui fanno da contrappunto gli inserti del diario di una giovane sognatrice, vittima di una vicenda dalla morbosità inaspettata, o ancora le pagine di grande letteratura disseminate in forma di citazioni, ma soprattutto, gli ideali del protagonista Abel, giovane intellettuale libertario, figura paradigmatica di un determinato universo politico, specie considerando il contesto in cui il romanzo fu scritto, ovvero il Portogallo salazarista, paese isolato, retrivo e misero dominato da una dittatura fascista. Palesemente debitore della tradizione del grande romanzo russo da un lato e della coeva generazione dei neorealisti portoghesi dall’altro, “Lucernario” mostra evidenti le qualità destinate a caratterizzare il corpus del Saramago più noto: profondo scavo psicologico dei personaggi, grande respiro narrativo, capacità di catturare l’attenzione del lettore.
In ebook Lucernario (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Con un movimento di rotazione più lento tirò le gambe fuori dal letto. Le cosce magre e le rotule imbianchite dalla frizione dei calzoni che gli diradava i peli rattristavano e avvilivano profondamente Silvestre. Era orgoglioso del suo torace, senza dubbio, ma quelle gambe gli facevano rabbia, tanto gracili che non parevano neppure appartenergli.
Contemplando sconfortato i piedi scalzi poggiati sul tappeto, Silvestre si grattò il capo brizzolato. Poi si passò la mano sul viso, tastando le ossa e la barba. Controvoglia si alzò e fece qualche passo in camera da letto. Aveva un aspetto un po’ donchisciottesco, appollaiato su quelle gambe lunghe come trampoli, in mutande e maglia, il ciuffo di capelli sale e pepe, il naso grande e adunco, e quel torace possente che le gambe sorreggevano a stento.
Cercò i calzoni e non li trovò. Allungò il collo verso la porta, urlò:
– Mariana! Ehi, Mariana! Dove sono i miei calzoni?
(Voce da dentro:)
– Ora vengo!
Dal modo di camminare s’indovinava che Mariana era grassa e non poteva arrivare in fretta. Silvestre dovette aspettare un bel pezzo e aspettò con pazienza. La moglie comparve sulla soglia:
– Eccoli qui.
Aveva i calzoni ripiegati sul braccio destro, un braccio più grosso delle gambe di Silvestre. E aggiunse:
– Non so cosa ci fai con i bottoni dei calzoni, che spariscono tutte le settimane. Mi sa che dovrò cucirli con il fil di ferro…
La voce di Mariana era grassa come la sua padrona. E franca e benevola proprio come i suoi occhi. Era lungi dal pensare di aver detto una spiritosaggine, ma il marito sorrise con tutte le rughe che aveva sul viso e i pochi denti che gli restavano. Prese i calzoni, se li infilò sotto lo sguardo compiaciuto della moglie e si ritenne soddisfatto, ora che gli abiti rendevano il suo corpo più proporzionato e regolare. Silvestre era tanto orgoglioso del proprio corpo quanto Mariana distaccata da ciò che la Natura le aveva dato. Nessuno dei due si faceva illusioni sull’altro e sapevano bene che il fuoco della gioventù si era spento per sempre, ma si amavano teneramente, proprio come trent’anni prima, quando si erano sposati. Oggi il loro amore era forse più grande, perché non si nutriva più di perfezioni reali o immaginate.
Silvestre seguì la moglie in cucina. S’infilò nel bagno e ne uscì dieci minuti dopo, lavato. Non si era pettinato perché era impossibile domare quella chioma che gli dominava (proprio così, dominava) il capo – quella “ramazza da barca”, come diceva Mariana.
Le due tazze di caffè erano lì sul tavolo fumanti e in cucina c’era un odore buono e fresco di pulito. Le guance rotonde di Mariana risplendevano e tutto il suo corpo obeso tremolava e si agitava muovendosi tra i fornelli.
– Sei sempre più grassa, moglie!…
E Silvestre rise. Anche Mariana rise. Né più né meno che due ragazzini. Si sedettero a tavola. Bevvero il caffè caldo a lunghe sorsate rumorose, come un gioco. Ciascuno voleva superare l’altro nel risucchio.
– Allora, che decidiamo?
Ora Silvestre non rideva più. Anche Mariana si era accigliata. Persino le sue guance sembravano meno imporporate.
– Io non lo so. Sei tu che decidi.
– Te l’ho già detto ieri. Le suole sono sempre più care. I clienti si lamentano che chiedo troppo. Sono le suole… Certo è che non posso fare miracoli. Vorrei proprio sapere se c’è qualcuno più economico di me. Eppure si lamentano…
Mariana interruppe quel suo sfogo. Di quel passo non avrebbero risolto niente. Piuttosto, bisognava vedere quella faccenda dell’inquilino.
– In effetti, ci farebbe comodo. Ci aiuterebbe a pagare l’affitto e, se fosse un uomo solo e tu volessi occuparti della biancheria, potremmo far quadrare i conti.
Mariana si scolò le ultime gocce di caffè zuccherato in fondo alla tazza e rispose:
– Per me, non è un problema. È sempre qualcosa in più…
– Infatti. Ma ritrovarci di nuovo con degli inquilini, dopo che ci eravamo liberati di quella tizia che se n’è andata…
– Che si può fare? Se è una brava persona… Io mi trovo bene con tutti, se si trovano bene con me.
– Ci si riprova… Un uomo solo, che venga solo a dormire, sarebbe la cosa migliore. Poi, nel pomeriggio, andrò a mettere l’annuncio. – Ancora masticando l’ultimo boccone di pane, Silvestre si alzò e dichiarò: – Bene, vado a lavorare.
Rientrò in camera da letto e si avvicinò alla finestra. Scostò la tenda che fungeva da paravento che lo isolava dalla stanza. C’era una pedana alta e, sopra, il banco di lavoro. Lesine, forme, pezzi di filo, barattoli di chiodi, ritagli di cuoio e pelle. In un angolo, il pacchetto di tabacco francese e i fiammiferi.
Silvestre aprì la finestra e diede un’occhiata fuori. Niente di nuovo. Per strada passava poca gente. Non molto lontano, una donna offriva a squarciagola le sue fave secche. Silvestre non capiva come faceva quella donna a sopravvivere. Non conosceva nessuno che mangiasse fave secche, e lui stesso non le assaggiava da più di vent’anni. Altri tempi, altri usi, altri sapori. Concluso così l’argomento in poche parole, si sedette. Aprì il pacchetto, pescò le cartine nella baraonda di oggetti che sovraccaricavano il banco e si fece una sigaretta. L’accese, si gustò una boccata di fumo e si mise al lavoro. Aveva delle tomaie da mettere, un lavoro in cui applicava sempre tutto il suo sapere.
Di tanto in tanto lanciava uno sguardo alla strada. Il mattino cominciava pian piano a rischiararsi, anche se il cielo era coperto e nell’aria un impercettibile velo di nebbia sfumava i contorni delle cose e delle persone.
Nella molteplicità dei rumori che ormai popolava il palazzo, Silvestre cominciò a distinguere un picchiettio di tacchi sui gradini della scala. Li identificò immediatamente. Aprì la porta che dava sulla strada e si affacciò:
– Buongiorno, signorina Adriana!
– Buongiorno, signor Silvestre.
La giovane si fermò sotto la finestra. Era piuttosto bassa e portava un paio di occhiali dalle spesse lenti che le trasformavano gli occhi in due palline minuscole e inquiete. Era a metà strada fra i trenta e i quarant’anni, e già qualche capello bianco le striava la pettinatura semplice.
– Allora, al lavoro, eh?
– Eh, sì. Arrivederci, signor Silvestre.
Era così tutte le mattine. Quando Adriana usciva di casa il calzolaio era già lì alla finestra del piano terra. Impossibile sgusciare via senza vedere quella capigliatura arruffata e senza udire e ricambiare gli inevitabili saluti. Silvestre la seguì con lo sguardo. Vista da lontano pareva, nell’accostamento pittoresco del calzolaio, un “sacco di patate”. Giunta all’angolo della strada, Adriana si voltò e accennò un saluto verso il secondo piano. Poi scomparve.
Silvestre posò la scarpa e girò la testa verso la finestra. Non era un pettegolo, ma le vicine del secondo piano gli piacevano, buone clienti e belle persone. Con la voce alterata per la torsione del collo, salutò:
– Salve, signorina Isaura! Come va il tempo, oggi?
Dal secondo piano, attutita dalla distanza, giunse la risposta:
– Non c’è male, no. La nebbia…
Non si riuscì a sapere se la nebbia pregiudicasse, o meno, la bellezza del mattino. Isaura mise fine al dialogo e chiuse la finestra lentamente. Non è che il calzolaio non le piacesse, con quella sua aria riflessiva e, insieme, allegra, ma quel mattino non era in vena di chiacchiere. Aveva un mucchio di camicie da finire entro la settimana. Sabato doveva consegnarle, a ogni costo. Fosse stato per lei, avrebbe finito di leggere il romanzo. Le mancava solo una cinquantina di pagine ed era nel punto più interessante. Quegli amori clandestini, portati avanti tra mille peripezie e contrarietà, l’avvincevano. Il romanzo, poi, era ben scritto. Isaura era una lettrice abbastanza esperta per giudicarlo. Esitò. Ma sapeva benissimo di non avere neppure il diritto di esitare. Le camicie l’aspettavano. Udiva un rumore di voci provenire dall’interno: la madre e la zia stavano parlando. Parlavano tanto quelle due donne. Cosa avevano mai da dirsi tutto il santo giorno, che non fosse già stato detto mille volte?
Attraversò la camera dove dormiva con la sorella. Il romanzo era lì sul comodino. Gli lanciò uno sguardo vorace, ma proseguì. Si fermò davanti allo specchio dell’armadio che la rifletteva da capo a piedi. Aveva indosso un grembiule da casa che le modellava il corpo snello e magro, ma flessuoso ed elegante. Con la punta delle dita si sfiorò le guance pallide su cui le prime rughe aprivano dei solchi sottili, più immaginati che visibili. Sospirò all’immagine che lo specchio le mostrava e ne sfuggì.
In cucina, le due vecchie continuavano a parlare. Molto simili, i capelli tutti bianchi, gli occhi castani, gli stessi vestiti neri di fattura semplice, parlavano con voci acute e rapide, senza pause e senza intonazioni:
– Te l’ho già detto. Il carbone è pieno di terra. Bisogna andare a reclamare dal carbonaio – diceva una.
– Va bene – rispondeva l’altra.
– Di che parlate? – domandò Isaura mentre entrava.
Una delle vecchie, quella con lo sguardo più vivace e il capo più eretto, rispose:
– È il carbone che fa pena. Bisogna reclamare.
– Va bene, zia.
Zia Amélia era, per così dire, l’economa di casa. Era lei che cucinava, faceva i conti e distribuiva le razioni nei piatti. Cândida, la madre di Isaura e Adriana, si occupava delle faccende domestiche, della biancheria, dei centrini che ornavano a profusione i mobili e dei vasi con fiori di carta che nei giorni di festa venivano sostituiti con fiori veri. Cândida era la maggiore e, proprio come Amélia, vedova. Due vedove che la vecchiaia aveva ormai pacificato.
Isaura si sedette alla macchina per cucire. Prima di cominciare il lavoro, guardò il fiume che si stendeva ampio, con l’altra sponda occultata dalla nebbia. Pareva l’oceano. I tetti e i comignoli rovinavano l’illusione, ma, sforzandosi di non vederli, l’oceano sorgeva comunque nei pochi chilometri di acqua. L’alta ciminiera di una fabbrica, a sinistra, macchiava il cielo bianco con sbuffi di fumo.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore portoghese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a José Saramago.
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