Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Le luci del sud di Danielle Steel, romanzo edito in Italia da Sperling & Kupfer con un prezzo di copertina di 10,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99.
Le luci del sud: trama del libro
Sono trascorsi dieci anni da quando Alexa Hamilton si è lasciata alle spalle Charleston per vivere a New York, il più lontano possibile dal misero fallimento del suo matrimonio. Oggi, Alexa è una donna felice: lavora come avvocato nel prestigioso ufficio del procuratore e ha trovato la serenità insieme con Savannah, la figlia diciassettenne che ha cresciuto da sola e che ama più di se stessa. Ma tutto cambia il giorno in cui le viene affidato il caso di Luke Quentin, accusato di aver ucciso diverse giovani donne. Mentre Alexa si prepara al processo, decisa a incastrare Quentin, Savannah riceve alcuni inquietanti messaggi. Poche righe, e una minaccia troppo grande per essere ignorata. In un attimo, Alexa vede crollare la nuova vita che si è faticosamente costruita, e si trova sul punto di perdere la cosa più preziosa di tutte: sua figlia. Per proteggerla da chi vuole farle del male, Alexa è costretta così alla scelta più difficile: cercare rifugio nel posto che aveva cercato disperatamente di dimenticare, Charleston. E proprio lì, a casa dell’ex marito, nel luogo in cui ha conosciuto le lacrime e l’umiliazione del tradimento, Alexa scoprirà che anche le vecchie ferite possono guarire. E che il passato si può dimenticare. Dalle strade frenetiche di Manhattan alle atmosfere magiche della Carolina del Sud, una storia di affetti smarriti e ritrovati.
Luke Quentin uscì silenziosamente dalla portafinestra, e dopo averla richiusa dietro di sé raggiunse dal balcone la scala antincendio e scese. Era gennaio, e a New York si gelava. Si trovava in città da una quindicina di giorni, ormai. Prima era stato in Alabama, Mississippi, Pennsylvania, Ohio, Iowa, Illinois, Kentucky. Aveva fatto una visita a un amico nel Texas… Insomma, aveva viaggiato per mesi e mesi, lavorando dove capitava. Del resto, non aveva bisogno di molto per campare.
Muovendosi furtivo come una pantera raggiunse la strada, e stava già percorrendo Lower East Side prima che gli uomini, il cui arrivo aveva fiutato all’improvviso, avessero raggiunto la sua camera. Non sapeva chi fossero, ma era troppo furbo per correre rischi. Molto probabilmente erano poliziotti. Q – gli amici e i compagni di cella lo chiamavano così – era stato in carcere due volte, una per truffa con la carta di credito e una per furto, e sapeva fin troppo bene che gli ex galeotti non ricevono un trattamento equo da nessuno.
Rabbrividendo per il freddo, si fermò a comprare un giornale e un sandwich e riprese il cammino.
Era un bell’uomo, con spalle larghe e lineamenti regolari, i capelli di un indefinibile color biondo rossiccio, gli occhi azzurro chiaro; di tanto in tanto si lasciava crescere la barba. A trentaquattro anni si era già fatto dieci anni di galera e non gli avevano mai concesso la libertà sulla parola, però aveva saldato il suo debito con la giustizia. Era libero come l’aria ormai da due anni, e fino a quel giorno non si era ancora cacciato nei guai.
Per fortuna, nonostante la sua statura, era capace di confondersi tra la folla, di scomparire in qualsiasi momento. Continuò a camminare in direzione nord e poi svoltò verso ovest quando arrivò alla Quarantaduesima Strada. Nei pressi di Times Square si infilò in un cinema, si accomodò nella sala buia e si addormentò. Uscì che era mezzanotte. Allora, preso un autobus al volo, tornò verso il centro commerciale di New York, confidando che chiunque fosse venuto a cercarlo dovesse essersene andato da un pezzo. Si domandò chi avesse fatto la soffiata alla polizia che lui era un ex carcerato. Forse qualcuno dell’hotel, i tatuaggi che aveva sulle mani dovevano averlo tradito. Non gli andava l’idea di farsi beccare dai poliziotti; si augurava che, non avendo trovato niente nella sua camera, avessero perso ogni interesse nei suoi confronti. Era quasi l’una quando rientrò nello squallido alberghetto.
L’impiegato alla reception lo salutò con un cenno del capo. Per salire fece le scale, come sempre: gli ascensori erano una trappola, e lui preferiva essere libero di muoversi come voleva. Arrivato sul pianerottolo del piano sotto la sua stanza, udì un lieve rumore; era solo un clic, ma il suo orecchio finissimo riuscì a coglierlo, e si rese conto all’istante che qualcuno stava armando una pistola. Allora, muovendosi con la rapidità del lampo, tornò giù in silenzio, attento a non fare il minimo rumore; rallentò l’andatura solo un attimo passando davanti al banco della reception. Qualcosa non lo convinceva. Per niente. A metà delle scale si rese conto che tre uomini lo seguivano, ma lui non aveva alcuna intenzione di fermarsi ad aspettarli per scoprire chi fossero. Per un secondo gli balenò l’idea di tirarsi fuori dai guai discutendo con loro, ma l’istinto gli consigliava di svignarsela. Si mise a correre come un disperato, e prima che quelli fossero usciti dall’albergo lui era già in fondo alla strada. Luke era una scheggia. Quando era al fresco, per tenersi in forma faceva sport, e tutti dicevano che filava più del vento.
Scavalcò uno steccato, si arrampicò sul tetto di un garage, con un salto atterrò e superò un altro steccato, ma era intrappolato in mezzo alle case del quartiere e si rese conto che a quel punto gli era impossibile ritornare all’albergo. Era nei guai. Guai grossi. Non riusciva a capire… Aveva una pistola a canna corta infilata nella tasca dei jeans, ma non voleva essere catturato con un’arma addosso, così la buttò in un cestino dei rifiuti, girò un altro angolo e si cacciò in un vicolo, sempre correndo a perdifiato. Si fermò davanti a un altro steccato da scavalcare, e tutt’a un tratto una mano lo prese per il collo e lo strinse in una morsa d’acciaio. Nessuno l’aveva mai afferrato così: doveva essere un poliziotto. Aveva fatto bene a buttare la pistola; adesso comunque doveva liberarsi del maledetto piedipiatti. Gli sferrò una violenta gomitata nelle costole, ma la stretta invece di allentarsi aumentò. Si sentì girare la testa, aveva le vertigini, e nonostante il fisico poderoso si accasciò al suolo. Il poliziotto sapeva benissimo dove e come agguantarlo, e per di più gli diede un potente calcio nella schiena. Luke si lasciò sfuggire un gemito a denti stretti.
«Figlio di puttana!» sbottò, aggrappandosi alle gambe del suo aggressore e atterrandolo. Avvinti l’uno all’altro in una stretta micidiale, i due rotolavano sul terreno lottando, ma nel giro di qualche secondo l’agente aveva già immobilizzato Luke: era più giovane di lui, più allenato. E poi, da mesi Charlie McAvoy pregustava il piacere di trovarsi a quattr’occhi con Q. Lo aveva inseguito per tutto il Paese, e si era intrufolato in camera sua due volte quella settimana e una la precedente. Lo conosceva come le sue tasche. Da circa un anno aveva ottenuto il via libera per dargli la caccia attraverso i vari Stati; aveva giurato a se stesso che, anche a costo di rimetterci la vita, l’avrebbe catturato, e adesso che finalmente l’aveva preso non l’avrebbe mollato! Con una mossa fulminea si rimise in ginocchio e gli sbatté la faccia sull’asfalto, facendolo sanguinare dal naso. Nel frattempo erano arrivati altri due agenti. Erano in borghese, ma sembrava che avessero la parola FBI stampata in fronte.
«Andateci piano, ragazzi», si raccomandò Jack Jones, il detective anziano, porgendo le manette a Charlie, preoccupato dalla luce assassina che aveva negli occhi. «Vediamo di non ammazzarlo prima di arrivare alla centrale.» Sapeva che il giovane collega si era fatto un punto d’onore di catturare quel bastardo a ogni costo, e sapeva anche perché; Charlie glielo aveva confidato una sera che aveva alzato un po’ troppo il gomito. Quando l’aveva incontrato la mattina dopo, Jack aveva dovuto promettere di non aprire bocca con nessuno. Però non gli piaceva affatto che le vendette personali interferissero con il lavoro, e vedendo Charlie tremare di rabbia temette che avrebbe sparato alla minima occasione. E non avrebbe soltanto bloccato Luke con un colpo a un braccio o a una gamba: lo avrebbe ammazzato, lì, sul posto.
L’altro agente del terzetto, Bill Neeley, chiamò per radio un’autopattuglia. La loro macchina era a parecchi isolati di distanza e non volevano spostare il prigioniero a piedi così lontano per non correre rischi inutili.
Quanto a Luke, il sangue gli scendeva copioso dal naso e gli aveva macchiato la camicia, ma nessuno fece qualcosa per cercare di fermare l’emorragia. Da loro, Quentin non avrebbe ottenuto nessuna pietà. Jack gli snocciolò, com’era obbligato a fare, i suoi diritti, e lui, nonostante la condizione in cui si trovava, assunse un’espressione arrogante e impassibile, fissando gli agenti con occhi di ghiaccio.
«Stronzi maledetti, vi faccio causa! Mi avete rotto il naso», minacciò mentre i poliziotti lo spingevano in direzione della macchina che nel frattempo era arrivata e sulla quale lo fecero salire senza troppi complimenti.
Charlie, Jack e Bill andarono a recuperare la loro auto in silenzio. Charlie allungò un’occhiata a Jack mentre girava la chiavetta dell’accensione, poi si abbandonò contro lo schienale del sedile, pallidissimo.
«Che effetto ti fa averlo finalmente beccato?» gli domandò Bill.
«Be’, adesso tutto sta nel trovare le prove e fare in modo che l’incriminazione regga.»
Quando arrivarono alla centrale videro che Luke non aveva perso la sua aria strafottente. Nonostante il viso e la camicia coperti di sangue, ammanettato com’era, la sua boria era intatta.
«Si può sapere cosa cazzo volete? Mi accusate di aggressione a scopo di rapina oppure di aver rubato il portamonete a una vecchietta?» sbraitò, ridendo in faccia a Charlie.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice newyorchese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Danielle Steel.
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