Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di La luna di carta di Andrea Camilleri, romanzo edito in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 10,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99 ed è il nono tra i volumi dedicati al commissario Montalbano.
La luna di carta: trama del libro
“Quann’era picciliddro, una volta sò patre, per babbiarlo, gli aveva contato che la luna ‘n cielu era fatta di carta. E lui, che aviva sempre fiducia in quello che il patre gli diciva, ci aviva criduto. E ora, maturo, sperto, omo di ciriveddro e d’intuito, aviva nuovamente criduto come un picciliddro a dù fìmmine…, che gli avivano contato che la luna era fatta di carta.” Torna il sangue nelle inchieste di Montalbano: un delitto spietato in una casa alla periferia di Vigata. Tutto sembra condurre alla pista passionale. Ma il commissario non si lascia ingannare. Come già ne “La pazienza del ragno” incontriamo un commissario Montalbano più del solito pensieroso, quasi intimista.
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Fino a un anno avanti, la procedura dell’arrisbigliata matutina aviva invece caminato secunno regole diverse e, soprattutto, senza affanno e senza currute da centometrista.
In primisi, nenti uso della sveglia.
Montalbano aviva la bitudine di raprire l’occhi doppo la durmuta in modo naturale, senza bisogno di stimoli esterni: una specie di sveglia c’era sì, ma sinni stava dintra di lui, ammucciata certo nel sò ciriveddro, gli bastava puntarla prima di addrummiscirisi, «ricordati ca dumani ti devi arrisbigliari alle sei», e alle sei spaccate s’attrovava con l’occhi rapruti. Aviva sempre considerato la sveglia, quella di metallo, praticamente un oggetto di tortura: le tri o quattro volte che si era dovuto arrisbigliare con quel sono a trivella pirchì Livia, dovenno partiri, non si era fidata della sò sveglia interiore, era ristato tutta la jornata col malo di testa. Allura Livia, doppo una sciarra, aviva accattato una sveglia di plastica che invece di squillare faciva un sono elettronico, una specie di biiiiip che non finiva mai, quasi come il ronzio di una muschitta che si era inzeccata dintra la grecchia e ci era ristata imprigionata. Cosa di nesciri pazzi. L’aviva ittata dalla finestra, innescando n’autra lite memorabile.
In secunnisi, lui si autoarrisbigliava, volutamente, con un certo anticipo, minimo minimo una decina di minuti.
Erano i meglio deci minuti della jornata che l’aspittava. Ah, quant’era bello starsene stinnicchiato sutta le linzola a pinsari minchiate! Questo libro che tutti dicono un capolavoro me l’accatto o no? Oggi vado a mangiari in trattoria o torno a Marinella e mi sbafo quello che m’ha priparato Adelina? Glielo dico o non glielo dico a Livia che il paro di scarpe che m’ha arrigalato non me lo posso mittiri pirchì mi stanno stritte?
Ecco, cose accussì. Tambasiate col pensiero. Evitanno però accuratamente di farisi comparire nella mente qualichi cosa che arriguardasse sesso e fìmmine: quello potiva addivintari, a quell’ora, tirreno periglioso da esplorare, a meno che non c’era Livia che dormiva allato a lui e che sarebbe stata ben contenta d’affrontarne le conseguenze.
Una matina di un anno avanti le cose però erano cangiate di colpo. Aviva appena rapruto l’occhi, calcolanno che potiva dedicare un quarto d’ora scarso alle tambasiate mentali, quanno un pinsero improviso gli passò per la testa, non un pinsero completo, ma un principio di pinsero, un pinsero che accomenzava con queste ’ntifiche parole:
«Quanno viene il jorno della tò morti…».
E che ci trasiva questo pinsero in mezzo agli altri? Era una vigliaccata! Era come se uno, mentre faciva all’amuri, s’arricordava di botto che non aviva pagato la bolletta del telefono. Non è che l’idea della morti lo scantava in modo particolare, ma la matina alle sei e mezza non era il posto sò, se uno accomenzava a ragiunari della propria morti alle sett’albe, sicuro che alle cinco di doppopranzo o si sparava o si ittava in mare con una màzzara in collo. Arriniscì a non farla andare avanti, quella frase, la bloccò mittennosi a contare precipitosamente da uno a cinquemila, l’occhi inserrati, i pugna stritti. Doppo capì che l’unica era mittirisi a fare le cose che doviva fare, su di esse concentrandosi come se era una questione di salvamento di vita. L’indomani matino la facenna fu più tradimentosa. Il primo pinsero che gli vinni fu che nel brodo del pisci che aviva mangiato la sira avanti mancava un condimento. Ma quali? E in quel priciso momento tornò, a tradimento, il mallitto pinsero:
«Quanno viene il jorno della tò morti…».
Da allura in po’ capì che quel pinsero non se ne andava mai più, capace che sinni stava ammucciato in un giracatigira del sò ciriveddro per uno o dù jorni per poi nesciri allo scoperto mentre non se l’aspittava. Vai a sapiri pirchì, si fici pirsuaso che era necessario, per la sò stissa sopravvivenza, che quella frase non doviva arrivare a compiutezza, se ci arrivava, lui moriva ’nzemmula all’ultima parola. E quindi, la sveglia. Per non lassari a quel dannato pinsero la minima crepa temporale dintra la quale infilarsi.
Livia, vinuta a passari tri jorni a Marinella, mentri che sfaciva la valigia puntò un dito verso il commodino e spiò:
«Che ci fa quella sveglia?».
Lui le disse una farfantaria.
«Sai, una settimana fa mi sono dovuto alzare molto presto e…».
«E dopo una settimana quella vecchia sveglia ha ancora carica?».
Quanno ci si mittiva, Livia era pejo di Sherlock Holmes. Tanticchia affruntato, le disse la virità, tutta la virità, nient’altro che la virità. Livia s’infuriò.
«Ma tu sei un demente!».
E fici spiriri la sveglia infilandola dintra a un cascione dell’armuàr.
L’indomani a matino invece della sveglia fu Livia ad arrisbigliari a Montalbano. E fu una bellissima arrisbigliata con pinseri di vita e no di morti. Ma appena Livia ripartì, la sveglia tornò sul comodino.
«Dottori ah dottori dottori!».
«Che fu, Catarè?».
«C’è una signura che l’aspetta».
«A mia?».
«A vossia di pirsona pirsonalmenti non lo disse, disse che voliva parlari con uno della polizia».
«E non potevi farti dire tu?».
«Dottori, mi disse che voliva parlari con uno superiori a mia».
«Non c’è il dottor Augello?».
«Nonsi, dottori, tilefonò che arriva tardo in ritardo datosi che ritardò».
«E perché?».
«Dice che stanotti il picciliddro si sentì malo e che stamatina ci va il medico dottori».
«Catarè, non c’è bisogno che dici medico dottori, basta e superchia che dici dottore».
«Non abbasta, dottori. Si fa confusione. Vossia, prisempio, è dottori ma non è medico».
«Ma la madre? Beba? Non può aspettare lei la visita del dott… del medico?».
«Sissi, dottori, la signora Beba c’è. Ma dice che ci voli essiri di prisenza macari lui».
«E Fazio?».
«Fazio è appresso a un picciotto».
«Che ha fatto questo picciotto?».
«Lui nenti, dottori. Morto è».
«E com’è morto?».
«Overodose, dottori».
«Va bene, facciamo accussì. Io vado nel mio ufficio, tu fai passare una decina di minuti e poi fai entrare la signora».
Era arraggiato con Mimì Augello. Da quanno gli era nato il picciliddro, ci stava appresso chiossà di quanto una volta stava appresso alle fìmmine. Aviva perso la testa per sò figlio Salvo. Già, pirchì non solo glielo avivano fatto vattiare, ma gli avivano macari fatto la bella surprisa di chiamarlo come a lui.
«Mimì, ma non gli potete mettere il nome di tuo padre?».
«Capirai, si chiama Eusebio».
«Allora quello del padre di Beba».
«Peggio che andar di notte. Si chiama Adelchi».
«Mimì, fammi capire. La vera ragione per la quale lo chiamate come a mia è perché gli altri nomi sono nomi che vi parino strammi?».
«Ma non dire minchiate! Prima di tutto c’è l’affetto che ho per te che sei per me come un padre e poi…».
Un padre? Con un figlio come Mimì?
«Ma vaffanculo!».
Alla notizia che il nascituro si sarebbe chiamato Salvo, Livia era stata invece pigliata da una gran botta di chianto. C’erano delle speciali occasioni che la commuovevano assà.
«Quanto ti vuole bene Mimì! E tu invece…».
«Ah, mi vuole bene? Tu lo sai chi sono Eusebio e Adelchi?».
E da quanno il picciliddro era nasciuto, Mimì in commissariato compariva e scompariva in un vidiri e svidiri, ora Salvo (junior, naturalmente) aviva la cacarella, ora aviva macchie rosse sul sederino, ora aviva rigurgiti, ora non voliva sucari il latti…
Se n’era lamintiato, per telefono, con Livia.
«Ah, sì? E che hai da dire su Mimì? Vuol dire che è un padre amorevole, un padre coscienzioso! Io non so se tu, al suo posto…».
Aviva riattaccato.
Taliò la posta del matino che Catarella gli aviva lassato supra il tavolo. Per un patto fatto coll’ufficio postale, dato che certe volte stava dù jorni senza tornari a la casa, la posta privata indirizzata a Marinella gliela portavano in commissariato. C’erano solo littre ufficiali e le mise da parte, non aviva gana di leggerle, le avrebbe passate a Fazio appena che tornava.
Squillò il telefono.
«Dottori, c’è il dottori Latte con la esse in funno».
Lattes, il capo di gabinetto del Questore. Con orrore e stupore, Montalbano aviva scoperto, qualichi tempo avanti, che Lattes aviva un clone in un onorevole portavoce che compariva sempre in tv, la stissa ariata di sagristia, la stissa pelli roseo-maialisca per mancanza di varba, la stissa vuccuzza a pirtuso di culo, la stissa untuosità, una stampa e una figura.
«Caro Montalbano, come va, come va?».
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore siciliano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrea Camilleri.
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