La macchia umana: la trama
Il professor Coleman Silk da cinquant’anni nasconde un segreto, e lo fa così bene che nessuno se n’è mai accorto, nemmeno sua moglie o i suoi figli. Un giorno però basta una frase (anzi una sola parola detta per sbaglio, senza riflettere) e su di lui si scatenano le streghe del perbenismo, gli spiriti maligni della “political correctness”. Allora tutto il suo mondo, la sua brillante vita accademica, la sua bella famiglia, di colpo crollano; e ogni cosa che Coleman fa suscita condanna, ogni suo gesto e ogni sua scelta scandalizzano i falsi moralisti. Non c’è scampo perché “noi lasciamo una macchia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui”.
Coleman l’aveva vista per la prima volta mentre lei lavava il pavimento dell’ufficio postale nel tardo pomeriggio di un giorno in cui, qualche minuto prima della chiusura, era andato a ritirare la corrispondenza: una donna esile, alta e angolosa con i capelli tra il biondo e il grigio raccolti in una coda di cavallo e quei tratti del viso severamente scolpiti, associati di solito alle devote e laboriose massaie del New England che hanno dovuto sopportare gli stenti della vita coloniale, austere donne prigioniere della moralità dominante e di questa stessa moralità rispettose. Si chiamava Faunia Farley, e qualunque fosse la sua infelicità, la teneva nascosta dietro uno di quegli inespressivi volti ossuti che, senza nulla celare, tradiscono un’immensa solitudine. Faunia abitava in una stanza di una fattoria del posto dove, per pagare l’affitto, collaborava alla mungitura. Aveva fatto due anni di scuole superiori.
L’estate in cui Coleman mi fece le sue confidenze su Faunia Farley e il loro segreto fu, in modo abbastanza appropriato, l’estate in cui il segreto di Bill Clinton venne a galla in ogni suo minimo e mortificante dettaglio: in ogni suo minimo e vivido dettaglio, là dove la vita, come la mortificazione, stillava dall’asprezza dei dati specifici. Non avevamo avuto una stagione come quella da quando qualcuno era incappato nella nuova Miss America nuda in un vecchio numero di «Penthouse», foto di lei elegantemente in posa in ginocchio e sdraiata sulla schiena che costrinsero la ragazza, piena di vergogna, a restituire la corona per diventare, in un secondo tempo, una celebre pop star. Quella del novantotto nel New England fu un’estate di sole e di uno squisito tepore; l’estate – nel baseball – di una mitica battaglia tra un dio degli home run bianco e un dio degli home run di pelle scura; e, in America, l’estate di un’orgia colossale di bacchettoneria, un’orgia di purezza nella quale al terrorismo – che aveva rimpiazzato il comunismo come minaccia prevalente alla sicurezza del paese – subentrò, come dire, il pompinismo, e un maschio e giovanile presidente di mezza età e un’impiegata ventunenne impulsiva e innamorata, comportandosi nell’Ufficio Ovale come due adolescenti in un parcheggio, ravvivarono la piú antica passione collettiva americana, storicamente forse il suo piacere piú sleale e sovversivo: l’estasi dell’ipocrisia. Nell’aula del Congresso, sulla stampa e alla televisione, i cialtroni tronfi e morigerati, smaniosi d’incolpare, deplorare e punire, facevano i moralisti a piú non posso: tutti in un parossismo calcolato di quello che Hawthorne (il quale, negli anni tra il 1860 e il 1870, abitava a non molte miglia dalla porta di casa mia) identificò, nel paese nascente di tanto tempo fa, come «lo spirito di persecuzione»; tutti ansiosi di celebrare gli astringenti riti purificatori che avrebbero estirpato l’erezione dall’esecutivo, rendendo cosí la situazione abbastanza confortevole e sicura perché la figlia decenne del senatore Lieberman potesse riprendere a guardare la tivú col suo imbarazzato paparino. No, se non siete vissuti nel 1998 non sapete cos’è l’ipocrisia. Il columnist conservatore William F. Buckley scrisse nella sua rubrica: «Quando lo fece Abelardo, fu possibile evitare che si ripetesse», insinuando che il modo migliore di rimediare all’illecito presidenziale – quella che Buckley definiva, altrove, l’«incontinente carnalità di Clinton» – forse non era una cosa incruenta come l’impeachment ma, piuttosto, il castigo che nel dodicesimo secolo venne inflitto al canonico Abelardo dal coltello dei compari del collega ecclesiastico di Abelardo, il canonico Fulberto, per vendicare la seduzione e il matrimonio segreto con la nipote di Fulberto, la vergine Eloisa. Diversamente dalla fatwa di Khomeini che condannava a morte Salman Rushdie, l’intenso desiderio nutrito da Buckley per la pena correttiva della castrazione non comportava incentivi finanziari per il possibile esecutore. Questa era suggerita, tuttavia, da uno spirito non meno severo di quello dell’ayatollah, e in nome di ideali non meno elevati.
Era estate, in America, quando tornò la nausea, quando non cessarono gli scherzi, quando non cessarono le congetture e le teorie e le iperboli, quando l’obbligo morale di spiegare ai propri figli la vita degli adulti fu abrogato per tenere viva in loro ogni illusione sulla vita degli adulti, quando la meschinità della gente apparve semplicemente schiacciante, quando una specie di demone era stato sguinzagliato nel paese e, da ambo le parti, la gente si chiedeva: «Perché siamo cosí pazzi?», quando uomini e donne, svegliandosi al mattino, scoprivano che durante la notte, in un sonno che li aveva trasportati oltre l’invidia o il ribrezzo, avevano sognato la spudoratezza di Bill Clinton. Sognai io stesso un gigantesco striscione, dadaisticamente teso come uno degli involucri di Christo da un capo all’altro della Casa Bianca, con la scritta qui abita un essere umano. Era l’estate in cui – per la miliardesima volta – il casino, il pasticcio, il guazzabuglio si dimostrò piú sottile dell’ideologia di questo e della moralità di quello. Era l’estate in cui il pene di un presidente invase la mente di tutti e la vita, in tutta la sua invereconda sconcezza, ancora una volta disorientò l’America.
Editore: Einaudi
Pagine: 359
Collana: Super ET
eBook: 6,99 euro
Philip Roth è uno dei maggiori scrittori contemporanei e uno dei più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese in assoluto. Il suo romanzo più famoso è Pastorale Americana, per il quale Roth ha ricevuto il Premio Pulitzer nel 1998.
Altri libri
Il complotto contro l’America
Il teatro di Sabbath
Lamento di Portnoy
Pastorale Americana
Everyman
Quando lei era buona
Nemesi
Ho sposato un comunista
L’animale morente
La controvita
Inganno
L’umiliazione
La mia vita di uomo
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