Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il mercante di libri maledetti di Marcello Simoni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Newton Compton con un prezzo di copertina di 5,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è disponibile in eBook al prezzo di euro 0,99.
Il mercante di libri maledetti: trama del libro
Anno del Signore 1205. Padre Vivïen de Narbonne viene braccato da un manipolo di cavalieri che indossano strane maschere. Il monaco possiede un libro molto prezioso, che non vuole cedere agli inseguitori. Tentando di fuggire, precipita in un burrone. Tredici anni dopo Ignazio da Toledo, di ritorno da un esilio in Terrasanta, viene convocato a Venezia da un facoltoso patrizio per compiere una missione: dovrà recuperare un libro molto raro intitolato “Uter Ventorum”, lo stesso libro posseduto da Vivïen. Il manoscritto in questione conterrebbe precetti derivati dalla cultura talismanica caldaico-persiana e sembrerebbe in grado di evocare gli angeli, per poter partecipare della loro sapienza. Ignazio si metterà alla ricerca del libro, che secondo le indicazioni è tenuto in custodia nella Chiusa di San Michele presso Torino. Ma alla Chiusa di San Michele, anziché trovare il libro, Ignazio si imbatte in un mistero: l'”Uter Ventorum” è stato smembrato in quattro parti nascoste in Linguadoca e in Castiglia. La curiosità di scoprire il contenuto di quelle pagine lo sprona a proseguire nella ricerca, nonostante il pericolo. Riuscirà svelare tutti gli enigmi che il libro contiene e a evocare gli angeli e la loro sapienza?
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Benché evitasse di rivelare le proprie origini, i suoi lineamenti moreschi, ingentiliti dalla carnagione chiara, parlavano fin troppo dei cristiani vissuti in Spagna a contatto con gli arabi. Il capo completamente rasato e la barba plumbea gli conferivano un’aria dottorale, ma erano gli occhi a catturare l’attenzione: smeraldi verdi e penetranti incastonati fra rughe geometriche. La sua tunica grigia, coperta da un mantello con cappuccio, emanava la fragranza delle stoffe orientali intrise di aromi per il tanto viaggiare. Alto e magro, camminava appoggiandosi a un bordone.
Questo era Ignazio da Toledo e così lo vide per la prima volta il giovane Uberto, quando la sera piovosa del 10 maggio 1218 il portone del monastero di Santa Maria del Mare si aprì. Entrò un’alta figura incappucciata seguita da un uomo biondo che si trascinava dietro un grosso baule.
L’abate Rainerio da Fidenza, che aveva appena finito di recitare l’ufficio del vespro, riconobbe subito il forestiero con il cappuccio e gli andò incontro. «Mastro Ignazio, da quanto tempo!», esordì benevolo, facendosi largo tra schiere di monaci. «Ho ricevuto il messaggio del vostro arrivo. Ero impaziente di rivedervi».
«Venerabile Rainerio», Ignazio accennò un inchino, «vi lascio semplice monaco e vi ritrovo abate».
Rainerio era alto quanto il mercante di Toledo, ma più robusto. Aveva il viso dominato da un marcato naso aquilino. I capelli castani e corti spiovevano in ciocche disordinate sulla fronte. Prima di ribattere, abbassò lo sguardo e si fece il segno della croce. «Così ha voluto il Signore. Maynulfo da Silvacandida, il nostro vecchio abate, è deceduto l’anno scorso. Una grave perdita per la nostra comunità».
A quella notizia il mercante emise un sospiro amareggiato. Non prestava molta fede alle vite dei santi e dubitava delle proprietà miracolose delle reliquie che spesso trasportava da Paesi lontani. Ma Maynulfo, lui sì, era stato santo. Non aveva mai rinunciato alla vita eremitica, neppure dopo la nomina abbaziale. Era solito ritirarsi periodicamente lontano dal monastero per pregare in solitudine. Nominava un vicario, si metteva una bisaccia a tracolla e raggiungeva un eremo fra i canneti della vicina laguna. Là cantava i salmi e digiunava in solitudine.
Ignazio ricordò la notte in cui l’aveva conosciuto. A quei tempi, mentre fuggiva disperato, si era rifugiato proprio nel suo eremo. Maynulfo l’aveva accolto e si era offerto di aiutarlo, e il mercante aveva intuito che poteva metterlo a parte del suo segreto.
Erano trascorsi quindici anni, e ora la voce di Rainerio risuonava nelle sue orecchie dissipando i ricordi: «È morto nell’eremo, non ha resistito al rigore dell’inverno. Noi tutti avevamo insistito perché rimandasse il ritiro a primavera, ma lui diceva che il Signore lo chiamava al raccoglimento. Dopo sette giorni l’ho trovato morto nella sua cella».
Dal fondo della navata si udì qualche monaco sospirare per il dispiacere.
«Ma ditemi, Ignazio», continuò Rainerio, notando come il mercante si fosse accigliato, «chi è il compagno silenzioso che vi portate appresso?».
L’abate osservò l’uomo biondo al fianco del mercante. Poco più di un giovane, a dire il vero. I capelli lunghi, leggermente mossi, ne incorniciavano il collo posandosi sulle spalle robuste. Gli occhi azzurri sembravano quelli di un fanciullo, ma i contorni del viso erano decisi, scolpiti dall’espressione rigida delle mascelle.
L’uomo fece un passo in avanti e si inchinò per presentarsi. Parlò con l’accento della langue d’oc, macchiato da un’imprecisata cadenza esotica: «Willalme de Béziers, venerabile padre».
L’abate ebbe un lieve sussulto. Sapeva bene che la città di Béziers era stata il covo di una setta di eretici. Fece un passo indietro e fissò lo sconosciuto, bisbigliando tra i denti: «Albigensis…».
Al suono di quella parola sul volto di Willalme si disegnò una smorfia arcigna. Dagli occhi balenò rabbia, poi sopraggiunse un senso di tristezza, come di un dolore non ancora sopito.
«Willalme è un buon cristiano, non ha nulla a che vedere con l’eresia albigese, o catara», intervenne Ignazio. «È vissuto lontano dalla propria terra per molto tempo. L’ho conosciuto mentre facevo ritorno dalla Terrasanta e siamo diventati compagni di viaggio. Si ferma qui solo per la notte, ha affari da sbrigare altrove».
Rainerio studiò il volto del francese, che aveva tanto da nascondere sotto quello sguardo sfuggente, poi annuì. All’improvviso parve ricordarsi di qualcosa e si voltò verso le ultime panche del monastero. «Uberto», chiamò, rivolgendosi a un ragazzetto moro seduto fra i confratelli. «Vieni qui un momento, ti voglio presentare una persona».
Proprio allora Uberto stava interrogando alcuni monaci sul conto dei due visitatori, che non aveva mai visto prima. Un confratello gli stava rispondendo sottovoce: «L’uomo alto con la barba e il cappuccio è Ignazio da Toledo. Si dice che durante il sacco di Costantinopoli abbia messo le mani su alcune reliquie, ma anche su libri preziosi, certi addirittura di magia… Pare che abbia trasportato il bottino a Venezia, ricavando grandi ricchezze e il favore della nobiltà di Rialto. Ma in fondo è un buon uomo. Non per nulla era amico dell’abate Maynulfo. Avevano un intenso rapporto di corrispondenza».
Sentendosi chiamare da Rainerio, il ragazzo congedò l’interlocutore e si diresse verso il piccolo gruppo, raccolto all’ombra del vestibolo. Solo allora Ignazio abbassò il cappuccio e scoprì il volto, quasi per guardarlo meglio. Studiò con discrezione il suo viso, i grandi occhi ambrati e i folti capelli neri. «Dunque, tu saresti Uberto», esordì.
Il ragazzo ricambiò lo sguardo. Non aveva idea di come rivolgersi a quell’uomo. Era più giovane di Rainerio, eppure emanava un’aura ieratica che imponeva riverenza. Affascinato, abbassò gli occhi verso i calzari. «Sì, mio signore».
Il mercante sorrise. «“Mio signore”? Non sono un alto prelato! Chiamami per nome e dammi del tu».
Uberto si rasserenò. Gettò uno sguardo in direzione di Willalme, impassibile e attento.
«Dimmi», incalzò Ignazio, «sei un novizio?»
«No», intervenne Rainerio. «È un…».
«Suvvia padre abate, lasciate parlare il ragazzo».
«Non sono un monaco, ma un converso», rispose Uberto, sorpreso dalla confidenza con cui il mercante trattava Rainerio. «Mi hanno trovato i confratelli quando ero ancora in fasce. Sono stato cresciuto e istruito in questo luogo».
Il volto di Ignazio si velò per un attimo di tristezza, poi tornò a esprimere un distaccato contegno.
«È un ottimo amanuense», soggiunse l’abate. «Capita spesso che gli faccia copiare brevi codici o compilare documenti».
«Aiuto come posso», ammise Uberto, più con imbarazzo che con modestia. «Mi è stato insegnato a leggere e a scrivere in latino». Esitò un momento. «Voi… tu hai viaggiato molto?».
Il mercante annuì, abbozzando una smorfia che alludeva alla fatica accumulata nel suo peregrinare. «Sì, ho visitato molti luoghi», disse. «Se lo desideri, potremo parlarne. Mi fermerò qui per qualche giorno, per concessione dell’abate».
Rainerio atteggiò il volto in un’espressione paterna. «Mio caro, come già scrissi in risposta alla vostra lettera, siamo lieti di accogliervi. Riposerete nella foresteria vicina al monastero e potrete cenare nel refettorio assieme alla famiglia monastica. Prenderete posto al mio desco stasera stessa».
«Ve ne sono grato, padre. A questo punto, chiedo il permesso di deporre il mio baule nella stanza che ci avete assegnato. Willalme l’ha trascinato fin qui da dove ci ha sbarcato il traghettatore, ed è molto pesante».
L’abate annuì, oltrepassò il vestibolo e si affacciò all’esterno. Cercava qualcuno. «Hulco, sei lì?», vociò, scrutando attraverso il grigiore fittissimo dello scroscio.
Uno strano figuro si avvicinò ciondolando, ingobbito per via di una fascina caricata sulle spalle. Sembrava che la pioggia non lo infastidisse. Non era un monaco. Un villano piuttosto, o meglio, uno di quei servi casati cui venivano affidate le faccende pratiche del monastero. Doveva essere Hulco. Farfugliò qualcosa in un vernacolo incomprensibile.
Rainerio, visibilmente infastidito dal dover impartire ordini al servo in prima persona, parlò come se stesse addomesticando un animale: «Bene, figliolo… No, lascia stare la legna. Appoggiala lì, lì. Bravo. Prendi una carriola e aiuta i signori a portare questa cassa alla foresteria. Sì, là. E bada a non farla cadere. Bravo, accompagnali». Cambiando espressione, si rivolse di nuovo agli ospiti: «È rude, ma mansueto. Seguitelo. Se non avete bisogno d’altro, vi attendo fra breve in refettorio per la cena».
Congedati Rainerio e Uberto, i due compagni si incamminarono al seguito di Hulco che, deposta la fascina, continuò a camminare ingobbito e dinoccolato, affondando i talloni nel pantano.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore di Comacchio rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Marcello Simoni.
Bellissimo♡