Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il mio cuore cattivo di Wulf Dorn. Il volume è pubblicato in Italia da TEA con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il mio cuore cattivo: trama del libro
C’è un vuoto nella memoria di Dorothea. Quella sera voleva uscire a tutti i costi ma i suoi l’avevano costretta a fare la babysitter al fratello minore mentre loro erano a teatro. Ricorda che lui non ne voleva sapere di dormire e urlava come un pazzo. Ricorda una telefonata che l’aveva sconvolta, ricorda di aver perso la testa, e poi più niente. Più niente fino agli occhi sbarrati del fratellino, senza più vita. C’è un abisso in quel vuoto di memoria, un abisso che parole come “arresto cardiaco” non riescono a colmare. Perché la verità è che lei non ricorda cosa sia successo. Solo adesso, dopo mesi di ospedale psichiatrico, di terapie, di psicologi, ha raggiunto faticosamente un equilibrio precario. Ha cambiato casa, scuola, città: si aggrappa alla speranza di una vita normale. Ma una notte vede in giardino un ragazzo terrorizzato che le chiede aiuto e poi scompare senza lasciare traccia. E quando, dopo qualche giorno, Dorothea scopre l’identità del ragazzo e viene a sapere che in realtà lui si sarebbe suicidato prima del loro incontro, le sembra di impazzire di nuovo. I fantasmi del passato si uniscono a quelli del presente precipitandola in un incubo atroce in cui non capisce di chi si può fidare, e in cui la sua peggiore nemica potrebbe rivelarsi proprio lei stessa…
In ebook Il mio cuore cattivo (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 8,99 euro.
Fredda.
Oscura.
Malvagia.
Guardami, Doro!
Quella voce, cupa e distorta, non poteva essere d’un essere umano. Impossibile. Semmai di…
No, la mia mente non riusciva ad attribuirle un’immagine, una figura. Tutto ciò che mi evocava era un nero abissale. Qualunque cosa fosse, non riuscivo a descriverlo. Percepivo solo la sua malvagità.
Spicciati, ha detto la voce, minacciosamente bassa. Guarda qui! Che cosa aspetti ancora?
Non riuscivo a respirare. Impietrita fissavo le dita che avevano artigliato la coperta mentre «lui» si avvicinava.
I suoi piedi strusciavano appena percettibilmente sul tappeto e a ogni passo il freddo che provavo aumentava. Quando si è fermato proprio dietro di me, la paralisi si è allentata e ho cominciato a tremare, come in preda a una febbre violenta.
Hai paura di me, ha constatato lui e ha accompagnato le parole con una risata. E dire che dovresti avere paura di te stessa. Vero, Doro?
Di nuovo quella risata. Come una cascata di chicchi di grandine su un tetto di lamiera. Poi si è piegato su di me.
Avrei voluto schizzare su, scacciarlo, gridare… ma non ci riuscivo. La paura di ciò che avrei visto era troppo forte.
Sapevo che se mi fossi voltata verso di lui, sarei impazzita per l’orrore. E quindi non potevo che rimanere immobile: distesa, tremante, inerme.
Sappiamo entrambi che cosa hai fatto, ha mormorato la voce e io ne ho sentito l’alito gelido sulla guancia. Per adesso è ancora il nostro piccolo segreto. Ma che cosa farai quando anche gli altri lo sapranno? Che cosa diranno allora di te?
«Lasciami… in… pace!»
Parlare mi è costato uno sforzo incredibile. Ogni mia parola aveva un suono confuso, come il biascicare di un ubriaco.
No, ha ripreso la voce, non ti lascerò mai più in pace. Mai più, capisci? Mi hai fatto entrare nella tua vita e adesso faccio parte di te.
«No», ho singhiozzato. «Va’ via! Lasciami…»
Come vuoi. Per ora. Però tornerò. Di nuovo e di nuovo e di nuovo. Fino a quando ti assumerai la responsabilità di ciò che hai fatto. Nessuno sfugge al male che ha fatto, Doro. Nemmeno tu!
D’un tratto il freddo si è attenuato. Lui se n’era andato. Sparito, improvvisamente, con la stessa velocità con cui era arrivato.
Mi sono risvegliata in apnea e in lacrime. Mi era sembrato così reale che per un momento ho creduto di scorgere le orme di quell’essere sul tappeto.
Invece non c’era niente. Ovvio. Soltanto la moquette verde sulla quale il sole di giugno disegnava un motivo a strisce trapelando attraverso le gelosie.
La sveglia mi ha detto che mancavano cinque minuti alle otto. Ho sentito, sotto, uno sbatter di stoviglie e subito dopo le voci dei miei genitori.
«Volentieri!» ha esclamato papà dal bagno, sovrastando con la sua voce baritonale il ronzio del rasoio elettrico. «Due, per favore. Sode. Oggi ne avrò bisogno.»
Dalla cucina è salita la risata di mamma.
Una qualsiasi altra domenica mattina tutto quel chiasso mi avrebbe imbestialita, mi sarei tirata la coperta fin sopra le orecchie e avrei continuato a dormire. Quel giorno invece ho accolto il disturbo, per la prima volta, con sollievo e gratitudine.
Giù dal letto. Ho infilato jeans e T-shirt e sono scesa.
Mamma era accanto ai fornelli e, con un cucchiaino, versava caffè macinato nella macchinetta. «Buongiorno, cara. Come mai così presto?»
Mi ha sorriso e alla luce del sole del mattino il nero dei suoi capelli si è messo a brillare facendo a gara con l’ambra degli occhi.
Ogni essere umano ha un suo colore e quello di mia madre era quel meraviglioso bruno dorato degli occhi. I suoi genitori erano siciliani, e mia nonna ha sempre sostenuto che le italiane sono le donne più fiere e più belle del mondo. Non so se lo si può dire proprio di tutte, ma nel caso di mamma aveva ragione.
Mi ha strizzato l’occhio. «Ancora arrabbiata per ieri?»
«Per ieri?» Ho scosso la testa. Ero troppo contenta di essermi sbarazzata di quell’incubo per riuscire a ricordarmi di ieri. «Ma no!»
Mamma ha sorriso compiaciuta. «Mi fa piacere, tesoro. E allora il meglio che possiamo fare è dimenticare quella lite.»
«Ma certo», ho dichiarato e ho tentato di ricordare. Ma – non so perché – non ci sono riuscita. Tutto quel che sapevo ancora della sera prima era che c’era stato uno scambio di urla. «Ho reagito un po’ troppo brutalmente, eh?»
«Hai ereditato il temperamento della nonna, tutto qui. Ma non parliamone più.»
«Così dunque stanno le cose», è intervenuto papà entrato in cucina dietro di me e mi ha stampato un bacio sulla guancia. Ho colto subito l’odore del suo dopobarba, quello che sull’etichetta aveva scritto: FRESCO COME IL CRISTALLO. Un odore che non mi faceva pensare ai cristalli, però, semmai all’avorio. Era il colore di mio padre.
«Ammettiamo pure che tu abbia ereditato l’aspetto di tua madre e il temperamento della nonna: ma da me che cosa hai preso?» ha voluto sapere.
«Il secondo nome di tua madre», ho risposto e mi sono fregata via dalla guancia l’odore dell’avorio.
Come ogni volta che levavo gli occhi su di lui, mi sono chiesta come mai io ero riuscita ad arrivare soltanto al metro e sessantadue, e mi sono sentita ancora una volta la nana della famiglia.
Papà era un uomo alto e slanciato con una faccia spigolosa e gli occhi blu molto incassati. Si è passato le dita fra i capelli castani ancora umidi e mi ha squadrata con finta serietà: «Non capisco proprio come non possa piacerti».
«Ma dai, papà! A quale ragazza piacerebbe chiamarsi Dorothea?»
«A te evidentemente no.»
«Puoi dirlo forte. È un nome del cavolo.»
«Lo so», ha risposto con un’alzata di spalle. «Però così ha deciso tua madre. Dico bene, tesoro?»
La sveglia che segnalava la cottura delle uova ha evitato a mamma l’imbarazzo della risposta. «Doro, dolcezza, sii gentile e vai a dare un’occhiata a tuo fratello. È sicuramente già sveglio.»
«Accidenti, perché sempre io! Ma non può andarci papà per una volta?»
Sempre la stessa lagna, ogni mattina. Il solo pensiero del mostriciattolo urlante di un anno e mezzo bastava a cancellare il buonumore. Non che non gli volessi bene, però mi scocciava tremendamente dover fare sempre io la babysitter del «nostro uccellino», come lo chiamava zia Lydia.
C’era da giurare che Kai se l’era di nuovo fatta sotto e io odiavo quella puzza a stomaco vuoto.
«Io ho già l’incarico di andare a comprare il pane», papà mi ha fatto dondolare sotto il naso le chiavi della macchina. «E quindi fai la brava. Non dimenticare che anche mamma ha ereditato il temperamento della nonna. Oltre alla testardaggine del nonno.»
«Siete due esseri impossibili», ha sentenziato mamma, ridendo. «E ora sbrigatevi se non volete che si raffreddino le uova.»
Papà e io ci siamo scambiati un’occhiata veloce e poi non abbiamo potuto fare a meno di ridere anche noi.
Allora non sapevo ancora – non lo potevo sapere – che quello sarebbe stato l’ultimo momento felice della nostra vita in famiglia.
Conservo un ricordo solo indistinto e distorto di ciò che è successo dopo. Come la visione delle cose quando si ha la testa sott’acqua.
Non riesco a sentire mamma in cucina né il motore della nostra macchina nel momento in cui papà esce dal garage. Sento solo una nota acuta e monotona che mi riempie la testa. Sono passati tanti anni dall’ultima volta che ho avuto la febbre alta. Ebbene, anche allora c’era questo stesso suono. Una specie di vibrazione, di fremito difficile da descrivere. Forse il paragone più azzeccato è quello con il rumore che capita di sentire sotto una linea elettrica in aperta campagna.
Sono in corridoio e guardo verso il piano di sopra. La luce del sole cade sui gradini attraverso la finestra e immerge tutto in un chiarore irreale. Sì, è proprio come uno di quei sogni angosciosi che si fanno quando si ha la febbre.
Per non so quale inspiegabile motivo vorrei non salire, eppure faccio ugualmente le scale. Sento la passatoia sotto i piedi nudi. Le sue maglie dure, salde, strette. Sembra quasi che vogliano frenarmi, trattenermi.
Non proseguire, dice qualcosa nella mia testa. NON PROSEGUIRE!
La stanza di Kai è in fondo al piano di sopra. A metà delle scale vedo già la marionetta di cartone fissata sulla porta. Splende addirittura, e i suoi colori mi abbagliano.
Socchiudo gli occhi e proseguo, esitante. E intanto scandaglio la nota ronzante che ho in testa in cerca della voce di Kai. Però lassù c’è soltanto silenzio.
Eppure deve averci sentiti giù in cucina. Perché non strilla come al solito?
Il corridoio fino alla porta è lunghissimo, d’una lunghezza irreale, e improvvisamente scompare la luce del sole come se una nuvola scura si fosse piazzata davanti alla finestra.
Continuo a sentire nella mente quella voce che mi mette in guardia, che vorrebbe trattenermi.
E invece mi avvicino alla stanza di Kai. Passo dopo passo. Non riesco a fare diversamente.
Poggio la mano sulla maniglia e l’abbasso con precauzione. Quindi entro nella penombra della stanza. Anche lì, un silenzio sinistro, inquietante. Vedo davanti a me il lettino con le sponde alte, a sbarre. La giostrina carillon con i pupazzetti di Disney che pende come irrigidita dal soffitto.
«Kai», mormoro. «Kai, sei sveglio?»
Il silenzio mi stringe il petto in una morsa.
«Ehi, Kai», ripeto, stavolta a voce più alta. «Che ti piglia, strillone?»
Non risponde.
Intravedo la sagoma del suo corpo sotto la copertina estiva, fisso il motivo degli elefanti sorridenti che ballano sulla stoffa azzurra. Però Kai non si muove.
Qualcosa mi dice che dovrei fare dietrofront e scappare, d’altro canto mi sento irresistibilmente attratta verso il letto di mio fratello.
Eccomi accanto alla sponda con lo sguardo in fondo al letto, da dove mi sorride il coniglio di peluche di Kai in calzoni e pettorina. Tutto in me si ribella all’idea di guardare verso l’altro capo del letto. Chiudo gli occhi, li strizzo.
«Ma dai, Kai», mi sento dire, «per favore…»
Però non mi risponde altro che, ancora, un silenzio malvagio.
Ora ho alzato lo sguardo verso il centro del letto. Deglutisco e poi apro lentamente gli occhi.
Kai è disteso davanti a me e mi fissa. I suoi occhi sono vitrei come quelli del coniglio che sorride nei calzoni con la pettorina. Però Kai non sorride.
Kai… Kai…
La faccia! O mio Dio la faccia!
E finalmente riesco a gridare.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore tedesco rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Wulf Dorn.
Qui potete trovare tutti i libri di Wulf Dorn in ordine di pubblicazione.