Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Il mio paese inventato di Isabel Allende. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 9,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Il mio paese inventato: trama del libro
Dopo tanta vita e tanti abbandoni, tanti libri scritti e tanta nostalgia, in questo nuovo libro Isabel Allende racconta il suo Cile, immaginato e sognato nella distanza. Il racconto disegna, sul filo di una memoria che aggira i fatti troppo intimi, un paesaggio interiore dove aleggiano gli spiriti dei defunti e dove i ricordi si sovrappongono senza un ordine cronologico. L’autrice fa rivivere le dimore ora scomparse, i paesaggi cancellati dall’edificazione urbana e le persone che hanno segnato la sua vita fino a quando è fuggita alla repressione della dittatura e si è stabilita prima in Venezuela e poi negli Stati Uniti.
Clicca i pulsanti per approfondire
In ebook Il mio paese inventato (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
A scatenare questo turbine di ricordi sono stati due episodi avvenuti di recente. Il primo è stato un commento casuale di mio nipote Alejandro che, mentre scrutavo la carta geografica delle mie rughe davanti allo specchio, ha esclamato compassionevole: “Non preoccuparti, nonna, ti restano almeno altri tre anni!”. Allora ho deciso che era giunto il momento di rivedere la mia vita, per cercare di capire come avrei desiderato trascorrere quei tre anni che tanto generosamente mi erano stati concessi. Il secondo episodio scatenante è stato la domanda di uno sconosciuto durante una conferenza di scrittori di viaggi che mi sono trovata a inaugurare. Premetto che non appartengo a quella strana categoria di gente che viaggia in luoghi lontani, sopravvive ai batteri e poi pubblica libri per convincere gli incauti a seguire le sue orme. Viaggiare è terribilmente faticoso, soprattutto dove non è previsto il servizio in camera. Le mie vacanze ideali le trascorrerei su una sdraio sotto un ombrellone nel mio giardino a leggere libri di viaggi avventurosi che non intraprenderei mai, se non per scappare da qualcosa. Provengo dal cosiddetto Terzo mondo (qual è il Secondo?) e ho dovuto accalappiare un marito per vivere legalmente nel Primo; non ho intenzione di tornare al sottosviluppo senza una valida ragione. Tuttavia, mio malgrado, ho peregrinato per cinque continenti e ho dovuto fare l’esiliata volontaria e l’immigrante. In materia di viaggi sono un’esperta e per questo mi hanno invitato a parlare in quella conferenza. Alla fine del mio breve discorso si è alzata una mano tra il pubblico e un giovanotto mi ha domandato che ruolo giocasse la nostalgia nei miei romanzi. Per un attimo sono rimasta in silenzio. Nostalgia… secondo il dizionario è “la tristezza di trovarsi lontano dalla propria terra, la malinconia causata dal ricordo di una gioia perduta”. La domanda mi ha tolto il fiato, perché fino ad allora non mi ero resa conto che la scrittura rappresenta per me un esercizio costante della nostalgia. Sono stata forestiera per quasi tutta la vita, condizione che accetto perché non posso fare altrimenti. Diverse volte sono stata costretta a partire, sciogliendo legami e lasciandomi tutto alle spalle, per cominciare da zero in un altro posto; ho vagato per più luoghi di quanti possa ricordare. A forza di dire addio mi si sono seccate le radici e ho dovuto generarne altre che, in mancanza di un terreno in cui fissarsi, mi si sono piantate nella memoria; ma attenzione, la memoria è un labirinto dove i minotauri sono in agguato.
Se mi avessero chiesto di dove sono, fino a poco tempo fa avrei risposto, senza pensarci due volte, che non sono di nessuna parte, o che sono sudamericana, o cilena per affetto. Oggi, invece, dico che sono americana, non solo perché così è scritto sul mio passaporto, o perché questa definizione include l’America dal nord al sud, o perché mio marito, i miei figli, i miei nipoti, la maggior parte dei miei amici, i miei libri e la mia casa si trovano nel Nord della California, ma perché, non molto tempo fa, le torri gemelle del World Trade Center sono state distrutte da un attentato terroristico, e da quel momento qualcosa è cambiato. In una crisi non è possibile restare neutrali. Quella tragedia mi ha costretto a confrontarmi con il mio senso d’identità; ora sono consapevole di essere un membro in più della variopinta popolazione americana, tanto quanto prima ero cilena. Non mi sento più una straniera negli Stati Uniti. Mentre guardavo le torri che crollavano ho avuto la sensazione di aver già vissuto un incubo praticamente identico. Per una spaventosa coincidenza – karma storico – gli aerei dirottati negli Stati Uniti si sono schiantati contro i loro obiettivi un martedì 11 settembre, esattamente lo stesso giorno della settimana e del mese – e quasi alla stessa ora del mattino – in cui era avvenuto il golpe militare in Cile, nel 1973, un attentato terroristico organizzato dalla Cia contro una democrazia. Le immagini delle torri che bruciano, del fumo, delle fiamme e del panico, sono simili nelle due scene. Quel lontano martedì del 1973 la mia esistenza è andata in pezzi, niente è stato più come prima, avevo perso il mio paese. Anche quel fatidico martedì del 2001 ha rappresentato un momento decisivo, niente sarebbe più stato come prima, ma io ho guadagnato un paese.
L’osservazione di mio nipote e la domanda dello sconosciuto mi hanno dato lo spunto per questo libro, che ancora non so bene quale piega prenderà; per il momento divago, come sempre divagano i ricordi, quindi vi prego di pazientare ancora un po’.
Scrivo queste pagine dal cucuzzolo di un ripido colle, sotto lo sguardo vigile di un centinaio di querce nodose, mentre osservo la Baia di San Francisco. Ma io vengo da un’altra terra e ho il vizio della nostalgia. La nostalgia è un sentimento triste e un po’ kitsch, come la dolcezza; è praticamente impossibile affrontare il tema senza cadere nel sentimentalismo, ma ci proverò lo stesso. Se dovessi scivolare nel patetico, prometto di rimettermi in piedi qualche riga più avanti. Alla mia età – ormai sono vecchia come la penicillina – si ricordano cose rimaste nel dimenticatoio per mezzo secolo. Per decenni non ho mai ripensato alla mia infanzia, né alla mia adolescenza; a essere sincera mi importavano poco quegli anni passati, e quando guardavo gli album di fotografie di mia madre non riconoscevo nessuno, salvo una femmina di bulldog che rispondeva all’assurdo nome di Pelvia López-Pun, e l’unica ragione per la quale mi era rimasta impressa è che ci assomigliavamo in maniera impressionante. C’è una fotografia, dove siamo ritratte insieme quando io avevo pochi mesi, sulla quale mia madre aveva dovuto indicare con una freccia chi ero io e chi era il cucciolo. Di certo la mia pessima memoria dipende dal fatto che quei tempi non sono stati particolarmente lieti, ma credo che ciò capiti alla maggior parte dei mortali. L’infanzia felice è un mito; per rendersene conto basta pensare alle fiabe, dove il lupo mangia la nonnina e poi arriva il cacciatore, che squarta la povera bestia con il coltello, tira fuori la vecchia viva e vegeta, riempie la pancia del lupo di sassi e gliela ricuce con ago e filo, facendogli venire una sete tale che il poveretto si precipita al fiume per bere e affoga per il peso delle pietre. Perché mai non lo uccide in un modo più semplice e meno crudele?, dico io. Certamente perché l’infanzia non è semplice ed è crudele. A quei tempi non esisteva la definizione di “abuso di minore”, si pensava che il sistema migliore per educare i bambini fosse con la cinghia in una mano e la croce nell’altra, così come era scontato che l’uomo avesse il diritto di picchiare la moglie se gli serviva in tavola la minestra fredda. Prima che gli psicologi e le autorità intervenissero nella questione, nessuno aveva messo in dubbio i benefici effetti di una bella ripassata. Io non le prendevo quanto i miei fratelli, ma vivevo ugualmente nella paura, come tutti gli altri bambini che conoscevo.
Nel mio caso, la normale infelicità dell’infanzia fu aggravata da una moltitudine di complessi, così ingarbugliati che adesso non riesco neppure a enumerarli, ma per fortuna non hanno lasciato ferite che il tempo non abbia rimarginato.
Una volta una scrittrice americana di colore disse che fin da bambina si era sentita estranea in famiglia e in mezzo alla sua gente; spiegò che questa sensazione è comune a quasi tutti gli scrittori, compresi quelli che non lasciano mai la loro città natale, e che è una condizione legata alla professione, perché, senza il disagio del sentirsi diverso, non nascerebbe la necessità di scrivere. La scrittura, in fin dei conti, rappresenta un tentativo di comprendere se stessi e mettere ordine nella confusione della propria esistenza. Tutte inquietudini che non tormentano la gente normale, ma solo gli anticonformisti cronici, molti dei quali finiscono per fare gli scrittori dopo aver fallito in altri campi. Questa teoria mi ha tranquillizzata: non sono un mostro, esistono altre persone come me.
Io non mi sono mai sentita adeguata in alcun ruolo, né in famiglia, né nella classe sociale o nella religione che mi sono toccate in sorte; non facevo parte delle bande che scorrazzavano in bicicletta per strada; i cugini non mi facevano giocare con loro; da piccola ero la bambina meno popolare della scuola e in seguito sono stata per molto tempo quella che non ballava alle feste, più per timidezza che per il fatto di sentirmi brutta, almeno così preferisco pensare. Mi chiudevo orgogliosamente in me stessa, facendo finta che non mi importasse, ma in realtà avrei venduto l’anima al diavolo per far parte del gruppo, se per caso Satana mi avesse fatto una proposta così allettante. La causa del mio problema era sempre la stessa: l’incapacità di adeguarmi a ciò che gli altri considerano normale e un’irrefrenabile tendenza a emettere giudizi che nessuno desidera sentire, un’abitudine, questa, che fece scappare più di un potenziale pretendente. (Non voglio darmi delle arie, non sono mai stati molti.) Successivamente, negli anni in cui lavorai come giornalista, curiosità e sfacciataggine giocarono a mio favore. Per la prima volta facevo parte di un gruppo ed ero autorizzata a fare domande indiscrete e a divulgare le mie idee, ma questo finì improvvisamente con il golpe militare del 1973, che scatenò forze incontrollabili. Da un giorno all’altro divenni straniera nella mia terra, al punto di dover alla fine partire, perché non potevo vivere e crescere i miei figli in un paese dove regnava la paura e dove non c’era posto per i dissidenti come me. A quei tempi curiosità e sfacciataggine erano proibite dalla legge. Fuori dal Cile, attesi per molti anni che si instaurasse nuovamente la democrazia per rimpatriare, ma quando accadde non lo feci, perché ormai ero sposata con un nordamericano e abitavo vicino a San Francisco. Non sono più tornata a vivere in Cile, dove in realtà ho trascorso meno della metà della mia vita, anche se ci vado spesso; ma, per rispondere alla domanda di quello sconosciuto sulla nostalgia, sono costretta a prendere in considerazione quasi esclusivamente gli anni cileni. E per farlo devo rievocare la mia famiglia, perché nella mia mente patria e tribù si confondono.
Per la biografia e la bibliografia completa della scrittrice di origine cilena rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Isabel Allende.
Lascia un commento