Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Missing – New York di Don Winslow. Il volume è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 18,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Missing – New York: trama del libro
Per Frank Decker, la vita sembra finalmente in discesa. A Lincoln, Nebraska, lo conoscono tutti: è un detective tenace, abile, con un curriculum di tutto rispetto, e molti pensano a lui come prossimo capo della polizia. Finché da una casa in un tranquillo sobborgo della città scompare una bambina. Le indagini sembrano non portare a niente, e le statistiche sono spietate. Quando una persona svanisce nel nulla e non viene ritrovata nel giro di quarantotto ore, le possibilità che sia già stata uccisa arrivano ben oltre il novanta per cento. Ma Frank ha promesso alla madre di Hailey che le riporterà sua figlia. E pur di mantenere la parola data è disposto a tutto: anche a dimettersi, a rinunciare alla sua carriera e a partire per un viaggio che lo spingerà ad attraversare l’America, agganciato a una traccia esile che conduce a verità più scomode.
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O almeno ci provava.
Il sole non era ancora sorto, ma faceva già caldo, e anche al sesto piano, nella stanza singola dell’albergo in cui alloggiavo, sentivo l’odore dell’immondizia salire dal vicolo. Colpa mia, avevo aperto la finestra per lasciare entrare un po’ di aria fresca.
Era stata una lunga estate e il calore era penetrato nel cemento come un vecchio rancore.
Adesso era la fine di agosto, e il fresco autunnale era ancora una promessa indefinita.
La camicia bianca mi si appiccicò alla pelle non appena la indossai. Non era pulita, ma era la piú pulita che mi restava. Infilai i pantaloni kaki, i calzini e le scarpe, poi mi allacciai il giubbotto antiproiettile. Agganciai al fianco la fondina con la .38 Smith & Wesson e indossai la giacca per nasconderla.
Era arrivato il momento di riportare a casa Hailey Hansen.
Mi chiamo Frank Decker.
Ritrovo persone scomparse.
La prima volta che udii il nome di Hailey ero ancora un detective della polizia di Lincoln, Nebraska.
Stavo finendo il mio turno, dopo il colloquio con un testimone per uno spaccio di anfetamine che coinvolgeva una gang di motociclisti, quindi non ero esattamente di buon umore. L’unica cosa positiva che posso dire, riguardo a un caso del genere, è che impari una quantità di eufemismi per dire «pezzo di merda».
Quindi stavo per tornare a casa, con il pensiero rivolto a una bella birra fredda, quando la radio diramò un Codice 64: una persona scomparsa.
Hansen, Hailey Marie.
Sesso femminile, afroamericana.
Età, cinque anni.
Altezza, un metro e dieci. Peso, sedici chili e mezzo.
Capelli neri, occhi verdi.
Richiesto l’intervento di un detective.
Ero in zona, cosí presi io il caso e mi diressi verso la casetta a un piano nel quartiere noto come South Bottoms.
La madre era sul marciapiede davanti a casa. Parlava con l’agente di pattuglia che aveva risposto alla sua chiamata. Indossava una maglia rosa senza maniche, pantaloncini corti e sandali. Il viso era rigato di lacrime, i capelli biondi con un’aria unta e appiccicata nel calore estivo.
Chi non crede al riscaldamento globale dovrebbe scendere da un’auto con l’aria condizionata a Lincoln, Nebraska, in agosto. Nemmeno una goccia di pioggia da maggio, il mais che appassiva sotto un sole implacabile, mentre all’orizzonte grosse nuvole grigie ci allettavano, promettevano umidità, ma non mantenevano.
Avevamo solo la tortura della speranza.
Diverse altre mamme erano sul marciapiede o sui praticelli davanti alle case, le mani sulle spalle dei loro figli, le facce un misto di angoscia e colpevole sollievo perché non si trattava del loro bambino, e rispondevano alle domande di due agenti in uniforme.
Conoscevo le domande. Era la procedura standard.
«Quando ha visto Hailey per l’ultima volta? Ha notato qualcosa d’insolito nel quartiere? Qualche persona sospetta?» E poi il pezzo forte: «Cosa le è accaduto, secondo lei?»
Perché se un genitore, o il compagno di uno dei genitori, ha fatto qualcosa alla piccola, quello è il momento in cui i vicini vuotano il sacco. Esitano, poi lo dicono tutto d’un fiato. Oppure scopri che hanno chiamato cinque volte il Cps, il servizio per la protezione dei minori, o che in quella casa ci sono stati vari interventi per «disturbo della quiete pubblica».
C’erano trentanove gradi all’ombra, ma misi la giacca per coprire la pistola al fianco. Era inutile spaventare ancora di piú i bambini. Loro di solito non si preoccupano finché i genitori restano calmi.
Speravo che la piccola Hailey uscisse da sola dal giardino pubblico lí vicino, si prendesse un abbraccio forte e una sculacciata dalla mamma, e tutto finisse bene. Ci saremmo scambiati sorrisi di sollievo. Avrei detto: «Non c’è problema, signora, siamo felici che la bambina stia bene», poi saremmo tornati tutti a casa, per una doccia fredda e una birra gelata, in attesa che il pomeriggio afoso si trasformasse in una serata afosa.
Una partita di softball.
Il furgone dei gelati.
Quiete conversazioni in veranda, dietro le zanzariere.
Una sera d’estate in una città del Midwest, dove c’è persino una strada che si chiama Normal.
Le ondate di calore e le ondate di crimini vanno di pari passo.
Questa almeno è la mia esperienza.
Con il caldo tutti hanno la miccia corta, e si accende in fretta. Gli ubriachi scatenano risse fuori dai bar per un’occhiata di traverso, basta una parola sconsiderata perché gli amanti diventino odianti, coniugi ottantenni con sessant’anni di matrimonio alle spalle cominciano a tirarsi addosso le stoviglie, solo per il diritto di decidere quale vecchia replica guardare in Tv.
E i bambini si perdono.
È un fatto della vita. Anche i genitori piú vigili battono un po’ la fiacca, con un caldo che va avanti per cosí tanti giorni, e tutti sappiamo come sono i bambini. Un attimo di distrazione al supermercato e scompaiono. Ti volti per salutare un amico e tuo figlio è già in fondo all’isolato.
La missione dei bambini è quella di sfuggire ai genitori.
Cheryl Hansen stava dicendo proprio questo, quando mi avvicinai.
– Sono entrata in casa solo un minuto, – stava dicendo all’agente. – E quando sono uscita lei non c’era piú.
– Capisco, – disse Cerny.
Lo conoscevo. Era un grosso boemo cresciuto in una fattoria trenta chilometri a nord della città, con le mani come prosciutti, piú adatte al trattore che al volante di un’auto di pattuglia. Ma Cerny aveva capito presto che preferiva stare in mezzo alla strada, piuttosto che in mezzo ai campi. Era un buon agente, un veterano, e non avrebbe incasinato l’indagine.
La prima reazione, in un caso di bambini scomparsi, è di importanza cruciale. Anche se l’eventualità peggiore, il rapimento da parte di un estraneo, si verifica una volta su diecimila, bisogna sempre presumere il peggio finché non si può escluderlo con certezza. Cosí, anche se ti sbagli, non c’è problema. Se invece ti sbagli nel modo inverso, rischi di ritrovarti con un bambino ucciso.
Ma ero sicuro che Cerny fosse arrivato sulla scena con la telecamera dell’auto di pattuglia già accesa, per registrare tutto ciò che in un secondo momento poteva venire utile. Che avesse già stabilito un perimetro, basandosi su una stima della distanza che poteva aver percorso una bambina di cinque anni nel lasso di tempo in questione. E che avesse inviato altre auto di pattuglia ai bordi del perimetro, per un’esplorazione dall’esterno verso l’interno, perché il concetto non è inseguire, ma contenere.
Era stato lui a diramare la descrizione di Hailey, quella trasmessa nella chiamata a cui io avevo risposto. Appena entrato in contatto con la madre, di sicuro si era fatto dare una foto attuale di Hailey. Uno dei pochi vantaggi dell’èra degli smartphone, che io in generale detesto, è il fatto che la gente tiene le foto dei figli nel telefono. Perciò a Cerny era bastato premere un paio di tasti e l’immagine della bambina era apparsa all’istante sui monitor di tutte le auto di pattuglia della città.
Evidentemente Cerny aveva anche chiesto un elicottero, perché un Bell 407 del dipartimento era già sopra di noi, e il rombo dei rotori faceva sembrare il quartiere una zona di guerra. Ero stato in zone di guerra e non mi piacevano. Ma mi piacevano molto piú dei bambini scomparsi.
Mi avvicinai e mi presentai a Cheryl Hansen.
Doveva avere sui ventidue o ventitre anni. Alle superiori probabilmente era stata una ragazza da urlo, ma da quel periodo sembrava fosse passato un sacco di tempo. Da allora non aveva avuto una vita facile. Lo si vedeva dai cerchi scuri intorno agli occhi, dagli angoli della bocca leggermente piegati all’ingiú. Ogni delusione lascia una traccia nelle pieghe del viso, e quello di Cheryl sembrava averne sopportate piú della media.
Era sul metro e settantadue e si portava addosso qualche chilo di troppo, come un bagaglio inutile di cui non riusciva a disfarsi. Gli occhi erano limpidi, non mostravano segni di droghe o di qualche vodka per riuscire ad arrivare a sera.
Sembrava terrorizzata.
Dissi: – Sono il sergente Decker, un detective della polizia.
Alla parola «detective» lei reagí con un: – Mio Dio.
– È solo una precauzione, – spiegai. – Tutti mi chiamano Deck. Posso chiamarla Cheryl?
Le tesi la mano e la strinse. Niente lividi sulle nocche. Niente gonfiori. Niente segni di morsi. Chiamatemi pure cinico, è un rischio del mestiere. Ma i bambini, e soprattutto le bambine, mordono per difendersi.
Non portava la fede.
– Posso vedere una foto di Hailey? – chiesi.
Lei sollevò il telefono e quella fu la mia prima occhiata a Hailey Hansen.
Proprio una bella bambina.
Pelle color quercia brunita, trecce nere.
Ma erano gli occhi che ti colpivano.
Occhi verdi da gatta, come la madre, con un’espressione straordinaria per una bambina. Fissava l’obiettivo con uno sguardo sicuro, che sembrava dire: «Questa sono io. Che ti piaccia o no, sono cosí». Mi piacque subito, solo guardando quella foto.
– Cheryl, è possibile che Hailey si trovi con il padre? – chiesi. La grande maggioranza dei rapimenti di bambini sono commessi dal «genitore senza diritto di custodia». Speravo fosse cosí anche quella volta. Avevo avuto una dozzina di casi simili, e il bambino era stato ritrovato in poche ore.
– Quando ho detto a Tyson che ero incinta, – rispose lei, – ha tagliato la corda in cinque secondi. Da allora non ho piú avuto sue notizie.
Mi feci dare il nome completo, Tyson Michael Garnett, e chiesi: – Ha fatto richiesta per gli alimenti?
– Cosa c’entra?
Questo suggerí un’altra domanda. – Cheryl, è certa che sia lui il padre?
Non era una bella cosa da chiedere, ma non volevo dare la caccia a Tyson mentre quello che aveva pensato di essere stato derubato del sangue del suo sangue e aveva deciso di passare all’azione era un tizio del tutto diverso.
Con l’occhiata dura che mi meritavo, Cheryl rispose: – Sono andata a letto con un solo nero, se è questo che vuole sapere.
Era quello che volevo sapere, ma mi fece sentire di merda.
– Ha guardato in macchina? – chiesi.
– No, – rispose lei. – La tengo chiusa a chiave e Hailey non mi avrebbe mai preso le chiavi.
Ma non distolse lo sguardo, non esitò, non sembrò stupita.
– Perché non diamo un’occhiata, per sicurezza? – dissi.
Era possibile. I bambini sono affascinati dalle auto dei genitori, e avevo visto frugoletti di otto anni salire a bordo, mettere in moto e avviare la macchina fuori dal vialetto d’ingresso. E sí, avevo anche un secondo fine. Volevo vedere se c’erano tracce di sangue, o se il motore era caldo.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore statunitense rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Don Winslow.