Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Montedidio di Erri De Luca. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 8,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Montedidio: trama del libro
“Chi salirà nel monte di Dio? Chi ha le mani innocenti e il cuore puro.” Un quartiere di vicoli a Napoli: Montedidio. Un ragazzo di tredici anni va a bottega da Mast’Errico, il falegname. E’ l’inizio della sua vita nuova, la vita che a sera, a casa, in una casa vuota per l’assenza del padre e per la malattia della madre, il ragazzo va scrivendo su una bobina di carta avuta in regalo dal tipografo di Montedidio. Ha anche un altro regalo, che porta sempre con sé, un “bùmeran”, un legno nato per volare che il padre ebbe a sua volta da un marinaio di passaggio. Così passano i giorni: Mast’Errico gli insegna il mestiere e Don Rafaniello, uno scarparo che Mast’Errico tiene ospite a bottega, gli insegna a pensare sugli uomini e sulle cose.
Approfondimenti sul libro
In ebook Montedidio (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 4,99 euro.
Finalmente lavoro, anche a pochi soldi, però il sabato porto una paga a casa. È inizio d’estate, la mattina alle sei fa fresco, facciamo colazione noi due e poi metto pur’io la giacca di lavoro, esco insieme a lui, l’accompagno per un poco poi torno indietro, la bottega di mast’ Errico sta nel vicolo sotto al nostro palazzo. Babbo al compleanno mi ha regalato un pezzo di legno curvo, si chiama bumeràn. Lo tengo nella mano, senza chiedere, mi passa un solletico, una piccola scossa di corrente. Babbo spiega che si lancia lontano e quello torna indietro. Mamma è contraria: “Ma addò l’adda ausa’”, dove lo devo usare? Ha ragione, sopra questo quartiere di vicoli che si chiama Montedidio se vuoi sputare in terra non trovi un posto libero tra i piedi. Qui non c’è spazio per stendere un panno. Va bene, dico, non lo posso lanciare però posso provare la mossa di tirarlo. È pesante, pare ferro. Mamma mi regala un paio di calzoni lunghi, li ha presi al mercato di Resina, roba buona, americana. Sono duri, scuri, me li metto e faccio la mossa di aggiustarmeli sul ginocchio. “Mò si’ ommo, puort’ e sorde a casa,” sì, porto la paga il sabato, però da qui a essere uomo, ommo, ce ne manca. Intanto se n’è andata la voce e parlo rauco.
Babbo ha avuto il bumeràn da un marinaio suo amico. Non è una pazziella, un gioco, è l’arnese di un popolo antico. Mentre spiega piglio confidenza con la superficie, struscio la mano sopra, l’accarezzo a verso. Da mast’ Errico imparo le linee del legno, hanno un pelo e un contropelo. Alliscio il bumeràn secondo la sua fuga e quello trema un poco in mano a me. Non è un giocattolo, ma nemmeno un arnese da lavoro, è una cosa di mezzo, è un’arma. La voglio imparare, mi voglio allenare per fare un lancio, stanotte quando mamma e babbo pigliano sonno, suonno. Ho visto che in italiano esistono due parole, sonno e sogno, dove il napoletano ne porta una sola, suonno. Per noi è la stessa cosa.
Ho spazzato il deposito del legno e m’è successo l’assalto delle pulci. Mi hanno attaccato alle gambe, sul lavoro porto i calzoni corti, erano diventate nere. Mast’ Errico mi ha lavato nudo con la pompa davanti alla bottega. Ci siamo fatti un sacco di risate. È buono che è estate. Abbiamo messo la polvere velenosa, nel deposito c’era pure qualche topo, “’o súrece, ’o súrece”, ha strillato il mastro, gli fanno impressione, a me no. Poi ho avuto la paga, mi ha contato i soldi e me li ha dati. La sera comincio a allenarmi col bumeràn. Ho saputo che non viene dall’America, ma dall’Australia. Gli americani sono pieni di cose nuove, i napoletani stanno intorno a loro quando sbarcano per vedere le novità. È arrivato un cerchio di plastica, si chiama ulaòp, ho visto Maria che lo faceva girare intorno ai fianchi senza farlo cadere a terra. Mi ha detto: “Prova”, le ho risposto no, che non mi pare una cosa da maschi. Maria ha fatto tredici anni prima di me, abita all’ultimo piano, è la prima volta che mi parla.
Stringo il bumeràn, sento la scossa. Ho cominciato a fare la mossa del lancio. Lo carico dietro la spalla, lo spingo avanti per lasciarlo andare ma non lo tiro. La spalla è svelta, come Maria nei fianchi. Non posso provare il volo del bumeràn, stiamo troppo stretti in cima a Montedidio. La mano trattiene il legno all’ultimo centimetro e lo riporta indietro. Faccio così avanti e indietro, si scioglie la schiena, sudo, tengo stretta la presa, basta un poco di giro di polso per sfilarlo dalle dita. Dopo un poco vedo che la destra è più grossa della sinistra, cambio mano. Così una parte del corpo raggiunge l’altra, pareggia sveltezza, forza e stanchezza. Gli ultimi lanci fermati hanno più spinta a volare, il polso soffre di più a trattenere, allora smetto.
Non ci volevo stare a scuola, troppo cresciuto per i banchi della quinta elementare. All’ora della merenda certi bambini tiravano fuori dalla cartella i loro dolci, a noi iscritti alla povertà il bidello consegnava il pane con la cotognata. Quando veniva caldo i bambini poveri venivano a scuola coi capelli tagliati a zero, a mellone, per via dei pidocchi, gli altri bambini restavano pettinati. Troppe specialità di differenze, loro poi continuavano a studiare, noi no. Io ripetevo le classi per via delle febbri, poi mi sono passate e non volevo più fare scuola, volevo aiutare, lavorare. Mi basta lo studio che ho fatto, so l’italiano, una lingua quieta che se ne sta buona dentro i libri.
Da quando lavoro e mi alleno col bumeràn mi aumenta l’appetito. Babbo è contento di fare colazione con me, alle sei la prima luce striscia sulla strada e si infila pure dentro i piani bassi, non accendiamo la lampadina. D’estate la luce cammina fresca rasoterra prima di salirsene a fare il forno sopra la città. Metto il pane dentro la tazza di latte scurita col surrogato di caffè. Si è svegliato da solo per tutte le mattine e adesso gli piace che ci sto pur’io, per dire una parola, uscire insieme. Mamma si alza tardi, è spesso debole. A ora di pranzo vado su io ai lavatoi a stendere i panni, poi li ritiro la sera. Non c’ero stato ancora là sopra, sul terrazzo, è alto sopra Montedidio, piglia un po’ di vento la sera. Nessuno mi vede e mi alleno là, il bumeràn all’aria aperta freme, il manico si torce quando lo stringo per non lasciarlo scappare. È legno cresciuto per volare. Mast’ Errico è un bravo falegname, dice che il legno è buono per il fuoco, per l’acqua e per il vino. Io so che è buono pure per volare, ma non lo dico se non lo dice lui. Ho pensato che voglio tirare il bumeràn dai lavatoi, la terrazza più alta di Montedidio.
Stanco di braccia, sudato, mi stendo un poco sul lastrico dove stanno i fili dei panni. Sopra di me non c’è più neanche un pezzo di città, chiudo l’occhio buono, guardo in alto con quello mezzo aperto, il cecatiello. Subito il cielo diventa più scuro, spesso, più vicino, addosso. L’occhio destro è scarso, vede però il cielo meglio di quello buono, che serve per la strada, per guardare in faccia, per fare il mestiere a bottega. L’occhio sinistro è dritto, svelto, capisce al volo, è napoletano. Il destro è lento, non mette a fuoco niente. Invece di nuvole vede i fiocchi sparsi dal materassaio quando per strada sopra un lenzuolo steso pettina e rigira la lana e la scombina a fiocchi.
Torno dai lavatoi, porto i panni nella cesta, nel buio delle scale qualcuno spia il passaggio. Li sento pure nello scuro gli occhi degli altri, perché quando guardano toccano, fanno un poco di corrente d’aria che passa sotto una porta. Mi viene il pensiero che è Maria. Il palazzo è vecchio, per le scale di sera passano gli spiriti. Senza il corpo hanno nostalgia solo delle mani e si buttano addosso alle persone per desiderio di toccare. Con tutta la rincorsa che ci mettono a me arriva uno sfioramento. Ora che è estate si strusciano in faccia, mi asciugano il sudore. Nei palazzi vecchi gli spiriti si trovano bene. Quando qualcuno però dice che li ha visti è bugia, gli spiriti si possono solo toccare, quando vogliono loro.
Mast’ Errico tiene ospite in bottega uno scarparo che si chiama don Rafaniello, io faccio pulizia anche nel suo posto, intorno al bancariello e al mucchio delle scarpe che aggiusta. È venuto a Napoli da qualche pizzo d’Europa dopo la guerra. È salito dritto sopra Montedidio da mast’ Errico e si è messo a sistemare scarpe ai puverielli. Le fa tornare nuove. Lo chiamano Rafaniello perché è rosso di capelli, verde negli occhi, è piccolo e porta una gobba a punta in cima alla schiena. A Napoli come l’hanno visto gli hanno attaccato addosso il nome di ravanello. Così è diventato don Rafaniello. Non sa neanche lui da quanti anni sta al mondo.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Erri De Luca.
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