Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Nel guscio di Ian McEwan. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto) ed è in vendita in eBook al prezzo di euro 6,99.
Nel guscio: trama del libro
La gravidanza di Trudy è quasi a termine, ma l’evento si prospetta tutt’altro che lieto per il suo piccolo ospite. Ad attenderlo nella grande casa di famiglia (e nel letto coniugale) non c’è il legittimo marito di Trudy e suo futuro padre, John Cairncross, poeta povero e sconosciuto, innamorato della moglie e della civiltà delle parole, ma il fratello di lui, il ricco e becero agente immobiliare Claude. Dalla sua posizione ribaltata e cieca, il nascituro gode nondimeno di una prospettiva privilegiata sugli eventi in corso, ed è lui a metterci a parte di una vicenda di lutto e di sospetto dagli echi assai familiari. Certo, la scena non è quella corrotta e claustrofobica del castello di Elsinore. Certo, i due cognati fedifraghi, Trudy e lo zio Claude, non hanno regni nordici cui aspirare. Piuttosto a far gola ai due vogliosi amanti è l’edificio georgiano su Hamilton Terrace, decrepito ma d’inestimabile valore, incautamente ereditato da John, i cui pavimenti luridi e la cui onnipresente immondizia prendono il posto del marcio in Danimarca. Ma amletico è il crimine orrendo che il narratore vede (o meglio sente) arrivare, e amletico è pure il suo inesauribile flusso di pensieri dubitanti, gli stessi che hanno inaugurato al mondo la danza della modernità. Se nel testo shakespeariano l’origliamento, l’atto di spiare e raccogliere informazioni rovistando i recessi e gli anditi del regno, è spesso motore dell’azione, nel guscio l’udito è il senso privilegiato per ragioni fisiologiche, e a essere rovistati a pochissima distanza dal capo dell’inorridito narratore sono spesso e volentieri i recessi e gli anditi del corpo materno. Mentre all’orecchio non sempre affidabile del nostro eroe non-nato si dipana la tragica detective story, nella manciata di giorni che separano il suo «esserci» dal suo protetto «non-esserci» ancora, con il conforto di qualche buon vino giunto fino a lui dalle superbe degustazioni materne, e costantemente edotto sul mondo dai programmi radiofonici di approfondimento culturale che fortunatamente Trudy preferisce a quelli musicali, il nascituro ha tempo di riflettere su di sé, sulla complicata faccenda dell’amore, sul mondo, coi suoi orrori contemporanei e con le sue desiderate meraviglie. Ha tempo e curiosità sufficienti per farsi domande, interpretare i segni della sua realtà mediata, contemplare azioni e concludere che la sua sola salvezza, la salvezza dell’uomo, sta forse nell’esitazione.
Immerso nelle astrazioni, posso contare solo sui loro proliferanti legami a catena per crearmi l’illusione di un mondo noto. Sento dire «azzurro», che non ho mai visto, e immagino un evento mentale non molto lontano da «verde», che a sua volta non ho mai visto. Mi reputo un innocente, dispensato da obblighi di lealtà e doveri, uno spirito libero, a dispetto dell’esiguità del mio spazio vitale. Nessuno che mi contraddica o rimproveri, nessun nome, nessun precedente indirizzo, niente fede religiosa, niente debiti, nessun nemico. Sulla mia agenda, se ne avessi una, sarebbe segnata unicamente la data della mia incipiente nascita. Sono, o ero, checché ne dica la genetica contemporanea, una tabula rasa, una lavagna intatta. Ma di pietra troppo liscia, o troppo porosa, inadatta a qualunque aula scolastica, a qualsiasi tetto di campagna, una tabula che, crescendo, si scrive da sé, facendosi, giorno dopo giorno, un po’ meno rasa. Mi reputo un innocente, ma a quanto pare sono parte di un complotto. Mia madre, che il cielo benedica il suo rumoroso cuore instancabile e pompante, sembra sia coinvolta.
Ho detto sembra, madre? No, è. Sei. Sei coinvolta. Lo so, fin dal principio. A proposito, lascia che lo richiami alla memoria, quel momento di creazione sopraggiunto in concomitanza con il mio pensiero primigenio. Tanto tempo fa, ormai molte settimane orsono, il mio solco neurale si chiuse su se stesso per dare origine al sistema nervoso, e miliardi di giovani neuroni alacri come bachi da seta presero a filare e tessere le proprie diramazioni assoniche nella formidabile tela aurea della mia prima idea, un concetto di tale semplicità che ora in parte mi sfugge. Sarà stato me? Troppo egocentrico. Adesso, forse? No, eccessivamente teatrale. Allora, qualcosa che preceda entrambi i concetti, comprendendoli, una sola parola mediata da un sospiro della mente, un deliquio di accettazione, di pura essenza, qualcosa come… questo? Troppo sofisticato. Dunque, piú probabilmente, la mia idea fu Essere. O, in alternativa, la sua variante grammaticale: è. Eccola, la mia primigenia nozione, ed ecco il punto: è. Tutto qui. In uno spirito analogo a quello dell’Es muss sein. Il principio della vita cosciente coincise con la fine dell’illusione, l’illusione del non-essere, e l’esplosione del reale. Il trionfo del realismo sul magico, di ciò che è su ciò che pare. Mia madre è coinvolta in un complotto e di conseguenza lo sono anch’io, anche se il mio ruolo potrebbe essere quello di sventarlo. Oppure, se dovessi giungere al dunque in ritardo, da quell’allocco esitante che sono, almeno di fare vendetta.
Ma non intendo lagnarmi della mia buona sorte. Ho saputo sin dall’inizio, da quando ho scartato il dono della coscienza dal dorato involucro in cui era avvolta, che sarei potuto venire al mondo in un luogo peggiore e in tempi di gran lunga piú tetri di questi. Lo stato generale delle cose mi è piú che chiaro, e rende, o dovrebbe rendere trascurabili i miei problemi privati. C’è non poco di cui essere lieti. Sto per ereditare una condizione di modernità (igiene, vacanze, anestetici, lampade da tavolo, arance in pieno inverno) e per abitare un angolo privilegiato del pianeta: la ben nutrita, bonificata, occidentale Europa. L’antica leggendaria Europa, decrepita, relativamente garbata, infestata dai propri fantasmi, vulnerabile ai prepotenti, poco sicura di sé, traguardo di milioni di sventurati. La mia residenza prossima ventura non sarà l’opulenta Norvegia, cui era andata la mia prima scelta in considerazione del gigantesco fondo sovrano e di una munifica assistenza pubblica, e nemmeno la seconda opzione, cioè l’Italia, in virtú della cucina regionale e delle rovine baciate dal sole, ma neppure la terza, la Francia, per il suo Pinot Noir e la sua spavalda autostima. Erediterò invece il regno tutt’altro che unito di una stimata anziana regina, un posto nel quale un principe-imprenditore, noto per le sue opere buone, i suoi elisir (olio essenziale di cavolfiore per depurare il sangue) e le sue ingerenze incostituzionali, attende irrequieto il trono. Casa mia sarà questa, e mi andrà bene cosí. Poteva toccarmi di venire al mondo in Corea del Nord, un altro posto dove la successione non si contesta ma la libertà e il cibo scarseggiano.
Come è possibile che io, neppure giovane, neppure nato ieri, sappia già quanto basta per sbagliarmi su tante cose? Beh, ho le mie fonti, io ascolto. Mia madre Trudy, quando non sta insieme al suo amico Claude, ama la radio e predilige i dibattiti alla musica. Chi mai, agli albori della rete, avrebbe potuto presagire l’inarrestabile rinascita della radio, o il recuperato impiego di un termine arcaico come «wireless»? Oltre il chiassoso sciaguattare di stomaco e intestino, sento i notiziari, scaturigine di qualsiasi brutto sogno. Guidato da un autolesionismo implacabile, non mi perdo una sillaba di qualunque indagine e qualunque polemica. Le repliche orarie e i sommari ogni trenta minuti non mi annoiano mai. Sopporto perfino le notizie dal mondo della Bbc, con quei puerili squilli di tromba e trilli di xilofono sintetici fra un servizio e l’altro. A metà di una lunga nottata tranquilla, a volte assesto a mia madre un calcione violento. Lei si sveglia, non riesce piú a prendere sonno, e allora accende la radio. Uno scherzo crudele, lo so, ma la mattina siamo tutti e due piú informati.
A lei piace anche ascoltare qualche lezione in podcast, qualche istruttivo audiolibro: Conoscere i vini, in quindici capitoli, biografie di drammaturghi secenteschi, vari classici da tutto il mondo. L’Ulisse di Joyce la insonnolisce, e in compenso elettrizza me. Quando, agli albori del tutto, si infilava le cuffie, io sentivo benissimo, grazie al perfetto e rapido propagarsi delle onde sonore attraverso l’osso mandibolare e la clavicola, giú per la struttura ossea, fino al mio nutriente liquido amniotico. Perfino la televisione propaga per via sonora quel poco di buono che può offrire. Inoltre, quando Claude e mia madre s’incontrano, succede che parlino dello stato in cui versa il mondo, di norma per lamentarsene pur complottando per peggiorarlo. Dalla mia postazione, senza altro impegno che quello di far crescere il corpo e la mente, io assorbo tutto, banalità comprese, e non sono poche.
Già, perché Claude è il tipo che adora ripetersi. Un tipo da riff. Presentandosi a uno sconosciuto, l’ho sentito non una ma due volte dire: «Claude, come Debussy». Quanto si sbaglia. Qui parliamo di Claude, come Claude, l’agente immobiliare che non compone e non inventa niente. Si innamora di un pensiero, lo esterna ad alta voce, piú tardi gli torna in mente e lui – perché no? – lo dice di nuovo. Far vibrare l’aria una seconda volta con quello stesso pensiero è parte integrante del suo piacere. Lui sa che tu sai che si sta ripetendo. Quello che non può sapere è che, a differenza di lui, tu non godi. L’ho imparato ascoltando una Reith Lecture su Radio 4: si tratta di un problema di riferimento.
Ecco un esempio sia di come comunica Claude, sia di come io incamero informazioni. Lui e mia madre avevano programmato al telefono (mi è dato di sentire entrambi) un incontro serale. Una cena a lume di candela per due, al netto di me, come tendono a fare. Come so delle candele? Perché quando arriva il momento e qualcuno li accompagna a sedere, sento mia madre che si lamenta. Hanno acceso le candele su tutti i tavoli, tranne il nostro.
Seguono, nell’ordine, il sussulto irritato di Claude, un secco, imperativo schiocco delle dita, il mormorio garbato e ossequioso di un cameriere semiprostrato, il raschio di un accendino. Fatto, cena a lume di candela. Manca giusto da mangiare. Ma hanno già in grembo il ponderoso menu, sento il bordo di quello di Trudy poggiarmi sul fondoschiena. Ora mi tocca riascoltare il repertorio di Claude sul frasario da menu, come se fosse il primo individuo al mondo a notare tali insignificanti assurdità. Si sofferma su «saltato in olio d’oliva». Che cosa si vuole promettere con quel «saltato», se non l’ingannevole endorsement del piú grossolano e malsano «fritto»? Come si pensa di far saltare delle scaloppe al lime e peperoncino? A tempo di musica? Prima di proseguire, declina nuovamente il concetto variando l’accento dell’enfasi. Poi, ecco, procede al suo argomento secondo in classifica, un prestito americano, «macinatura a mano». Recito in silenzio la sua tirata senza neanche aspettare che incominci, quando una lieve inclinazione della verticalità del mio stato mi dice che mia madre si è piegata in avanti per posargli sul polso con censoria dolcezza un dito e distrarlo dicendo: – Scegli il vino, amore. Qualcosa di ottimo.
Mi piace godermi un bicchiere insieme a mia madre. Può darsi che non vi sia mai successo, o magari avete dimenticato l’esperienza di un buon borgogna (un suo favorito) o un buon Sancerre (altro favorito) decantato da una placenta in buona salute. Prima ancora che il vino arrivi – stasera, un Sancerre Jean-Max Roger –, al solo rumore del tappo sturato mi sento in faccia come una carezza, il soffio di una brezza estiva. So che l’alcol mi abbasserà il quoziente di intelligenza. Lo fa a tutti. Ma, oh, un verecondo Pinot Noir allegro, o un sauvignon profumato d’uva spina hanno il potere di farmi piroettare e ruzzolare nel mio mare segreto, mulinando dalle pareti elastiche della fortezza che è casa mia. O perlomeno ci riuscivano quando avevo piú spazio. Attualmente consumo i miei piaceri da fermo e, in capo al secondo bicchiere, le riflessioni mi sbocciano in testa con quella licenza che chiamiamo poetica. I pensieri mi si srotolano in pentametri originali che alternano gradevolmente versi di senso compiuto a enjambement. Lei però un terzo bicchiere non se lo concede mai, e questo mi fa male.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore inglese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Ian McEwan.
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