Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Non è stagione di Antonio Manzini. Il romanzo è pubblicato in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Non è stagione: trama del libro
C’è un’azione parallela, in questa inchiesta del vicequestore Rocco Schiavone, che affianca la storia principale. È perché il passato dell’ispido poliziotto è segnato da una zona oscura e si ripresenta a ogni richiamo. Come un debito non riscattato. Come una ferita condannata a riaprirsi. E anche quando un’indagine che lo accora gli fa sentire il palpito di una vita salvata, da quel fondo mai scandagliato c’è uno spettro che spunta a ricordargli che a Rocco Schiavone la vita non può sorridere. I Berguet, ricca famiglia di industriali valdostani, hanno un segreto, Rocco Schiavone lo intuisce per caso. Gli sembra di avvertire nei precordi un grido disperato. È scomparsa Chiara Berguet, figlia di famiglia, studentessa molto popolare tra i coetanei. Inizia così per il vicequestore una partita giocata su più tavoli: scoprire cosa si cela dietro la facciata irreprensibile di un ambiente privilegiato, sfidare il tempo in una corsa per la vita, illuminare l’area grigia dove il racket e gli affari si incontrano. Intanto cade la neve ad Aosta, ed è maggio: un fuori stagione che nutre il malumore di Rocco. E come venuta da quell’umor nero, un’ombra lo insegue per colpirlo dove è più doloroso.
In ebook Non è stagione (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 9,99 euro.
«Viene a piovere» disse l’italiano al volante.
«Allora va’ più piano» rispose quello con l’accento straniero.
Prima il tuono poi la pioggia, che arrivò come una secchiata sul parabrezza. L’italiano azionò i tergicristalli, senza però diminuire la velocità. Si limitò a mettere gli abbaglianti.
«Si bagna asfalto e strada diventa sapone» disse lo straniero prendendo il cellulare dalla tasca del giubbotto.
Ma l’italiano non rallentò.
Lo straniero spiegò un fogliettino e cominciò a digitare un numero.
«Ma perché non ti metti i numeri in rubrica? Come fanno tutti?».
«Non c’è rubrica. Tutta piena. E fatti cazzi tuoi» rispose digitando il numero. Il furgone prese una buca e i due sobbalzarono.
«Ora vomito!» disse l’uomo con l’accento straniero mettendosi il telefono all’orecchio.
«Chi chiami?».
Ma quello non rispose. Sentì un «Pronto… ma chi è?» assonnato nella cornetta. Fece una smorfia e chiuse la telefonata. «Sbagliato» mormorò premendo nervosamente i tasti del vecchio telefonino sporco di vernice. Finita l’operazione rimise in tasca il cellulare e guardò fuori dal finestrino. La strada era piena di curve, e i segnali bianchi e neri che avvertivano l’arrivo di un tornante apparivano solo all’ultimo momento. Il motore sbiellato e la marmitta bucata suonavano come ferraglie lasciate cadere da una rampa di scale. Nel retro la cassetta degli attrezzi continuava a scivolare da un lato all’altro seguendo il beccheggio del furgone.
«È cominciato il diluvio universale, amico mio!».
«Non sono amico tuo» rispose lo straniero.
Anche sotto gli abbaglianti, la strada Saint-Vincent-Aosta era invisibile. E l’italiano continuava a scalare la marcia, a grattare e a premere l’acceleratore.
«Perché non rallenti?».
«Perché tra un po’ arriva l’alba. E all’alba io voglio stare a casa! Fumati una sigaretta e non rompermi le palle, Slawomir».
Lo straniero si grattò la barba. «Non mi chiamo Slawomir, colione, Slawomir è nome polacco, e io non sono polacco».
«Polacco, serbo, bulgaro… per me siete tutti uguali».
«Sei uno stronzo».
«Perché, non è così? Tutta gente di merda siete. Ladri e zingari». Poi aggiunse: «Ti fanno paura i tornanti?» e rise fra i denti. «Eh zingaro? Ti fanno paura?».
«No, mi fa paura che tu non guidi bene. E io non sono zingaro».
«Che, ti sei arrabbiato? Ma che male c’è se sei zingaro? Non ti devi vergogna…».
Uno scoppio improvviso lo interruppe. Il furgone si piegò di lato.
«Cazzo!». Provò a controsterzare.
Lo straniero urlò, urlò l’italiano e urlarono anche i tre pneumatici superstiti. Almeno fino a quando anche una seconda gomma esplose e il furgone fece un balzo in avanti. Sfondò una recinzione di legno, abbatté il palo del limite di velocità e fermò la corsa contro due larici ai lati della carreggiata. Il parabrezza esplose, i tergicristalli si piegarono, il motore si spense.
Lo straniero e l’italiano stavano fermi, con lo sguardo vitreo fisso su un punto lontano mentre il sangue usciva dalle bocche e dalle orbite degli occhi. Il collo spezzato, informi come due marionette abbandonate. Un altro lampo e il flash fissò l’istantanea delle due facce spente con le pupille di ghiaccio.
La pioggia insisteva con il suo ritmo forsennato sulla lamiera del tettuccio. Il furgone schiantato coi fari ancora accesi scricchiolava in equilibrio precario sulle radici che spuntavano dalla terra. Ebbe un ultimo sussulto assestandosi sul terreno e facendo rimbalzare sul sedile i corpi senza vita dei due uomini.
Erano passati tre secondi dal primo pneumatico esploso a quando il furgone s’era spalmato contro i tronchi d’albero.
Tre secondi. Niente. Un sospiro.
Tre secondi ci impiegò Rocco Schiavone a capire dove si trovava. Un tempo infinito.
Aveva aperto gli occhi senza riconoscere le pareti, le porte e l’odore di casa sua.
Dove sono? si chiedeva, mentre il suo sguardo assonnato circumnavigava lo spazio intorno. La penombra della stanza non aiutava. Era in un letto non suo in una camera non sua in una casa non sua. E molto probabilmente anche il palazzo non era il suo. Sperava almeno che la città fosse la stessa di ieri, quella dove risiedeva da tempo, dove espiava il suo errore da ormai nove mesi: Aosta.
A rimettere insieme i pezzi lo aiutò vedere il corpo di donna proprio lì accanto. Dormiva tranquilla. I capelli neri e sciolti sul cuscino. Gli occhi chiusi tremavano un po’ dietro le palpebre. Apriva leggermente le labbra e sembrava stesse baciando qualcuno nel sonno. Una gamba scoperta, il piede penzolava fuori dal materasso.
S’era addormentato a casa di Anna! Cosa gli stava succedendo? Errore! Primo passo sbagliato, rischio tangibile di assuefarsi a un’abitudine! Il pericolo di un’integrazione non cercata con quella città e i suoi abitanti lo spaventò fino alla radice dei capelli e lo fece sedere di scatto sul materasso. Si stropicciò la faccia.
No, non è possibile, pensò. Da nove mesi non aveva mai dormito fuori casa. Si comincia così, lo sapeva… e poi era un attimo. Si passava a frequentare i caffè, a fare amicizia con il fruttivendolo e il tabaccaio, addirittura col giornalaio, per arrivare alla fatidica frase del barista: «Dottore, il solito?» ed eri fregato. Diventavi automaticamente un cittadino di Aosta.
Poggiò i piedi sul pavimento. Caldo. Peloso. Moquette. Si tirò su e nella penombra di un’alba livida come la pancia di un pesce si avventurò verso una sedia che abbracciava un mucchio di vestiti, i suoi. Un colpo secco fra le dita dei piedi gli illuminò il cervello, poi un fulmine di dolore lo avvolse.
Muto si rigettò sul letto tenendosi il piede sinistro che aveva colpito uno spigolo. Rocco lo sapeva, era uno di quei dolori bestiali e selvaggi che grazie a Dio hanno la prerogativa di durare poco. Bastava stringere i denti per qualche secondo e passava tutto. Bestemmiò in silenzio, non voleva svegliare la donna. Non perché rispettasse il suo sonno, semplicemente avrebbe dovuto affrontare una discussione e non aveva voglia né tempo. Lei triturò qualche parola misteriosa fra le labbra, poi si girò per continuare a dormire. Il dolore al piede, acuto e impietoso, se ne stava andando, era già solo un ricordo. Ormai sveglio, il vicequestore si mise le mani sul viso e i fotogrammi della serata gli passarono davanti neanche gli occhi si fossero tramutati in un dia proiettore.
Incontro casuale con Anna, l’amica di Nora Tardioli, la sua ormai ex fidanzata, al Caffè Centrale. I soliti sorrisi di lei, i soliti sguardi felini, gli occhi all’insù, da gatta assassina, la solita mise da dark lady di provincia. Il bicchiere di vino. Le chiacchiere.
«Guarda, Rocco, che Nora aspetta che tu prima o poi la chiami!».
«Guarda che io Nora non la chiamo più».
«Guarda che non vi siete più parlati dal giorno del suo compleanno».
«Guarda che è una cosa che faccio scientemente».
«Guarda, Rocco, che lei ci tiene a te».
«Guarda che Nora sta con l’architetto Pietro Bucci-qualcosa».
Risata di Anna. Risata roca, graffiante, di scherno, con conseguente arrapo di Rocco.
«Guarda che ti sbagli. Pietro Bucci Rivolta è una cosa mia».
Anna che si indica il petto facendo tintinnare la collana d’argento sul suo décolleté.
«Ma perché ti interessi tanto a me e Nora?».
«La fai soffrire».
«Non posso fare di più. Evidentemente non sono quello di cui lei ha bisogno».
«Perché, tu sai di cosa ha bisogno Nora? Non è molto, Rocco. Nora non chiede tanto. Le cose basilari a lei bastano».
Anna che ordina altri due bicchieri di vino.
Poi altri due.
«Andiamo?».
La strada. Poche luci. Il portone di Anna, non lontano da quello di Rocco.
«Io abito qui vicino».
«E allora rientri a casa presto».
Anna che sorride coi suoi occhi neri e lucidi. Sempre all’insù. Sempre da gatta assassina.
«Proprio non ti piaccio, eh, Anna?».
«No. Proprio no. Oddio, fisicamente non sei neanche da buttare via. Il naso a punta, gli occhi penetranti da finto maschio latino, sei alto, hai un bel paio di spalle e hai tanti capelli. Ma vedi? Io con uno come te non ci salirei neanche su una funivia per raggiungere le piste da sci. Aspetterei quella dopo».
«È un rischio che non corri. Io non scio. Ci vediamo in giro».
«Chissà… magari no».
Si lancia su Anna. La bacia. Lei lo lascia fare. E con la mano dietro la schiena apre il portone.
Salgono.
Scopano. Quarantacinque minuti, forse cinquanta. E per Rocco è un risultato da consegnare agli annali.
Il seno di Anna. I suoi capelli sciolti e neri. Le gambe muscolose.
«Faccio pilates».
Le braccia tornite.
«Sempre pilates».
Sfatti e sudati buttati sul letto.
«Ragazza, io non ho più l’età».
«Neanche io».
«E il pilates?».
«Non basta».
«Sei molto bella».
«Tu no».
Ridono.
«Acqua?».
«Acqua».
Lei che si alza. Le chiappe solide. Lui che pensa: pilates pure quelle. Va in cucina. Lo capisce perché sente il rumore del frigo. Torna a letto.
«La prossima volta mi leghi?».
«Ti ammanetto, semmai. È il mio mestiere».
Rocco che s’attacca alla bottiglia di minerale. Lei che gli mostra i suoi quadri appesi ovunque in casa. Fiori e paesaggi. Che dipinge lei, per riempire infiniti pomeriggi di noia. Lui si addormenta come un bambino mentre lei gli mostra una marina toscana.
Veloce si rivestì. Calzini, pantaloni, camicia, le Clarks, la giacca e con passo felpato lasciò la camera da letto e la casa di Anna.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore romano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Antonio Manzini.
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