Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Oceano mare di Alessandro Baricco, romanzo edito in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 9,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99.
Oceano mare: trama del libro
Oceano mare racconta del naufragio di una fregata della marina francese, molto tempo fa, in un oceano. Gli uomini a bordo cercheranno di salvarsi su una zattera. Sul mare si incontreranno le vicende di strani personaggi. Come il professore Bartleboom che cerca di stabilire dove finisce il mare, o il pittore Plasson che dipinge solo con acqua marina, e tanti altri individui in cerca di sé, sospesi sul bordo dell’oceano, col destino segnato dal mare. E sul mare si affaccia anche la locanda Almayer, dove le tante storie confluiscono. Usando il mare come metafora esistenziale, Baricco narra dei suoi surreali personaggi, spaziando in vari registri stilistici, con una scrittura suggestiva, immaginifica e musicale.
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Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare – nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord.
La spiaggia. E il mare.
Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità – verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia, impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.
Il cavalletto è ancorato con corde sottili a quattro sassi posati nella sabbia. Oscilla impercettibilmente al vento che sempre soffia da nord. L’uomo porta alti stivali e una grande giacca da pescatore. Sta in piedi, di fronte al mare, rigirando tra le dita un pennello sottile. Sul cavalletto, una tela.
È come una sentinella – questo bisogna capirlo – in piedi a difendere quella porzione di mondo dall’invasione silenziosa della perfezione, piccola incrinatura che sgretola quella spettacolare scenografia dell’essere. Giacché sempre è così, basta il barlume di un uomo a ferire il riposo di ciò che sarebbe a un attimo dal diventare verità e invece immediatamente torna ad essere attesa e domanda, per il semplice e infinito potere di quell’uomo che è feritoia e spiraglio, porta piccola da cui rientrano storie a fiumi e l’immane repertorio di ciò che potrebbe essere, squarcio infinito, ferita meravigliosa, sentiero di passi a migliaia dove nulla più potrà essere vero ma tutto sarà – proprio come sono i passi di quella donna che avvolta in un mantello viola, il capo coperto, misura lentamente la spiaggia, costeggiando la risacca del mare, e riga da destra a sinistra l’ormai perduta perfezione del grande quadro consumando la distanza che la divide dall’uomo e dal suo cavalletto fino a giungere a qualche passo da lui, e poi proprio accanto a lui, dove diventa un nulla fermarsi – e, tacendo, guardare.
L’uomo non si volta neppure. Continua a fissare il mare. Silenzio. Di tanto in tanto intinge il pennello in una tazza di rame e abbozza sulla tela pochi tratti leggeri. Le setole del pennello lasciano dietro di sé l’ombra di una pallidissima oscurità che il vento immediatamente asciuga riportando a galla il bianco di prima. Acqua. Nella tazza di rame c’è solo acqua. E sulla tela, niente. Niente che si possa vedere.
Soffia come sempre il vento da nord e la donna si stringe nel suo mantello viola.
– Plasson, sono giorni e giorni che lavorate quaggiù. Cosa vi portate in giro a fare tutti quei colori se non avete il coraggio di usarli?
Questo sembra risvegliarlo. Questo l’ha colpito. Si gira a osservare il volto della donna. E quando parla non è per rispondere.
– Vi prego, non muovetevi – dice.
Poi avvicina il pennello al volto della donna, esita un attimo, lo appoggia sulle sue labbra e lentamente lo fa scorrere da un angolo all’altro della bocca. Le setole si tingono di rosso carminio. Lui le guarda, le immerge appena nell’acqua, e rialza lo sguardo verso il mare. Sulle labbra della donna rimane l’ombra di un sapore che la costringe a pensare “acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare” – ed è un pensiero che dà i brividi.
Lei si è già voltata da tempo, e già sta rimisurando l’immensa spiaggia con il matematico rosario dei suoi passi, quando il vento passa sulla tela ad asciugare uno sbuffo di luce rosea, nudo a galleggiare nel bianco. Si potrebbe stare ore a guardare quel mare, e quel cielo, e tutto quanto, ma non si potrebbe trovare nulla di quel colore. Nulla che si possa vedere.
La marea, da quelle parti, sale prima che arrivi il buio. Poco prima. L’acqua circonda l’uomo e il suo cavalletto, se li piglia, adagio ma con precisione, restano lì, l’uno e l’altro, impassibili, come un’isola in miniatura, o un relitto a due teste.
Plasson, il pittore.
Viene a prenderselo, ogni sera, una barchetta, poco prima del tramonto, che l’acqua gli è già arrivata al cuore. È così che vuole, lui. Sale sulla barchetta, ci carica il cavalletto e tutto, e si lascia riportare a casa.
La sentinella se ne va. Il suo dovere è finito. Scampato pericolo. Si spegne nel tramonto l’icona che ancora una volta non è riuscita a diventare sacra. Tutto per quell’ometto e i suoi pennelli. E ora che se n’è andato, non c’è più tempo. Il buio sospende tutto. Non c’è nulla che possa, nel buio, diventare vero.
2
… solo di rado, e in un modo che taluni, in quei momenti, nel vederla, si udivano dire, a bassa voce
– Ne morirà
oppure
– Ne morirà
o anche
– Ne morirà
e perfino
– Ne morirà.
Tutt’intorno, colline.
La mia terra, pensava il barone di Carewall.
Non è proprio una malattia, potrebbe esserlo, ma è qualcosa di meno, se ha un nome dev’essere leggerissimo, lo dici e già è sparito.
– Quand’era bambina un giorno arriva un mendicante e comincia a cantare una nenia, la nenia spaventa un merlo che si alza…
– … spaventa una tortora che si alza ed è il frullare delle ali…
– … le ali che frullano, un rumore da niente…
– … sarà stato dieci anni fa…
– … passa la tortora davanti alla sua finestra, un attimo, così, e lei alza gli occhi dai giochi e io non so, aveva addosso il terrore, ma un terrore bianco, voglio dire non era come uno che ha paura, era come uno che stesse per scomparire…
– … il frullare delle ali…
– … uno che gli scappava l’anima…
– … mi credi?
Credevano che sarebbe cresciuta e tutto sarebbe passato. Ma intanto per tutto il palazzo stendevano tappeti perché, è ovvio, i suoi stessi passi la spaventavano, tappeti bianchi, dappertutto, un colore che non facesse del male, passi senza rumore e colori ciechi. Nel parco, i sentieri erano circolari con la sola eccezione ardita di un paio di viali che serpeggiavano inanellando morbide curve regolari – salmi – e questo è più ragionevole, in effetti basta un po’ di sensibilità per capire che qualsiasi angolo cieco è un agguato possibile, e due strade che si incrociano una violenza geometrica e perfetta, sufficiente a spaventare chiunque sia seriamente in possesso di una vera sensibilità e tanto più lei, che non possedeva propriamente un animo sensibile ma, per dirla con termini esatti, era posseduta da una sensibilità d’animo incontrollabile, esplosa per sempre in chissà quale momento della sua vita segreta – vita da nulla, piccola com’era – e poi risalita al cuore per vie invisibili, e agli occhi, e alle mani e a tutto, come una malattia, che una malattia non era, ma qualcosa di meno, se ha un nome dev’essere leggerissimo, lo dici e già è sparito.
Per cui, nel parco, i sentieri erano circolari.
Né bisogna dimenticare la storia di Edel Trut, che in tutto il Paese non aveva rivali nel tessere la seta e per ciò fu chiamato dal barone, un giorno d’inverno, che la neve era alta come bambini, un freddo dell’altro mondo, arrivare fin là fu un inferno, il cavallo fumava, le zampe a casaccio nella neve, e la slitta dietro a scarrocciare, se non arrivo entro dieci minuti forse muoio, come è vero che mi chiamo Edel, muoio, e per giunta senza nemmeno sapere cosa diavolo deve farmi vedere il barone di così importante…
– Cosa vedi, Edel?
Nella camera della figlia, il barone sta in piedi di fronte alla parete lunga, senza finestre, e parla piano, con una dolcezza antica.
– Cosa vedi?
Tessuto di Borgogna, roba di qualità, e paesaggi come tanti, un lavoro fatto bene.
– Non sono paesaggi qualunque, Edel. O almeno, non lo sono per mia figlia.
Sua figlia.
È una specie di mistero, ma bisogna cercare di capire, lavorando di fantasia, e dimenticare quel che si sa in modo che l’immaginazione possa vagabondare libera, correndo lontana dentro le cose fino a vedere come l’anima non è sempre diamante ma alle volte velo di seta – questo posso capirlo – immagina un velo di seta trasparente, qualunque cosa potrebbe stracciarlo, anche uno sguardo, e pensa alla mano che lo prende – una mano di donna – sì – si muove lentamente e lo stringe tra le dita, ma stringere è già troppo, lo solleva come se non fosse una mano ma un colpo di vento e lo chiude tra le dita come se non fossero dita ma… – come se non fossero dita ma pensieri. Così. Questa stanza è quella mano, e mia figlia è un velo di seta.
Sì, ho capito.
– Non voglio cascate, Edel, ma la pace di un lago, non voglio querce ma betulle, e quelle montagne in fondo devono diventare colline, e il giorno un tramonto, il vento una brezza, le città paesi, i castelli giardini. E se proprio ci devono esser dei falchi, che almeno volino, e lontano.
Sì, ho capito. C’è solo una cosa: e gli uomini?
Il barone tace. Osserva tutti i personaggi dell’enorme tappezzeria, uno ad uno, come a sentire il loro parere. Passa da una parete all’altra, ma nessuno parla. C’era da aspettarselo.
– Edel, c’è un modo di fare degli uomini che non facciano del male?
Se la deve essere chiesta anche Dio, questa, al momento buono.
– Non so. Ma ci proverò.
Nella bottega di Edel Trut lavorarono dei mesi con i chilometri di filo di seta che il barone fece arrivare. Lavoravano in silenzio perché, diceva Edel, il silenzio doveva entrare nella trama del tessuto. Era un filo come gli altri, solo che non lo vedevi, ma lui c’era. Così lavoravano in silenzio.
Mesi.
Poi un giorno un carro arrivò al palazzo del barone, e sul carro c’era il capolavoro di Edel. Tre enormi rotoli di stoffa che pesavano come croci in processione. Li portarono su per la scalinata e poi lungo i corridoi e di porta in porta fino al cuore del palazzo, nella stanza che li aspettava. Fu un attimo prima che li srotolassero che il barone mormorò
– E gli uomini?
Edel sorrise.
– Se proprio ci devono essere degli uomini, che almeno volino, e lontano.
Il barone scelse la luce del tramonto per prendere sua figlia per mano e portarla nella sua nuova stanza. Edel dice che lei entrò e subito arrossì, di meraviglia, e il barone per un istante temette che la sorpresa potesse essere troppo forte, ma non fu che un istante, perché subito si fece udire l’irresistibile silenzio di quel mondo di seta dove una terra clemente riposava lietissima e piccoli uomini, sospesi nell’aria, misuravano a passo lento l’azzurro pallido del cielo.
Edel dice – e questo non potrà dimenticarlo – che lei si guardò a lungo intorno e poi voltandosi – sorrise.
Si chiamava Elisewin.
Aveva una voce bellissima – velluto – e quando camminava sembrava scivolasse nell’aria, che non potevi smettere di guardarla. Ogni tanto, senza ragione, le piaceva mettersi a correre, lungo i corridoi, incontro a chissà cosa, su quei tremendi tappeti bianchi, smetteva di essere l’ombra che era e correva, ma solo di rado, e in un modo che taluni, in quei momenti, nel vederla, si udivano dire, a bassa voce…
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore torinese rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata ad Alessandro Baricco.
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