Corredata da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’odore della notte di Andrea Camilleri, romanzo edito in Italia da Sellerio con un prezzo di copertina di 10,00 euro (ma acquistabile online con il 15% di sconto).
Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 6,99 ed è il sesto tra i volumi dedicati al commissario Montalbano.
L’odore della notte: trama del libro
A Vigàta è tornato l’inverno. E il commissario Montalbano non è più un ragazzino. Lo si avverte perché i segni lasciati da tutte le inchieste passate riaffiorano qua e là, con i colori della nostalgia, a ogni passo di quest’ultimo caso. Un caso anomalo in cui il cadavere non spunta all’inizio, e Montalbano non ne è proprio il titolare, ma vi si intrufola. Troppe coincidenze lo spingono. Scava nella scomparsa di un finanziere truffatore, che si è portato via i soldi di mezzo paese e dintorni, e poi del suo aiutante. E la soluzione sarebbe una fuga banale, col malloppo sottratto ai molti polli dell’epoca della borsa, connessa a un omicidio, se assai più carica di dolente orrore non si profilasse una soluzione laterale.
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Rimettendosi corcato, Montalbano si concesse un’elegia alle scomparse mezze stagioni. Dove erano andate a finire? Travolte anch’esse dal ritmo sempre più veloce dell’esistenza dell’omo, si erano macari loro adeguate: avevano capito di rappresentare una pausa ed erano scomparse, perché oggi come oggi nisciuna pausa può essere concessa in questa sempre più delirante corsa che si nutre di verbi all’infinito: nascere, mangiare, studiare, scopare, produrre, zappingare, accattare, vendere, cacare e morire. Verbi all’infinito però dalla durata di un nanosecondo, un vìdiri e svìdiri. Ma non c’era stato un tempo nel quale esistevano altri verbi? Pensare, meditare, ascoltare e, perché no?, bighellonare, sonnecchiare, divagare? Quasi con le lagrime agli occhi, Montalbano s’arricordò degli abiti di mezza stagione e dello spolverino di suo padre. E questo gli fece macari venire in testa che, per andare in ufficio, avrebbe dovuto mettersi un vistito d’inverno. Si fece forza, si susì e raprì l’anta dell’armuar dove c’era la roba pesante. Il feto di un quintale o quasi di naftalina l’assugliò alla sprovista. Prima gli mancò il sciato, poi gli occhi gli lagrimiarono e quindi principiò a stranutare. Di stranuti ne fece dodici a fila, col moccaro che gli colava dal naso, la testa intronata e sintendosi sempre più indolenzire la cassa toracica. Si era scordato che la cammarera Adelina da sempre conduceva una sua personale guerra senza esclusione di colpi contro le tarme, uscendone sempre implacabilmente sconfitta. Il commissario ci arrinunciò. Richiuse l’anta e andò a pigliare un pullover pesante dal
settimanile. Macari qui Adelina aveva usato i gas asfissianti, ma Montalbano stavolta sapeva come stavano le cose e si parò tenendo il sciato. Andò sulla verandina ed espose sul tavolino il pullover per fargli svaporare all’aria aperta tanticchia di feto. Quando, dopo essersi lavato, sbarbato e vestito, tornò nella verandina per metterselo, il pullover non c’era più. Proprio quello novo novo che gli aveva portato Livia da Londra! E ora come faceva a spiegare a quella che qualche figlio di troia di passaggio non aveva resistito alla tentazione, aveva allungato una mano e vi saluto e sono? Si rappresentò paro paro come si sarebbe svolto il dialogo con la sua zita.
«Figurarsi! Era prevedibilissimo!».
«Ma perché, scusa?».
«Perché te l’ho regalato io!».
«E che c’entra?».
«C’entra sì! Eccome se c’entra! Tu non dai mai nessuna importanza a quello che ti regalo! Per esempio, la camicia che ti portai da…».
«Quella ce l’ho ancora».
«Sfido che ce l’hai ancora, non l’hai mai messa! E poi: il famoso commissario Montalbano che si lascia derubare da un ladruncolo! Roba da nascondersi sottoterra!».
E in quel momento lo vide, il pullover. Trascinato via dalla tramontana, s’arrotoliava sulla rena e arrotoliandosi arrotoliandosi sempre più s’avvicinava al punto dove la sabbia s’assuppava d’acqua a ogni ondata.
Montalbano saltò la ringhiera, corse, la rena gli riempì quasette e scarpe, arrivò appena a tempo ad agguantare il pullover sottraendolo a un’onda arraggiata che pareva particolarmente affamata di quel capo di vestiario.
Mentre tornava, mezzo accecato dalla rena che il vento gli infilava negli occhi, dovette rassegnarsi al fatto che il pullover si era arridotto un ammasso di lana informe e vagnatizza. Appena trasuto, il telefono squillò.
«Ciao, amore. Come stai? Ti volevo dire che oggi non sarò in casa. Me ne vado in spiaggia con un’amica».
«Non vai in ufficio?».
«Da noi è festivo, il patrono».
«Lì il tempo è buono?».
«Una meraviglia».
«Beh, divertiti. A stasera».
Macari questa ci voleva a conzargli bona la giornata! Lui che trimava di friddo e Livia che sinni stava biatamente stinnicchiata al sole! Ecco un’altra prova che il mondo non firriava più come prima. Ora al nord si moriva di càvudo e al sud arrivavano le gelate, gli orsi, i pinguini.
Si stava preparando a raprire l’armuar in apnea quando il telefono sonò di nuovo. Restò tanticchia esitante, poi l’idea dello sconcerto di stomaco che gli
avrebbe provocato il feto della naftalina lo fece pirsuaso a sollevare la cornetta.
«Pronto?».
«Ah dottori dottori!» fece la voce straziata e ansimante di Catarella. «Vossia di pirsona pirsonalmente è?».
«No».
«Allura chi è col quale sto per parlando?».
«Sono Arturo, fratello gemello del commissario».
Perché aveva principiato a fare lo stronzo con quel povirazzo? Forse per sfogare tanticchia di umore malo?
«Davero?» disse Catarella ammaravigliato. «Mi scusasse, signori gimello Arturo, ma se il dottori è come qualmenti in casa, ci lo dici che ho di bisogno di parlaricci?».
Montalbano lasciò passare qualche secondo. Forse la facenna che aveva sul momento inventata gli poteva tornare comoda in qualche altra occasione. Scrisse su un foglio «mio fratello gemello si chiama Arturo» e rispose a Catarella.
«Eccomi, che c’è?».
«Ah dottori dottori! Un quarintotto sta capitandosi! Vossia l’acconosce il loco indovi che ci teneva il suo officio il ragionieri Gragano?».
«Vuoi dire Gargano?».
«Sì. Pirchì, come dissi? Gragano dissi».
«Lascia perdere, lo so dov’è. Embè?».
«Embè che ci trasì uno armato di revorbaro. Se ne accorsi Fazio che putacaso stava passando pi caso. Pare che ha ’ntinzioni di sparari all’impiecata. Dice accussì che voli narrè i soldi che Gragano gli arrubbò, vasannò ammazza la fìmmina».
Gettò a terra il pullover, con un cavucio lo spostò sotto il tavolo, raprì la porta di casa. Il tempo di trasire in macchina fu bastevole perché la tramontana l’assintomasse.
Il ragioniere Emanuele Gargano, quarantenne alto, elegante, bello che pareva l’eroe di una pillicola miricana, sempre cotto dal sole al punto giusto, apparteneva a quella razza di corta vita aziendale che era detta dei manager rampanti, corta vita in quanto a cinquant’anni erano già accussì usurati da doversi rottamare, tanto per usare un verbo che a loro piaceva assà. Il ragioniere Gargano, a suo dire, era nato in Sicilia ma aveva a lungo travagliato a Milano dove, in breve e sempre a suo dire, si era fatto conoscere come una specie di mago della speculazione finanziaria. Poi, stimando di avere acquistato la fama necessaria, aveva addeciso di mettersi in proprio a Bologna dove, siamo ancora a suo dire, aveva fatto la fortuna e la filicità di decine e decine di risparmiatori. Si era appresentato a Vigàta poco più di due anni avanti per promuovere, diceva, «il risveglio economico di questa nostra amata e sventurata terra» e in pochi giorni aveva rapruto agenzie in quattro grossi paìsi della provincia di Montelusa. Era uno che certamente non gli mancava la parola come non gli mancava la capacità di persuadere tutti quelli che incontrava, sempre con un gran sorriso rassicurante stampato in faccia. Tempo una simanata impiegata a correre da un paìsi all’altro con una strepitosa e sparluccicante auto di lusso, una specie di specchietto per le allodole, aveva conquistato un centinaro di clienti, la cui età media si aggirava sulla sissantina e passa, che gli avevano affidato i loro risparmi. Alla scadenza dei sei mesi, gli anziani pensionati erano stati chiamati e si erano visti consegnare, rischiando di morire d’infarto sul posto, un interesse del venti per cento. Poi il ragioniere convocò a Vigàta tutti i clienti della provincia per un gran pranzo, alla fine del quale lasciò capire che forse, col semestre che veniva, gli interessi sarebbero stati più alti, macari se di poco. La voce si sparse e la gente principiò a fare la fila darrè gli sportelli delle varie agenzie locali supplicando Gargano di pigliarsi i suoi soldi. E il ragioniere, magnanimo, accettava. In questa seconda mandata ai vecchietti si aggiunsero macari picciotti che avevano gana di fare soldi il più di prescia possibile. Alla fine del secondo semestre, gli interessi dei primi clienti se ne acchianarono al ventitré per cento. La facenna andò avanti col vento in poppa, ma alla fine del quarto semestre Emanuele Gargano non riapparse. Gli impiegati delle agenzie e i clienti aspettarono due giorni e dopo s’addecisero a telefonare a Bologna, dove avrebbe dovuto esserci la direzione generale della «Re Mida», accussì si chiamava la finanziaria del ragioniere. Al telefono non arrispunnì nisciuno. Fatta una ràpita inchiesta, si venne a scoprire che i locali della «Re Mida», in affitto, erano stati ridati al legittimo proprietario il quale, da parte sua, era arraggiato perché l’affitto non gli era stato pagato da parecchi mesi. Passata una simanata d’inutili ricerche senza che del ragioniere a Vigàta e dintorni se ne vedesse manco l’ùmmira, e dopo numerosi e turbolenti assalti alle agenzie da parte di chi ci aveva rimesso i soldi, nacquero, a proposito della misteriosa sparizione del ragioniere, due scuole di pensiero.
La prima sosteneva che Emanuele Gargano, cangiatosi di nome, si fosse trasferito in un’isola dell’Oceania indovi se la scialava con fìmmine bellissime mezzo nude alla faccia di chi gli aveva dato fiducia e risparmi.
La seconda opinava che il ragioniere, incautamente, si fosse approfittato dei soldi di qualche mafioso e ora stava a produrre concime a una para di metri sottoterra o serviva da mangime ai pesci.
In tutta Montelusa e provincia c’era però una fìmmina ch’era di diverso concetto. Una sola, che di nome faceva Cosentino Mariastella.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore siciliano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Andrea Camilleri.
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