Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di L’ombra del bastone di Mauro Corona. Il romanzo è pubblicato in Italia da Feltrinelli con un prezzo di copertina di 9,50 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
La fine del mondo storto: trama del libro
Un grosso quaderno nero, di quelli usati per tenere i conti del latte da cagliare, giunge tra le mani di Mauro Corona. Porta in calce la data 1920 ed è consunto, le pagine appiccicate l’una all’altra. Quando con la punta del temperino infilata tra foglio e foglio Corona riesce ad aprirlo, si trova davanti un romanzo inatteso: la storia di Raggio e di Zino, di Maddalena Mora e di Neve, la bambina di ghiaccio, di tutti coloro che lassù, sui monti di Erto, lo hanno preceduto. Nel quaderno nero ci sono i “Malavoglia del Friuli” e la figura indimenticabile della strega Melissa che tra i branchi di capre e i campi di fieno che sovrastano il Vajont, porta a termine una lotta perduta contro il destino, folle di sesso e di dolore.
Approfondimenti sul libro
In ebook La fine del mondo storto (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 6,99 euro.
Ho un fratello otto anni più giovane di me che si chiama Sebastiano detto Bastianin de la smita perché fa il fabbro e la smita in ertano è la forgia. Mentre sto scrivendo questa verità in cielo il sole è alto. Sono tornato qui anche l’ultimo Natale, fuori era un metro di neve e faceva un freddo da far cadere gli uccelli. Era scoppiati i faggi per il gran freddo e io ero tornato al mio paese per vedere ancora una volta il Natale. Mi fermai solo qualche giorno poi tornai nella bassa del Friuli dove vago da mesi, da quel giorno maledetto che ho dovuto andare via perché mi correva dietro i rimorsi come cani che volevano mangiarmi vivo. Non tornerò mai più in questo paese, ma con la testa tornerò, perché mi penso sempre di lui, giorno e notte.
Io e mio fratello Bastianin siamo rimasti orfani ancora giovani. Avevo quindici anni e lui sette quando morì nostro padre Zolian. Fu trovato sul sentiero dei carbonai con la testa spaccata in diversi punti. Era stato ucciso e per questa uccisione misero in galera uno della frazione Pineda che si fece venti anni nella prigione di Udine. Intanto in quel periodo a Erto sul col delle Cavalle viveva un uomo che torniva il legno e, dopo morto nostro padre, cantava una canzone ma solo quando era ubriaco. Diceva più o meno così: “Tu cercherai la luna all’altro polo nessuno lo saprà perché fui solo”. Infatti nessuno lo sapeva e nemmeno sospettava che fusse stato lui a copare nostro padre.
Lo confessò in punto di morte al prete del paese. Lo fece chiamare e gli disse che era stato lui a copare Giuliano Corona detto Zolian della Cuaga. E gli disse anche come. Lo aveva copato col pilòt, una mazza tonda di carpino, a manico corto, usata per pestare il grano. È uguale a quella del pestasale ma cinque volte più grande. Le faceva lui quelle mazze, sul tornio. Era uno specialista di tornio e faceva soprattutto i pilòt. Il prete gli domandò perché aveva copato Zolian della Cuaga. Lui gli rispose che era storie di donne ma non andò oltre. Io penso che gli piaceva nostra madre ma lei non voleva saperne perché aveva già il suo Zolian, nostro padre, allora quello delle Cavalle pensò bene di renderla vedova per poi prendersela lui. Ma la manovra non gli riuscì perché nostra madre, che si chiamava Lucia come sua nonna, morì pochi mesi dopo di crepacuore e malattia. Così quel farabutto ne aveva copato due in un colpo solo. E non aveva fatto nianche un giorno di galera invece quello di Pineda aveva fatto venti anni. Lo misero dentro lui perché trovava sempre da dire con nostro padre per via di certi confini sulla costa della Cuaga dove si abitava prima perché oggi abitiamo un po’ più in su, vicino al paese. Lo aveva anche minacciato nell’osteria di Pilin che a quei tempi si chiamava il Merlo Bianco perché avevano un merlo bianco nella gabbia. Quel giorno che morì nostro padre molti testimoni di Casso videro l’uomo di Pineda arrivare in paese dal sentiero dei carbonai con un fascio di bastoni per i fagioli. Era il mese di giugno e si andava a bastoni da fagioli. Così incolparono lui, dissero che lo aveva colpito con la ronca per tagliare i bastoni ma io credo che se avessero guardato bene forse avrebbero capito che i colpi che aveva copato nostro padre sulla testa non era ronca. Ma aveva le braghe sporche di sangue, quello di Pineda, e nissuno gli credé che fusse il sangue di un camoscio che aveva preso due giorni prima e venduto intero a un foresto che passò per caso con un carretto pieno di sementi tirato dal cavallo. Così è il destino che a volte condanna le persone innocenti. E se quel farabutto delle Cavalle non si fusse ammalato e tirato in punto di morte dalla malattia, non avrebbe detto niente, e quello di Pineda, che si può anche dire il nome si chiamava Giulio, sarebbe morto in galera. Che razza di vigliacco! Ha distrutto la nostra famiglia e quella di un altro perché Giulio da Pineda era sposato e aveva anche due figlie piccole. È stato venti anni senza vederle e sua moglie non l’ha nianche più veduta perché povera anima morì di tubercolosi dodici anni dopo che l’avevano messo dentro.
Nostra madre invece morì quasi subito di crepacuore e altre cose brutte che gli fece buttar su sangue. Non sopportava l’idea di vivere senza il suo Zolian e nianche quella che gli abbino spaccato la testa a tradimento. A tradimento, dico, e lo penso anche, perché nostro padre era uno forte e deciso e se si fusse trovato di fronte anche un toro che voleva fargli del male lo avrebbe messo a terra. Coparlo no perché nostro padre non era capace di copare nianche una rana. Nel mese di marzo quando pioveva e andavamo a rane nel Vajont e ne prendevamo anche due secchie, lui non voleva mai coparle e spelarle. Diceva che non aveva coraggio di impiantargli la brìtola (coltello a serramanico) e tirare. Non riusciva. Allora ci mettevamo noi due fratelli aiutati da nostra madre che era buona e piangeva per niente come una vitellina ma copava le rane come niente fusse.
Dopo morto nostro padre nostra madre calò il mangiare fin che non mangiò più niente. E noi a dirgli mangia mamma se no muori ma lei niente, non mangiava. E mentre piangeva e dismagriva ogni giorno di più quello del col delle Cavalle cantava tu cercherai la luna all’altro polo. E veniva a casa a chiedere a nostra madre se aveva bisogno di qualcosa. Gli piaceva nostra madre e voleva come conquistarla, ma lei non voleva saperne né di lui né di altri uomini più. Era solo Zolian il suo uomo, o lui o niente.
Una volta quello delle Cavalle mi mise anche una mano sulla spalla e mi disse di avere coraggio e fare il bravo che adesso che nostro padre era morto diventavo io capofamiglia. Io gli risposi che non capivo come si potesse rivare a copare una persona a uso un coniglio con colpi sulla testa. E mi misi a offendere quello di Pineda che stava in galera a Udine. Ancora non sapevo che copare un uomo qualche volta è più facile che spelare una rana, e nianche immaginavo lontanamente che l’assassino di nostro padre mi poggiava una mano sulla spalla e mi diceva di fare il bravo. Se lo avessi saputo giuro che in quel momento, ma anche anni dopo, gli avrei impiantato un coltello nella pancia per quel che aveva fatto, e per il dolore di nostra madre e la rovina della nostra famiglia.
Il più di tutti patì mio fratello piccolo che si trovò spaesato senza suo padre. Io cercavo di straviarlo e lo portavo con me in giro per i pascoli della montagna e d’inverno a fare lavori nella stalla o trascinare letame con la slitta sui prati pieni di neve. Veniva volentieri, non diceva mai di no ma taceva sempre e la sera prima di addormentarsi sentivo che piangeva piano. Poveretto gli mancava suo padre e tribolava ma non diceva nulla a nissuno, nianche a nostra madre fin quando fu viva. A vederlo così piangevo anch’io qualche volta senza farmi vedere ma dopo un po’ reagivo e tacevo perché non si poteva piangere tutti tre.
Una sera venne di nuovo a casa nostra quello che cantava tu cercherai la luna e vide che nostra mamma non stava bene allora disse che se voleva sarebbe restato a farci compagnia e fare i lavori pesanti anche per sempre. Ma nostra madre gli disse di no e pur che andasse via disse che in caso avesse avuto di bisogno lo avrebbe mandato a chiamare. Ma non ebbe bisogno di mandarlo a chiamare perché dopo una settimana morì. Era il 26 aprile del 1895, nianche un anno dopo che avevano copato nostro padre. Era verso sera, avevamo appena detto il rosario e in casa stava un poche di vecchie venute giù alla Cuaga, dove si abitava, dalla contrada San Rocco. Quelle vecchie accesero una candela la misero davanti alla croce e quella più vecchia avviò un altro rosario. Nostra madre rispondeva appena alle Ave Marie e era bianca che la neve è nera al confronto, e ogni tanto andava nella stalla e tornava subito dopo ancora più bianca. Quando passava davanti la candela si poteva vedergli le coste sollevarsi e battere il cuore dentro tanto era magra e fina. A un certo punto gli venne da tossire intanto che dicevano le Ave Marie. Tirò fuori dalla tasca un fazoletto e mi accorsi che era sporco di sangue. Per quello andava nella stalla, non voleva farsi vedere a sputare sangue pensai. Ma in quel momento non fece in tempo a andare nella stalla perché gli venne un sbuffo improviso di sangue che allagò il pavimento di legno. Nostra madre guardò verso noi due poi si piegò sulle gambe e si rovesciò indietro mentre le vecchie ancora brusigavano (bisbigliavano) litanie. Ma quando videro nostra madre per terra smisero di dire litanie e la presero, e la tirarono su, e la misero sulla panca del focolare. Una gli sciugava la bocca dal sangue, le altre la chiamava Lucia cosa fai? Ma nostra madre non rispondeva più perché ormai era morta. E noi due io e mio fratello seduti sull’altra panca a dire il rosario anche noi e a sentire tutto, e dopo a vedere nostra madre morta. Mi prese un dolore che mi pareva che qualcuno mi stringesse il collo con due dita e mi sentivo soffocare. Mio fratello Bastianin piangeva ma più che altro perché era spaventato dal sangue io credo. Io invece piangevo perché avevo capito che nostra madre non era più. E se non lo avevo capito me lo disse una di quelle vecchie. «Vostra oma (mamma) l’è andata in Paradis» ci disse sottovoce a me e mio fratello. Sì, poteva andare in paradiso che se lo era meritato povera nostra madre.
Due giorni dopo la sepellirono accanto a nostro padre e per metterli assieme spostarono due metri più in su un morto che nel frattempo era morto. Così potevano stare uniti per sempre, adesso nissuno poteva più dividerli e tanto meno la morte anzi, la morte li aveva uniti. Mi fa paura pensare che per stare uniti si deva morire ma è così. La morte unisce quel che i uomini separa. E ho da dire che i uomini separa sempre quel che è bello perché è pieni di invidia.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Mauro Corona.
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