Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di All’ombra di Julius di Elizabeth Jane Howard. Il romanzo è pubblicato in Italia il 9 aprile 2018 da Fazi, con un prezzo di copertina di 9,90 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto).
All’ombra di Julius: trama del libro
Sono passati vent’anni dalla morte di Julius, ma il suo ultimo gesto eroico ha lasciato il segno nelle vite di chi gli era vicino. Emma, la figlia minore, ventisette anni, ha paura degli uomini. Cressida, la maggiore, vedova di guerra, cerca l’amore in una serie di relazioni con uomini sposati. Esme, la vedova, ancora attraente alla soglia dei sessant’anni, è persa nella routine domestica della sua bellissima casa. E poi c’è Felix, ex amante di Esme, che l’ha lasciata quando il marito è morto. E infine Dan, un estraneo. Si ritrovano tutti a trascorrere un weekend insieme in campagna: giornate disastrose e rivelatrici, sulle quali incombe, prepotente, l’ombra di Julius.
Approfondimenti sul libro
All’ombra di Julius è in vendita anche in formato eBook al prezzo di euro 9,99.
Si era svegliata alle sette e un quarto precise, in una cameretta della mansarda in Lansdowne Road. Di lì a quindici minuti sarebbe squillato il telefono e una voce maschile – tutta carica di quel senso di emergenza reiterata che lei associava ai film di guerra: «Enemy bearing green 320» – le avrebbe annunciato che erano le sette e trenta, cosa che a quel punto le sarebbe stata già nota. Ma quando aveva provato a cancellare il servizio, poi non le era più riuscito di svegliarsi da sola. Quei quindici minuti, sorta di preludio alla giornata, potevano certamente essere impiegati in qualcosa di utile o piacevole, ma il più delle volte invece rimaneva distesa rigida sotto le coperte, soggiogata dall’imminenza di quel trillo lacerante e, quando il trillo veniva per davvero, sollevava la cornetta con una furia tale che trascorreva sempre qualche secondo prima che l’uomo facesse sentire la sua voce.
Dopodiché si alzava, accendeva la stufa a gas – un trabiccolo dell’anteguerra ostinato e rumoroso che con una certa riluttanza riversava il suo modesto calore in quel buco di stanza – e poi andava alla finestra. La mansarda somigliava a una soffitta, di quelle che in campagna si usano per conservare le mele e il vestiario smesso; la finestra, per giunta, aveva subito un blando ampliamento a opera di sventati muratori inclini a considerare gli spifferi un inconveniente inevitabile di qualunque intervento architettonico. Una decisa, densa corrente d’aria fredda si sprigionava dagli angoli dell’intelaiatura, ma la vista su Londra, una volta scostata la tendina color ruggine con calendule e farfalle (dono di sua madre), non era poi tanto male. Schiere di cortiletti scuri e prati malconci, un vecchio pero ora spoglio, ritorto e bagnato; l’aria spessa e sudicia, il sole simile a un grano di pepe e un inatteso gabbiano – quasi bello visto da lontano – tutto intento a descrivere in aria mirabili ma vane traiettorie circolari.
La macchia sul soffitto – di caffè, si sarebbe detto – pareva si fosse ingrandita durante la notte. Le sarebbe toccato dirlo ai Ballantyne, prospettiva infausta perché il tetto era affare loro e non potevano permettersi di ripararlo, perciò avrebbero chiamato quel muratore sciagurato che Bill Ballantyne aveva conosciuto in guerra, uno con la faccia rubizza di chi ha vissuto nell’abbondanza e un sorriso infido sempre stampato in faccia. Sorrideva, sorrideva, diceva di sì a tutto… poi, passate un paio di settimane, metteva insieme alla bell’e meglio il lavoro che gli era stato assegnato e immancabilmente combinava qualche guaio. Doveva aver fatto fortuna, a forza di rompere roba. Quasi tutti i suoi clienti erano gente che aveva fatto la guerra con lui, cosa che tendeva per qualche ragione a offuscarne il giudizio: proprio come nel caso di Bill, si basavano tutti sulla nostalgia di qualcosa che era solo nella loro immaginazione.
Il bagno era tutto color pesca sciroppata, ma siccome era stato ridipinto e piastrellato da Mr Goad, le piastrelle avevano le crepe e la pittura si gonfiava qua e là in grosse vesciche. Pure la vasca era scheggiata, con conseguenze dolorose per chi la utilizzava, ma quando Bill gliel’aveva fatto presente, Mr Goad aveva addotto come scusa che avrebbe dovuto aspettare nove mesi per la vasca nuova e che ne aveva scelta una a buon mercato come favore all’amico Bill, da un ordine rimandato indietro dal Venezuela.
Aprì il rubinetto e ripercorse a ritroso il corridoio fino alla porta opposta a quella della sua stanza. Era chiusa, e quando la aprì fu assalita da un tanfo di muffa, fumo di sigaretta, calore vecchio e ansie irrisolte. Era il loro soggiorno e le bastò accendere la luce per rendersi conto che Cressy aveva avuto una delle sue crisi.
Era una bella mansarda spaziosa, col soffitto spiovente e una grossa stufa nera che al momento non funzionava. Osservò i cuscini sparsi a terra, i grossi fazzoletti bianchi appallottolati e ficcati tra i cuscini del divano, le tazze di caffè nero ancora piene e il pianoforte aperto… grazie al cielo la settimana era quasi finita. Prese la caffettiera per portarla in cucina e preparare la colazione.
Come al solito svegliare sua sorella fu un’impresa. I primi segni di vita si udirono quando Emma aveva già messo giù il vassoio della colazione, acceso la stufa, tirato le tende e spento la luce. Cressy dormiva prona, voltata verso il muro, ma appena la luce si spense stese un braccio immacolato e aprì le dita: un altro fazzoletto sgualcito rotolò sul pavimento.
«Caffè», disse Emma asciutta, ma col cuore colmo di pena.
Cressy si rigirò e la guardò. Non disse nulla, ma le lacrime che ancora le gonfiavano gli occhi tracimarono bagnandole il viso. «Dio santo». Si tirò su a sedere.
Emma raccolse il fazzoletto. Era zuppo.
«Ne vuoi un altro?».
Cressy scosse la testa e prese un vecchio cardigan rosa scolorito, se lo mise sulle spalle e vi si strinse come in uno scialle. Poi prese il bicchierino da sherry pieno di succo di limone che Emma le spremeva puntualmente la mattina e lo bevve. Emma, che aveva i brividi solo a guardarla, iniziò a versare il caffè domandandosi se fosse meglio per Cressy parlare e piangere ancora oppure calmarsi per un po’ e ricominciare a piangere più tardi. Il bicchiere da sherry venne rimpiazzato da una grossa tazza di ceramica Wegdwood colma di caffè, ed Emma disse senza troppa speranza: «Non hai freddo, vero?».
Cressy fece di no con la testa e le lacrime ripresero a scorrere. Poi disse: «Va a Roma per il fine settimana. Roma!», ripeté amara.
«E non potevi andare con lui?».
«Non vuole! Potrebbero vederci. Erano mesi che aspettavo questi due giorni…Dio mio, due miseri giorni…e ci mancava la conferenza improvvisa a Roma!».
«Immagino che la cosa non dipenda da lui».
«Oh, lo so. È la vita!». Lo disse con una specie di familiarità rabbiosa, come se sapesse che quella frase l’attendeva al varco comunque, pronta a farla a pezzi. «Avrebbe potuto portarmi con sé, se lo avesse voluto davvero. Ma non appena le cose si fanno difficili, lui rinuncia. Non gli importa poi così tanto».
E se le cose non si facessero difficili, non importerebbe nemmeno a te, non poté fare a meno di pensare Emma; ma come sempre con Cressy (e probabilmente con chiunque), questa non era l’esatta verità.
«Quando torna?».
«Sabato sera… probabilmente. Il fatto è che lo desideravo tanto… era solo… solo…».
«Un po’ di tempo con lui».
«È strano… sembra che a loro non importi. Per loro è come andare ai concerti senza sapere niente di musica. È una specie di passatempo, una cosa senza importanza. La vita vera è un’altra».
«Se non fosse sposato, vorresti sposarlo?».
«Sposarlo», ripeté sognante. «Non lo so. Mi sono sempre sforzata di essere realista, sai, e lui ha sempre avuto una moglie. È questo il punto».
«Ma se trovassi la persona giusta, vorresti sposarti?». Emma fu colta dall’improvviso timore che sua sorella le desse la risposta sbagliata, togliendole ogni via d’uscita e ogni possibilità di provare verso di lei un minimo di simpatia e compassione.
Invece Cressy rispose senza esitare:
«Non chiederei altro! Se trovassi la persona giusta, ce la metterei tutta per far funzionare le cose. Il fatto è che qualcosa in me non va. Tu sei diversa. Deve essere per questo che io ho delle relazioni e tu no… Tu ti sposeresti, vero, se incontrassi qualcuno?».
Si strinse nelle spalle, come se la cappa quasi tangibile di una speranza svanita le fosse scesa addosso al suono di quella domanda. «Oh, be’, io credo che l’uomo che avrei dovuto sposare, chiunque fosse, sia morto in guerra».
Cressy parve sconcertata. «Ma Em, questa è una tua fissazione! Hai tutto il tempo. Hai dieci anni meno di me, che diamine!».
«Sono molto più vecchia di com’eri tu quando ti sei sposata. A ogni modo, non sono certa che il matrimonio mi avrebbe resa così pazzamente felice. Senti… fra un minuto devo andare. Torni a casa per il fine settimana?».
«Forse… ci penso. Può darsi che ci sia la nebbia… ti chiamo». Soffriva della cronica incapacità degli innamorati di concepire un piano al di fuori dell’orbita del proprio amore. Emma la lasciò che almeno aveva esaurito le lacrime e si stava pettinando i folti e lucidi capelli neri che le scendevano in riccioli rigogliosi sulle spalle, dandole l’aspetto di una giovane strega. I suoi anni non li dimostrava di certo.
Povera cara, quanto soffriva, pensò Emma mentre si vestiva. Forse non per la ragione che immaginava lei e che, così credeva, era sempre rimediabile, ma per un motivo assai peggiore, più profondo e insidioso. Quando uno è incline a prendere troppo sul serio la propria ossessione, è facile che diventi noioso per gli altri. Decise di mettere alla prova questa teoria: cibo, poesia, politica, amore. Più o meno funzionava per le prime tre cose… ma prendere sul serio un argomento significa considerarne tutti gli aspetti, nel qual caso un lato risibile deve emergere giocoforza. Che Cressy non prenda la questione abbastanza sul serio? Chi si prende sul serio, del resto, difficilmente s’imbatte in qualcosa di cui ridere, il che vuol dire che la sua visione è parziale. Ecco cosa mi piacerebbe, pensò mentre spegneva lo strenuo focherello che in sua assenza doveva aver avuto una specie di collasso e si era ridotto a una fiammella violacea e intermittente. Mi piacerebbe trovare più cose di cui ridere. Vorrei che la gente venisse a dirmi: «Ecco, questo fa ridere». E lo pensasse davvero.
Si era messa una gonna a pieghe, un maglione blu pesante dal taglio maschile e quelle nuove calze traforate blu che la facevano sentire al caldo ed elegante allo stesso tempo. Prese dall’armadio il cappotto rosso pesante, controllò le carte che aveva nella borsa e poi guardò fuori dalla finestra per vedere se aveva cominciato a piovere. Il gabbiano s’era posato su un comignolo e sembrava bagnato, sporco e solitario; non pioveva ma l’aria era impregnata di umidità grassa, scura; s’immaginò le gocce sospese sulle sue piume e prese un grosso foulard di lana quadrato da mettersi in testa. La testa le fece pensare al soffitto e decise di tornare a dare un’occhiata a sua sorella.
Cressy era seduta alla finestra, scalza e infreddolita e, quando si voltò verso di lei, Emma vide che le lacrime avevano ricominciato a scorrere.
«Credevo fossi uscita. Sembra nebbia, però. C’è un po’ di speranza. O ti sembra vile da parte mia sperare che ci sia nebbia?».
«Certo che no. Ma non c’è nebbia, vieni, dai. Ne saremmo felici in tanti. Potresti tornare sabato».
«Lo so. Ci avevo già pensato. Non è che hai una sigaretta? Una sola. Le mie se le è fumate tutte Dick stanotte».
Mentre rovistava nella grossa borsa stracolma, disse: «Se vedi Ballantyne, gli dici del mio soffitto? Sta peggiorando. E in un punto diverso dall’altra volta. Oddio, non ne ho. Chiedine una a Bill».
Per la biografia e la bibliografia della scrittrice britannica rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Elizabeth Jane Howard.
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