Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Panino al prosciutto di Charles Bukowski. Il volume è pubblicato in Italia da TEA con un prezzo di copertina di 12,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Panino al prosciutto: trama del libro
Tra le periferie di una Los Angeles prostrata dalla Grande Depressione degli anni Trenta, Henry Chinaski vive il suo romanzo di formazione, le inquietudini di adolescente ribelle alle prese con l’incapacità di venire a patti con il mondo che lo circonda e con il suo stesso bruciante desiderio di libertà. Isolato tanto in famiglia quanto tra i suoi coetanei, picchiato dal padre e deriso da quelli che vorrebbe come amici, incapace di avvicinarsi all’universo femminile, Chinaski compie con rabbia la sua crescita intellettuale e sentimentale: in pochi anni brucia le illusioni di ricchezza e benessere del padre così come il perbenismo della madre, rifiuta una per una le proprie amicizie, affronta beffardamente la frustrazione dei suoi primi desideri d’amore. Ma allo stesso tempo scopre la biblioteca pubblica e la compagnia impareggiabile dei libri, il conforto dell’alcol, l’inutilità della scuola e le possibilità di riscatto riservategli dalla scrittura.
In ebook Panino al prosciutto (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 7,99 euro.
Il mio primo ricordo è di essere sotto qualcosa. Era un tavolo, vedevo una gamba del tavolo, vedevo le gambe delle persone e un pezzo di tovaglia penzolante. Là sotto era buio, mi piaceva stare là sotto. Dovevamo essere in Germania. Avrò avuto uno o due anni. Era il 1922. Stavo bene sotto il tavolo. Nessuno sembrava essersi accorto che ero lì. C’era la luce del sole sul tappeto e sulle gambe delle persone. Mi piaceva la luce del sole. Le gambe delle persone non erano interessanti, non quanto quella tovaglia penzolante, non quanto la gamba del tavolo, non quanto la luce del sole.
Poi più niente… poi un albero di Natale. Candele. Festoni a forma di uccelli: uccelli con rametti di bacche nel becco. Una stella. Due persone grandi che litigano, urlano. Gente che mangia, sempre gente che mangia. Mangiavo anch’io. Il mio cucchiaio era piegato in modo che se volevo mangiare dovevo impugnarlo con la mano destra. Se lo impugnavo con la sinistra, il cucchiaio era piegato dalla parte opposta rispetto alla bocca. Volevo impugnarlo con la sinistra.
Due persone: una più grossa coi capelli ricci, naso grande, bocca grande, sopracciglia folte; quella più grossa sembrava sempre arrabbiata, sbraitava spesso; la persona più piccola era taciturna, faccia tonda, più smunta, occhi grandi. Avevo paura di tutte e due. A volte ce n’era anche un’altra, grassa, che portava abiti con i colletti di pizzo. Aveva una grossa spilla e la faccia piena di verruche coi peli. «Emily», la chiamavano. Queste persone non sembravano felici insieme. Emily era la nonna, la madre di mio padre. Mio padre si chiamava «Henry». Mia madre «Katherine». Non li chiamavo mai per nome. Io ero «Henry Jr». Questa gente parlava quasi sempre in tedesco, e all’inizio anch’io.
La prima cosa che mi ricordo di aver sentito dire dalla nonna è stata: «Vi seppellirò tutti!» Lo disse per la prima volta mentre stavamo cominciando a mangiare, e da allora glielo sentii ripetere molte altre volte prima di cominciare a mangiare. Mangiare sembrava davvero importante. Mangiavamo purea di patate con la salsa, soprattutto la domenica. Mangiavamo anche roast beef, Knockwurst e Sauerkraut, piselli, rabarbaro, carote, spinaci, fagiolini verdi, pollo, polpette e spaghetti, a volte mischiati con ravioli; c’erano cipolle bollite, asparagi e tutte le domeniche il tortino di fragole col gelato alla vaniglia. Per colazione mangiavamo french toast con uova e salsicce, o frittelle calde o waffle con pancetta affumicata e uova strapazzate a parte. E c’era sempre il caffè. Ma quello che mi è rimasto più impresso è la purea di patate con la salsa della nonna Emily e lei che diceva: «Vi seppellirò tutti!»
Veniva a trovarci spesso dopo che ci eravamo trasferiti in America, prendeva il tram rosso da Pasadena a Los Angeles. Noi andavamo a trovarla di rado, con la nostra Ford Model T.
Mi piaceva la casa della nonna. Era una casetta nascosta da un’incombente boscaglia di alberi del pepe. Emily teneva i suoi canarini in diverse gabbie. Mi ricordo una visita in particolare. Quella sera stava facendo il giro per coprire le gabbie con i cappucci bianchi, così gli uccellini potevano dormire. I grandi erano seduti a parlare. C’era un pianoforte e io mi ero messo sullo sgabello e avevo cominciato a premere i tasti e ad ascoltare i suoni mentre gli altri parlavano. Preferivo i tasti in fondo alla tastiera, quelli che non emettevano quasi alcun suono… sembravano scaglie di ghiaccio che si urtavano.
«La pianti o no?» disse ad alta voce mio padre.
«Lascialo suonare» disse la nonna.
Mia madre sorrise.
«Quel bimbo» disse la nonna, «quando ho cercato di sollevarlo dalla culla per baciarlo, ha alzato un braccino e mi ha dato un pugno sul naso!»
Parlarono ancora un po’ e io continuai con il pianoforte.
«Perché non fai accordare quell’affare?» chiese mio padre.
Poi mi dissero che saremmo andati a trovare il nonno.
Il nonno e la nonna non abitavano insieme. Mi dissero che il nonno era cattivo, che gli puzzava l’alito.
«Perché gli puzza il fiato?»
Non risposero.
«Perché gli puzza il fiato?»
«Perché beve.»
Salimmo sulla Model T e andammo a casa di nonno Leonard. Mentre ci avvicinavamo lui era in piedi sulla veranda. Era vecchio, ma stava bello dritto. Era stato ufficiale dell’esercito in Germania ed era venuto in America quando aveva sentito dire che le strade erano lastricate d’oro. Non era vero, così era diventato capo di un’impresa di costruzioni.
Gli altri non scesero dalla macchina. Il nonno agitò un dito verso di me. Qualcuno aprì la portiera, io scesi e andai da lui. Aveva i capelli lunghi bianco candido, la barba lunga bianco candido e mentre mi avvicinavo notai i suoi occhi scintillanti come lucine azzurre che mi guardavano. Mi fermai a una certa distanza da lui.
«Henry» disse, «io e te ci conosciamo. Vieni in casa.»
Mi tese la mano. Più mi avvicinavo più sentivo la puzza del suo alito. Puzzava forte, ma era l’uomo più bello che avessi mai visto e non avevo paura.
Entrai in casa con lui. Mi indicò una sedia.
«Siediti per favore. Sono molto contento di vederti.»
Andò in un’altra stanza. Quando tornò aveva in mano una scatoletta di latta.
«È per te. Aprila.»
Trafficavo con il coperchio, non riuscivo ad aprirlo.
«Forza» disse, «dai a me.»
Allentò l’apertura e mi ridiede la scatola di latta. Alzai il coperchio e dentro c’era una croce, una croce tedesca con un nastro.
«Oh, no» dissi, «tienila tu.»
«È tua» disse, «è solo una patacca.»
«Grazie.»
«È meglio che tu vada adesso. Saranno preoccupati.»
«Va bene. Arrivederci.»
«Arrivederci, Henry. No, aspetta…»
Mi fermai. Frugò con due dita nella tasca davanti dei pantaloni, e con l’altra mano sfilò una lunga catena d’oro. Poi mi porse il suo orologio d’oro da taschino, con la catena.
«Grazie, nonno…»
Fuori mi aspettavano, salii sulla Model T e ce ne andammo. Lungo il tragitto parlarono di diverse cose. Parlarono per tutto il tempo, e continuarono così fino a quando arrivammo a casa della nonna. Parlarono di molte cose, ma mai, neanche una volta, del nonno.
2
Ricordo la Model T. Si stava seduti in alto, le pedane erano comode, e quando faceva freddo, di mattina, e spesso anche durante la giornata, mio padre doveva inserire la manovella nella parte anteriore del motore e ruotarla parecchie volte per metterla in moto.
«Così ci si può anche spezzare un braccio. Rincula come un cavallo.»
La domenica, quando la nonna non veniva a trovarci, andavamo a fare delle gite in macchina. Ai miei genitori piacevano gli aranceti, miglia e miglia di alberi in piena fioritura o colmi di agrumi. I miei genitori avevano un cestino da picnic e un contenitore di metallo. Nel contenitore c’erano scatole di frutta ghiacciata su ghiaccio secco, e nel cestino da picnic c’erano würstel, liverwurst e panini con salame, patatine, banane e bibite gasate. Spostavamo le bibite di continuo dal contenitore di metallo al cestino da picnic. Ghiacciavano in fretta e poi dovevano essere sgelate.
Mio padre fumava le Camel e conosceva un sacco di trucchetti e di giochi che ci mostrava con i pacchetti delle sigarette. Quante piramidi ci sono? Contatele. Le contavamo e poi lui ce ne mostrava sempre qualcuna in più.
Faceva anche certi trucchetti con le gobbe dei cammelli e con le scritte sul pacchetto. Le Camel erano sigarette magiche.
Mi ricordo di una domenica in particolare. Il cestino da picnic era vuoto. Eravamo andati comunque nella zona degli aranceti, lontano, molto lontano da dove abitavamo.
«Paparino» chiese mia madre, «non è che rimaniamo senza benzina?»
«No, ce n’è un sacco, di stramaledetta benzina.»
«Dove stiamo andando?»
«Sto andando a prendere un po’ di quelle fottutissime arance!»
Mia madre rimase silenziosa mentre proseguivamo. Mio padre accostò lungo la strada, parcheggiò vicino a un reticolato di ferro e restammo lì, in attesa. Mio padre aprì la portiera con un calcio e scese.
«Prendete il cestino.»
Passammo attraverso il reticolato.
«Seguitemi» disse mio padre.
Poi ci trovammo tra due filari di aranci, riparati dal sole dai rami e dalle foglie. Mio padre si fermò e cominciò a cogliere le arance dai rami più bassi degli alberi più vicini. Sembrava arrabbiato, mentre strappava le arance dall’albero, e i rami sembravano arrabbiati, mentre si muovevano su e giù. Gettava le arance nel cestino da picnic tenuto da mia madre. A volte sbagliava mira e io rincorrevo le arance e le mettevo nel cestino. Mio padre andava di albero in albero, tirando i rami più bassi, gettando le arance nel cestino da picnic.
«Paparino, ne abbiamo abbastanza» disse mia madre.
«Col cazzo.»
Continuava a buttarle nel cestino.
A quel punto sbucò un tizio, un uomo alto alto. Imbracciava un fucile.
«Allora, amico, cosa credi di fare?»
«Sto raccogliendo arance. Ce n’è un mucchio qui.»
«Queste sono le mie arance. Ora, sentimi bene, di’ alla tua donna di rovesciarle.»
«Ce ne hai un mucchio di fottutissime arance. Non sentirai la mancanza di qualche fottutissima arancia.»
«Non sentirò la mancanza di nessuna arancia. Di’ alla tua donna di rovesciarle.»
Il tizio puntò il fucile contro mio padre.
«Rovesciale» disse mio padre a mia madre.
Le arance rotolarono a terra.
«Adesso» disse l’uomo, «filate via dal mio frutteto.»
«Non ti servono tutte queste arance.»
«So io cosa mi serve. Adesso via di qui.»
«I tipi come te dovrebbero impiccarli!»
«Qui sono io la legge. Ora smammate!»
L’uomo alzò di nuovo il fucile. Mio padre si voltò, si incamminò e cominciò a uscire dall’aranceto. Lo seguimmo con l’uomo sempre dietro. Poi salimmo in macchina, ma era una di quelle volte in cui non voleva saperne di partire. Mio padre scese a girare la manovella. Ci provò due volte, niente. Cominciò a sudare. L’uomo stava sul ciglio della strada.
«Fai partire quel macinino del cazzo!» disse.
Mio padre stava per girare di nuovo la manovella. «Non siamo sulla tua proprietà! Possiamo starcene qui tutto il tempo che ci pare!»
«Un cazzo! Fai sparire di qui quel catorcio, e in fretta!»
Mio padre girò di nuovo la manovella. Il motore scoppiettò, poi si fermò.
Mia madre era seduta con il cestino da picnic vuoto sul grembo. Io avevo paura di guardare quell’uomo. Mio padre girò ancora la manovella e il motore partì. Saltò in macchina e cominciò ad azionare le leve sul volante.
«Non farti più vedere» disse l’uomo, «o la prossima volta non te la caverai così facilmente.»
Mio padre si allontanò con la sua Model T. L’uomo era ancora in piedi sul ciglio della strada. Mio padre andava molto forte. Poi rallentò e fece un’inversione a U. Ritornò nel punto dove prima c’era quell’uomo. Adesso non c’era più. Ce ne andammo via dall’aranceto a tutta velocità.
«Un giorno o l’altro tornerò e gliela farò pagare a quel bastardo» disse mio padre.
«Paparino stasera faremo una bella cenetta. Cosa ti piacerebbe mangiare?» chiese mia madre.
«Braciole di maiale» rispose mio padre.
Non l’avevo mai visto correre così in macchina.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore statunitense rimandiamo i lettori alla nostra pagina dedicata a Charles Bukowski.
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