Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Paradise Sky di Joe R. Lansdale, romanzo edito in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 20,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto). Il titolo è disponibile anche in eBook al prezzo di euro 9,99.
Paradise Sky: trama del libro
Willie è solo un ragazzo, ma è già costretto a lasciarsi tutto alle spalle per sfuggire al proprietario terriero che ha assassinato suo padre. Incontrare Loving gli salva, letteralmente, la vita. L’uomo lo inizia alle sottili arti dello sparare, del cavalcare, del leggere e del giardinaggio. Quando muore, Willie eredita da lui il suo nuovo nome: Nat Love. Soldato e pistolero, Nat sembra destinato alla gloria. Ha tutto quello che un uomo del West può desiderare, compresa la donna dei suoi sogni e il rispetto di leggende come Wild Bill Hickok. Ma il passato torna a tormentarlo. E, soprattutto, Nat è nero, in un periodo in cui agli afroamericani non viene perdonato nulla. Privato della casa, dell’amore e di tutto ciò che aveva conquistato, a Nat Love non resta che mettersi sulle tracce dei suoi persecutori, pronto all’ultimo, mortale duello.
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Un’altra cosa che ho fatto è stata vincere una gara di tiro a Deadwood contro avversari di altissimo livello. Erano tutti bianchi tranne me, nero e lucido come l’ossidiana. Sono stati addirittura scritti romanzetti sul mio conto, anche se qualcuno dice che non è vero, che mi sono attribuito il nome di Deadwood Dick, il Cavaliere Oscuro delle pianure, solo per darmi prestigio e che quelle storie non avevano niente a che fare con me. Tutte balle: certo, una grossa parte di ciò che è stato scritto su di me è falso, ma ho intenzione di chiarire tutto dall’inizio alla fine, a tempo debito. Comunque, non è cosí che comincia la mia storia. Sto correndo troppo, rischio di spegnere il fuoco ancor prima di averlo acceso.
Secondo me posso cominciare da qui. Si diceva in giro che se andavi a ovest per unirti ai soldati di colore ti pagavano in dollari veri, tredici al mese, piú vitto e alloggio, e ti davano pure un cavallo. A questo pensavo quando iniziai la mia avventura. Quel pensiero era come un cane steso al sole che non ha nessuna voglia di alzarsi. Ma un giorno, all’improvviso, un fuoco è divampato in quelle ossa di cane. Accadde a causa di quelli che una volta ho sentito definire gli imprevisti della vita, avvenimenti che portano a grandi idee e scelte determinanti. Vedete, sono stato invitato a un linciaggio.
Mica mi chiedevano di tenere la corda o di cantare una canzone. Io ero l’ospite d’onore. Volevano tirarmi il collo, strozzarmi come un pollo per la cena della domenica.
All’epoca non avevo neanche vent’anni. Accadde tutto per caso. Ero andato in città su incarico di mio padre: dovevo prendere della farina e altra roba, una camminata di circa cinque miglia. Non è che avessi tutta questa voglia di portare sacchi di farina, mais e quant’altro per quelle cinque miglia, ma cosí andavano le cose. Avevamo solo un cavallo, e papà lo usava per arare il campo di grano. Quindi mi toccava andarci a piedi.
Il viaggio stava andando benissimo, il sacco sembrava leggero come se fosse vuoto, era una bella giornata, il sole era caldo, gli uccelli cantavano sugli alberi, felici come pasque. Fischiettai per la maggior parte del tragitto, e per fortuna ero solo, visto che non sono mai stato bravo a fischiare. Ma ero lí, era una mattinata splendida, mi sentivo alla grande, anche se sapevo che avrei dovuto avere a che fare con dei bianchi – veterani della Guerra civile, soprattutto. Gente che voleva parlare della guerra tutto il tempo e con chiunque si trovasse a tiro. Che voleva spiegare che se il buon vecchio Robert E. Lee avesse fatto questo invece che quello, noi negri avremmo ancora saputo stare al nostro posto nelle fattorie, e nel caso qualcuno avesse fatto finta di non sapere quale fosse, questo posto, sarebbero bastate un paio di frustate ogni tanto per riportarci sulla retta via, perché il nostro cervello era come quello di un bambino. Secondo loro, se fossimo stati lasciati a noi stessi avremmo vagato senza meta, incapaci di procurarci il cibo o dei vestiti, e avremmo passato il tempo a strusciarci contro il bestiame.
Però quel giorno non ci pensavo troppo, a certe cose. Me la godevo e basta, mentre camminavo, diretto da Wilkes, ai magazzini generali o all’emporio per comprare qualcosina con i pochi soldi che papà aveva ricavato dalla vendita di patate e pomodori dell’anno precedente. Si era attaccato a quei soldi come un corvo a un oggetto che luccica, ma a un certo punto le provviste avevano cominciato a scarseggiare e toccava andare a comprare un po’ di roba che bastasse fino al prossimo raccolto. Mangiavamo quello che ci dava la terra, ed eravamo proprietari: una cosa rarissima, un po’ come scorrazzare sul corso principale con un calesse con le frange mentre i bianchi ci salutavano e facevano il tifo da entrambi i lati della strada.
Fu una donna bianca a ficcarmi nei pasticci. Stavo camminando, il sacco vuoto sulla spalla, e pensavo a quanto odiassi andare nel retro del negozio di Wilkes e restare lí impalato col sacco in mano finché il vecchio Wilkes o suo figlio, Royce, si decidevano a chiedere cosa volessi, per poi provare a vendermi il cibo e la farina piú scadenti al doppio del prezzo. Avrei dovuto sbattermi e supplicare per riuscire a fare un buon affare senza sembrare arrogante o insistente. Questa cosa avrebbe logorato chiunque, giovane o vecchio che fosse. Ma faceva parte dell’addestramento alla sopravvivenza.
Al negozio non ci arrivai mai. Decisi di prendere una scorciatoia, entrai in un vicolo, per poi ritrovarmi in mezzo agli edifici che costituivano la città vera e propria, e passai davanti a un cortile dove una donna bianca stava stendendo il bucato. Quella casa era stata costruita cinque anni prima ai confini della città, ma poi la città era cresciuta e la casa ora si trovava quasi nascosta tra una scuderia e un barbiere. Non che fosse un granché come casa, comunque. Il terreno originario era stato svenduto dopo la guerra, e se foste stati a sentire il proprietario di quel posto, Sam Ruggert, vi sareste convinti che prima della guerra fosse stato un vasto terreno agricolo con rigogliosi frutteti. Falso. Era ricoperto di boscaglia e gramigna, e se Ruggert avesse perso meno tempo nelle stalle con una tanica di alcol di contrabbando, avrebbe potuto far nascere dal quel terreno qualcosa di diverso dalle erbacce. Ma lui non la pensava cosí. Aveva deciso che la guerra lo aveva rovinato, lui e la sua famiglia, e ogni volta che ne parlava, cosa che faceva regolarmente nel negozio verso cui mi stavo dirigendo, diceva che ogni buco delle sue mutande era colpa degli Yankee e dei negri. Secondo la mentalità di Ruggert io appartenevo a entrambe le categorie: una per nascita e una per aspirazione. Si diceva anche che fosse un tipo strambo e sempre arrabbiato, addirittura pericoloso. Le pareti esterne della sua baracca erano rattoppate con pelli di animali, il tetto cedeva da una parte e aveva un telo al posto delle tegole.
Appena passai lí davanti col mio sacco vuoto, girai la testa per guardare quella giovane donna dai capelli rossi e dalle forme generose ma non eccessive, intenta a stendere i panni sul filo, fermandoli con delle mollette. La conoscevo solo di vista. Era la terza moglie di Ruggert: la prima si era ammazzata di lavoro, la seconda era scappata, e questa era la figlia della donna che era scappata. Da dietro sembrava giovane e molto attraente, ma vista davanti, con quel viso stretto e il naso lungo, mi ricordava l’estremità di un’accetta.
Comunque, non era quella l’estremità che stavo guardando, e devo ammettere di aver provato una certa curiosità per il fatto che apparisse molto piú attraente se vista da dietro, ma i miei erano pensieri senza malizia. Avevo solo girato lo sguardo e notato che si stava piegando verso il cesto, spingendo un culo davvero notevole contro la sottoveste sottile. Fu in quel fuggevole e fatidico istante che il marito, il già citato Sam Ruggert, venne fuori dalla porta di servizio e mi vide. Il fatto che io stessi fissando ciò che chiunque sarebbe stato in grado di vedere passando da quelle parti gli fece lo stesso effetto di un animale ferito che gli si fosse arrampicato addosso per poi morirgli in mezzo alle chiappe, inondandolo di fetore.
Stava lí impalato e mi guardava fisso con i suoi occhietti porcini. Indossava solo un paio di pantaloni e gli stivali, il grosso ventre bianco era appoggiato alla cintura come un sacco di patate, e torceva le labbra in mezzo alla barba come fossero due vermi rossi che cercavano di uscire da un groviglio d’erba. Capii subito di essere in trappola. Cominciò a urlarmi contro, a dire che avevo mancato di rispetto a una donna bianca, come se mi fossi intrufolato nel loro cortile e le avessi ficcato un braccio su per il culo. Ma io non avevo fatto altro che ammirare un bel paio di chiappe quando ne avevo avuto la possibilità: niente di piú normale.
A quel punto la moglie si era girata e mi aveva visto, e lo spettacolo della sua faccia aveva spento tutto l’entusiasmo che avevo provato guardandola da dietro. Cominciò a dirmene di tutti i colori, e potete scommetterci che la parola «negro» venne fuori almeno due o tre volte. Ci buttò dentro pure «scimmione», per non farsi mancare nulla, e l’espressione piú gentile uscita dalle loro bocche fu «maledetto muso nero». Non mancarono di menzionare le mie orecchie, che sporgevano dal capo come le porte aperte, anteriori e posteriori, di una baracca.
Insomma, erano lí a strillare e inveire quando a un certo punto Ruggert cominciò a guardarsi intorno, sperando di trovare un’ascia, una zappa o anche solo una pietra da lanciarmi addosso. Non c’era nulla a portata di mano, cosí si precipitò in casa. Sapevo che sarebbe tornato fuori con un fucile. Probabilmente uno di quelli grossi.
Se anche non mi avesse fatto fuori con una pallottola, già immaginavo un’orda di bianchi che ringhiavano con una corda in mano, pronti ad appendermi a un albero o a un cornicione senza troppe chiacchiere e tantomeno un processo. L’avevo visto succedere, una volta. Un vecchio, che tutti chiamavano zio Bob, aveva detto una cosa che era andata di traverso a certi bianchi, una cosa talmente sciocca che nessuno ricorda piú quale fosse. Un attimo dopo zio Bob penzolava da una corda attaccata a un albero, e gli avevano dato fuoco ai pantaloni con un fiammifero. Tutto ciò dopo che una dolce signora di chiesa gli aveva aperto la patta per segargli gli attributi con un coltellino e darli in pasto a un cane.
Avevo dieci anni quando lo vidi succedere. Mia madre era ancora viva, e poiché la guerra era finita e vendere gli schiavi era diventato illegale, era tornata a casa. Anche papà era un uomo libero. Io sono stato uno schiavo solo per pochi anni della mia infanzia, e per fortuna non ho tanti ricordi di quel periodo. Appartenevamo a una persona piuttosto gentile, mettiamola cosí. Cioè, non ci picchiava o roba del genere, ma comunque eravamo proprietà sua. Se fossimo fuggiti saremmo stati braccati da cani e uomini armati. E poi lui aveva venduto mamma, no? Quindi diciamo pure che rispetto a tanti altri non era male, ma che la nostra vita non era comunque una passeggiata.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore texano rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Joe R. Lansdale.
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