In questo articolo trovate la trama del libro Non pensavo di amarti ancora di Penelope Ward, i dati sul volume pubblicato da Newton & Compton e un’anteprima dalle prime pagine.
Non pensavo di amarti ancora di Penelope Ward
Edito da Newton Compton Editori nel 27 settembre 2018 • Pagine: 288 • Compra su Amazon
Alcuni errori sono la cosa più giusta da fare Dall’autrice del bestseller Odioamore Lì per lì ho pensato che fosse un’ottima idea. Chiamare all’improvviso al telefono Landon Roderick, per cui ho una cotta dai tempi dell’infanzia, mi è sembrata la cosa giusta da fare. Il fatto che fossi ubriaca e stessi passando sopra a tredici anni di emozioni contrastanti con uno stupido scherzo telefonico, invece, non mi è nemmeno passato per l’anticamera del cervello. Ma poi Landon ha richiamato. Ci siamo ritrovati a passare le settimane seguenti al telefono, cercando di gestire l’intensa connessione che il suono delle nostre voci aveva risvegliato. È possibile desiderare qualcuno che si trova a chilometri di distanza? Durante tutte quelle ore passate a chiacchierare, mi sono chiesta che cosa sarebbe potuto succedere se ci fossimo incontrati. Farmi vedere da lui, però, era fuori discussione. Era da prima di compiere quindici anni che non uscivo con un ragazzo e non avevo intenzione di fare un’eccezione proprio per Landon Roderick. Ma il destino aveva altri piani, per noi. Un incidente con lo skateboard, Landon finisce in ospedale ed eccomi su un volo per Los Angeles: l’errore più grosso che abbia mai commesso o la cosa migliore che mi sia capitata? → CONTINUA SU AMAZON
Rana Banana
Quando mi buttai sul letto, la stanza era un vortice. Avevo ancora addosso il costume blu elettrico e oro da danza del ventre, con una cascata di perline sparse intorno a me.
Avevo aperto quel vino senza neanche togliermi gli abiti da lavoro. La bottiglia di Shiraz che stringevo ancora tra le mani era vuota. Cadde, per fortuna senza rompersi. Almeno, io non sentii alcun rumore di vetri rotti.
Non era la prima volta che tornavo a casa dal lavoro e mi aprivo subito una bottiglia di vino. Quel giorno però ero particolarmente malinconica. Mi sembrava di annegare nella tristezza. Non sapevo neanche di preciso perché.
Ogni volta che mi ritrovavo così, chissà per quale motivo, andava sempre a finire che ripensavo a Landon. Era inspiegabile che, dopo tredici anni, stessi ancora pensando a quel ragazzo. Be’, tecnicamente era un uomo, ormai.
Mi costrinsi ad alzarmi e incespicai verso l’armadio. Rovistai nello zaino nero di tela, setacciando le decine di biglietti che mi aveva lasciato. Erano tutti ripiegati a triangolo. Ne scelsi uno a caso e lo aprii.
Rana Banana,
Vorrei averli anch’io, tutti quei peli sulle braccia.
Landon
PS: Posso farci le treccine?
Il mio nome, Rana, si pronuncia proprio come si scrive, così Landon era solito chiamarmi Rana Banana. Per un breve periodo della mia vita, quel ragazzo era stato la persona più importante per me.
A tredici anni ero un maschiaccio e abitavo con i miei in un garage riadattato nella casa dei genitori di Landon, a Dearborn, nel Michigan. L’avevano ristrutturato trasformandolo in un appartamentino che affittavano, con un angolo cucina e un bagno. Non avevo molto altro, a parte un tetto sopra alla testa e, certo, i peli sulle braccia.
Il papà di Landon era un dirigente della Ford, mentre mio padre, Eddie Saloomi, lavorava in una panetteria in centro e guadagnava giusto il necessario per arrivare a fine mese. Mia madre Shayla, molto più giovane di mio padre, non lavorava.
Quello dei miei genitori era stato un matrimonio combinato. Papà preferiva che mia madre restasse a casa e se ne occupasse. In realtà, Shayla al massimo preparava un pranzo o una cena ogni tanto, tra un giro e l’altro al centro commerciale e un furto di vestiti da Macy’s. Riusciva anche a telefonare di nascosto al suo amante, che aveva un’età molto più vicina alla sua. Per gran parte della mia infanzia, ricordo solo che mia madre era sempre triste. Ricordo anche che fisicamente la consideravo la più bella del mondo. Shayla aveva lineamenti delicati, non come me che avevo ereditato il naso e il monociglio di mio padre. Ero anche più pelosa delle mie coetanee. Forse era per questo che Landon mi trattava come un maschio. Di sicuro non poteva sapere che avevo una cotta per lui. Non poteva sapere nemmeno che stare con lui ogni giorno dopo la scuola era la mia ragione di vita.
Il periodo che trascorsi nell’appartamento di Dearborn fu breve. I genitori di Landon alla fine ci sbatterono fuori perché non pagavamo l’affitto e ricordo di essermi sentita come se mi fosse caduto il mondo addosso.
Nel giro di due giorni, mio padre aveva caricato il suo vecchio furgone Toyota e ci aveva portato a vivere con i nonni, dall’altra parte dello Stato.
Non rividi più Landon.
Avevo deciso di non salutarlo. Neanche lui venne a salutarmi, del resto. Ero furiosa con lui, convinta che avrebbe potuto fare qualcosa per non farci sfrattare. Era un modo terribile di chiudere le cose.
Negli anni, pensai molto a Landon. Non mi venne mai in mente di cercarlo o contattarlo, però.
Fino a questo momento.
Perché questo bisogno, all’improvviso, in un giovedì sera come un altro? Non ne avevo idea.
Ripiegai il biglietto e lo rimisi nello zaino. Mi guardai allo specchio e intravidi il mio mascara colato. Il trucco pesante sugli occhi ne accentuava il verde e la pelle olivastra evidenziava i capelli neri. Nonostante la situazione, mi piaceva quello che vedevo e odiavo sentirmi in quel modo. Ma avevo fatto tanto per apparire così. Certo, forse era l’alcol a farmi sentire più sicura del dovuto.
Chissà cosa penseresti ora di me, Landon.
Una cosa la sapevo per certo: non avrebbe riconosciuto Rana Saloomi se l’avesse incontrata per la strada.
Avevo le mie teorie su quello che poteva essere diventato Landon: immaginavo che avesse frequentato un’università importante, avesse un lavoro strapagato, una bella moglie o una fidanzata. Lo immaginavo felice. Immaginavo che non avesse mai pensato a me. Ero ossessionata dalla mia immagine di Landon e non riuscivo a capire perché mi importasse. Era tutto nella mia testa, ma in qualche modo la sua felicità era un riflesso della mia infelicità.
Nonostante la confusione rispetto al persistere dei miei sentimenti per Landon, quella sera, nella nebbia della mia ebbrezza, ero solo arrabbiata. Volevo parlargli. E non c’era nessuno che potesse sensatamente distogliermi da quel proposito. Mi ero convinta che non avrei mai più ritrovato il coraggio. Era la mia unica possibilità. L’idea di chiamarlo in quel momento mi piaceva sempre di più, ogni istante che passava.
Aprii il portatile e cliccai su Google, in cerca di “Landon Roderick”. Mi comparvero una serie di risultati a Los Angeles.
Los Angeles?
Poteva essere lui?
In caso affermativo, probabilmente non si sarebbe ricordato di me. Incapace di dissuadermi, sbronza com’ero, dovevo dirgliene quattro. Dovevo dirgli che razza di comportamento schifoso era stato quello dei suoi genitori. E dovevo fargli sapere che lui non era meglio di me. Fondamentalmente, dovevo dire le cose che nella mia testa gli avevo urlato contro in tutti questi anni.
Composi il numero e sentii squillare.
Rispose una voce profonda, roca. «Sì…».
Il battito del mio cuore accelerò. «Parlo con Landon?».
«Chi parla?»
«Sono sicura che non ti ricordi di me. Figurati, con la tua bella vita in California e tutto il resto».
«Scusa?»
«Devi sapere una cosa. Provavo qualcosa per te».
«Ma che cazzo? Come?», ripeté lui. «Chi parla?».
«Forse per te ero solo una ragazzina grassoccia che sembrava un maschio, con un taglio di capelli orrendo e i peli sulle braccia; quella che abitava nel garage. Ma a me importava. Anzi, ti ammiravo. Ogni giorno non vedevo l’ora di fare su e giù in bicicletta nel vialetto di casa, mentre tu mi giravi intorno con lo skateboard. Quei cavolo di bigliettini, ce li ho ancora tutti. Non so nemmeno perché li ho tenuti. Nel frattempo, scommetto che tu non ti ricordi nemmeno chi sono. Nooo, non tu, Landon Roderick con la tua puzza sotto il naso… nella tua villa di Los Angeles, troppo fico per ricordarti dei poveracci. Nel caso in cui ti stessi domandando che ne sia stato di me, be’, dopo che ci siamo trasferiti è andato tutto a puttane. Mia madre se n’è andata. E la mia vita non è più stata la stessa. Perciò, anche se non ti ricordi nemmeno chi sono, io mi ricordo di te. Triste a dirsi, ma l’ultima volta che sono stata felice è stato con te».
Con le guance solcate dalle lacrime e nient’altro da aggiungere, riattaccai e gettai il telefono sul letto.
Poi mi resi conto.
Oh, cavoli.
Oh, no.
Che cosa avevo fatto?
Avevo il cuore a mille. La stanza girava più veloce di prima.
Pochi secondi dopo, il telefono incominciò a squillare. Portandomi le ginocchia al petto, lo fissavo come fosse una bomba che sarebbe scoppiata non appena avessi risposto.
No. Non potevo rispondere. Mi ero resa ridicola. Quando smise, feci un sospiro di sollievo che finì un attimo prima che il telefono riprendesse a squillare. Continuai a non rispondere. Alla fine si fermò, per circa cinque minuti.
Poi ricominciò.
Penelope Ward
Penelope Ward è un’autrice bestseller del «New York Times», di «USA Today» e del «Wall Street Journal». È cresciuta a Boston con cinque fratelli più grandi e ha lavorato come giornalista prima di riuscire a realizzare il suo sogno di diventare una scrittrice a tempo pieno. La Newton Compton ha già pubblicato i bestseller Bastardo fino in fondo e Un perfetto bastardo (scritti con Vi Keeland) e Odioamore. Vive nel Rhode Island con il marito e due figli.
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