Corredato da un’ampia anteprima, ecco il riassunto della trama di Per mano mia di Maurizio De Giovanni. Il romanzo è pubblicato in Italia da Einaudi con un prezzo di copertina di 14,00 euro (ma online lo si può acquistare con il 15% di sconto)
Per mano mia: trama del libro
Natale 1931. Mentre la città si prepara alla prima di “Natale in casa Cupiello”, dietro l’immagine di ordine e felicità imposta dal regime fascista infieriscono povertà e disperazione. In un ricco appartamento vicino la spiaggia di Mergellina sono rinvenuti i cadaveri di un funzionario della Milizia, Emanuele Garofalo, e di sua moglie Costanza. La donna è stata sgozzata con un solo colpo di lama, quasi sull’ingresso, mentre l’uomo è stato trafitto nel letto con oltre 60 coltellate. Colpi inferti con forza diversa: gli assassini potrebbero essere più d’uno. La figlia piccola si è salvata perché era a scuola. La statuina di san Giuseppe, patrono dei lavoratori, giace infranta a terra. Sulla scena del delitto, Ricciardi, che ha l’amaro dono di vedere e sentire i morti ammazzati, ascolta le oscure ultime frasi della coppia, che non gli dicono granché. Il commissario dovrà girare a lungo, e sempre più in corsa contro il tempo, per le strade di Napoli per arrivare alla verità. In compagnia del fidato, ma non privo di ombre, brigadiere Raffaele Maione, che in questo romanzo conquista un deciso ruolo di comprimario. E insidiato nella sua solitudine da una altrettanto inaspettata rivalità tra due giovani donne che più diverse non si potrebbe. Tra le casupole dei pescatori immiseriti e gli ambienti all’avanguardia della Milizia fascista, una città sempre più doppia e in conflitto avvolge Ricciardi e Maione in spire sempre più strette.
In ebook Per mano mia (in pdf, epub e mobi) può essere acquistato al prezzo di 9,99 euro. Qui potete trovare la lista di tutti i libri del Commissario Ricciardi.
Non che si dovesse aver mai voglia di uccidere qualcuno, intendiamoci: l’omicidio è una follia, la cosa piú terribile che possa fare un essere umano. Ma, pensava Maione, diventava ancora piú terribile ora che i bambini non dormivano per l’attesa, ora che ci si salutava e ci si sorrideva per strada, ora che si pensava a cosa preparare per il pranzo della vigilia. Ora che i negozi erano addobbati a festa, ora che le chiese facevano a gara a chi esponeva il piú bel presepe, ora che ogni incontro cominciava e finiva con gli auguri. Chi poteva aver voglia di uccidere, in momenti cosí?
Eppure, qualcuno c’era. E quindi eccomi qui, si disse il brigadiere, mentre arranco a piedi verso Mergellina, in questo vento gelido che mi penetra perfino nelle ossa, a rischio di farmi Natale a letto con un febbrone da cavallo.
Alle sue spalle le guardie Camarda e Cesarano, le facce affondate dietro i baveri dei cappotti, i berretti calati fin sulle orecchie rosse; nemmeno si prendevano in giro l’un l’altro come facevano di solito, evidentemente anche per le loro teste passavano gli stessi pensieri. Squadra mobile, si disse Maione. Mobile sui piedi, mobile con gli scarponi. Due automobili in dotazione alla questura, una perennemente in riparazione e l’altra per la rappresentanza del signor questore. E noi a farci nuovi calli, correndo avanti e indietro per la città.
Qualche passo davanti a lui, vedeva i capelli del commissario Ricciardi agitati dal vento. Come al solito senza cappello: come accidenti facesse a non prendersi qualche malanno, Dio solo lo sapeva.
Sopra l’orecchio destro distingueva una ferita violacea, un’area rasata e un paio di punti di sutura. Maione ricordò l’incidente in cui il superiore era rimasto coinvolto il giorno dei morti, quasi due mesi prima, e con un brivido ripensò al miracolo che c’era voluto perché ne uscisse vivo. La donna che guidava la macchina finita fuori strada era rimasta uccisa sul colpo, un salto di quindici metri, e lui solo quel graffio.
Camminando dietro il commissario nei vicoli di Chiaia, Maione ricordò l’uomo al risveglio, in ospedale; lui era seduto vicino al letto, determinato a vegliare tutta la notte, quando Ricciardi aveva aperto gli occhi all’improvviso.
Lo sguardo vigile, perfettamente cosciente: quegli inquietanti occhi verdi, trasparenti, in cui era impossibile leggere pensieri o stati d’animo, si erano fissati su di lui. Poi, con voce bassa e preoccupata: mi vedi? Mi vedi, Maione? Riesci a vedermi? E certo che vi vedo, commissa’, aveva risposto lui. Sto qua, vicino a voi, come faccio a non vedervi?
Il commissario aveva sospirato, poi si era accomodato di nuovo sul cuscino e si era assopito.
Se lo era ritrovato in questura sette giorni dopo, con una benda fissata alla meglio sulla ferita. Figurarsi se poteva starsene a letto per il mese che aveva detto il dottore. E ora camminava davanti a lui, diretto a Mergellina, da dove quella mattina era arrivata la chiamata. Maione si chiedeva che cosa passasse per quella testa.
Ricciardi pensava ai morti.
Pensava che Natale o non Natale, festa o non festa, fratellanza o non fratellanza, qualcuno moriva sempre, e che a lui toccava di vedere sangue e devastazione.
Quando la macchina era saltata nel vuoto, aveva creduto di morire lui stesso, e una parte della sua anima lo aveva quasi sperato: una conclusione della sofferenza oscura che lo perseguitava da sempre. E lui stesso sarebbe diventato un’immagine sbiadita su un costone di roccia, condannato a ripetere un muto pensiero al vento, senza essere percepito da nessuno; a meno che qualche altro disgraziato gravato dalla stessa condanna si fosse trovato a guardare il mare da Posillipo.
E invece eccomi qui, rifletté. Di nuovo sulla breccia, come se nulla fosse accaduto. Come se non fossi morto un altro po’, come ogni volta che scopro quanto nera può essere un’anima. Come se fossi ancora vivo.
Mergellina stava evolvendo: da borgo di pescatori, defilato rispetto al centro della città, si proponeva adesso come quartiere elegante. Nuovi palazzi, qualche bottega, balie e governanti, portieri in livrea, senza perdere l’aria e i profumi del vecchio, con l’odore di cavolo stantio e di pesce, con le donne sedute vicino alla spiaggia imbacuccate negli scialli neri a rammendare i buchi aperti dal mare nelle reti.
Al solito, appena intravide da lontano la pattuglia, un gruppo di scugnizzi si fece incontro urlando. Erano insieme le vedette e il coro di ogni evento, sempre pronti ad accorrere per fare festa o per lamentarsi, e per trarre da qualsiasi situazione il piccolo vantaggio di un’elemosina o di un boccone; scalzi, laceri e con la pelle scura e dura, le bocche sdentate aperte in un perenne, afono urlo. Ricciardi li scansò senza un gesto, Maione e le due guardie cercarono di allontanarli come insetti molesti, ma furono utili per trovare, senza dover ricordare l’indirizzo, il luogo dove era accaduto il fatto per cui erano stati chiamati. Era una palazzina di recente costruzione, un po’ nascosta; una piccola folla di curiosi stazionava davanti al portone, coprendo alla vista l’ingresso. C’era uno strano silenzio; il vento che veniva dal mare era freddo e tagliente, ma nessuno sembrava aver voglia di muoversi dal proprio punto di osservazione.
Quando furono vicini, dal gruppo si staccò un uomo rosso in faccia, con una livrea mal abbottonata e in testa un cappello sghembo. Si accostò a Maione e lo prese per il braccio.
– Brigadie’, finalmente siete arrivati. Un bagno di sangue, un bagno di sangue! Non avete idea! Non capisco, non capiamo chi può essere stato. Signori, erano, gran signori! E proprio mo’, che sta arrivando Natale, io non capisco, non capisco…
Investito dal puzzo di vino rancido che veniva dalla bocca dell’uomo e infastidito dal suo tono di voce, Maione lo allontanò con una manata.
– Calma, calma. Non mi state facendo capire niente. Fatevi indietro, pigliate fiato e ditemi chi siete e di che cosa state parlando.
L’uomo rimase interdetto, fece un passo indietro e respirò profondamente.
– Avete ragione, brigadie’, scusatemi. È che questa cosa mi ha sconvolto. Mi chiamo Ferro, Beniamino Ferro a servirvi, sono il custode del palazzo.
La gente aveva spostato l’attenzione dall’ingresso dello stabile alla conversazione tra Maione e il portiere; Ricciardi si avvicinò ai due:
– Sono il commissario Ricciardi della squadra mobile, e questo è il brigadiere Maione. Ditemi che cosa è successo.
Ferro sbatté le palpebre, reso inquieto dallo sguardo di Ricciardi e dal tono basso della voce. Si fece guardingo e sussurrò:
– Io non lo so che cosa è successo, commissa’. Cioè, lo so, ho visto e… Madonna mia, quanto sangue… ma non so come è successo, ecco. Insomma, io non c’entro niente, sia chiaro. Sono salito sopra, quando mi ha chiamato lo zampognaro, e sono andato a vedere, ma da fuori alla porta, lo so che non si deve toccare niente.
Ricciardi aspettò paziente, poi disse:
– Che cosa avete visto da fuori alla porta? Che cosa non si deve toccare?
– Io lo so, perché una volta lavoravo in un cantiere sopra al Vomero e un compagno mio è caduto da un balcone, e ci hanno detto di non toccare niente fino a quando arrivava… arrivavate voi, insomma. I morti, commissa’. I morti a terra non si devono toccare.
Le parole dell’uomo caddero nel silenzio come una pietra in un pozzo. Le persone in prima fila, attorno a loro, fecero un passo indietro. Una donna portò la mano alla bocca e spalancò gli occhi.
– I morti, avete detto? Quali morti?
Adesso Ferro sembrava aver perso tutta la voglia di parlare. Fissava Ricciardi a occhi sbarrati, biascicando silenziosamente quelle ultime parole, i morti, i morti, come se solo adesso ne avesse compreso il senso.
– Morti. Sono morti. La signora, e pure il capitano. Sono morti.
Ripeté la frase piú volte, a bassa voce, guardandosi attorno. Gli occhi riflettevano l’assoluto terrore, lo smarrimento che l’uomo stava provando; i curiosi distolsero lo sguardo. Dal mare vicino venne il suono di un’onda che si infrangeva sugli scogli.
Ricciardi non aveva tolto le mani dalle tasche del soprabito. Il vento gli agitava i capelli sulla fronte, le palpebre non battevano quasi. Cercava di capire quanto dell’atteggiamento del custode fosse reale, e quanto coprisse un’eventuale menzogna.
– Perché dite che questa signora e questo capitano sarebbero morti? Li avete visti? Dove stanno?
Ferro sembrò riscuotersi:
– Scusate, commissa’. È che non me ne ero ancora reso conto. Ho visto… ho visto la signora, dalla porta che è aperta. Non sono entrato, ho chiamato il capitano, l’ho chiamato piú volte ma non rispondeva. Ho pensato… ho pensato che se non mi rispondeva, allora voleva dire che era morto pure lui.
– E siete sicuro che è in casa? Non può essere uscito?
– No, no, è in casa. Lo vedo sempre uscire, il pomeriggio, per andare al porto. Ma a quest’ora è sempre in casa.
Maione intervenne:
– Prima avete detto che vi è venuto a chiamare lo zampognaro. Che significa?
– Erano saliti i due zampognari a suonare la novena, per il terzo giorno; sono scesi subito, uno non parlava e non parla ancora, sta là, lo vedete, seduto su quella sedia, bianco che pare morto pure lui. L’altro, il piú anziano, mi è venuto a chiamare e mi ha detto portie’, salite che è successo un guaio. Io tutto mi credevo, tranne di trovare… quello che ho trovato.
Ricciardi annuí, assorto. Poi disse:
– Va bene, allora. Andiamo a vedere. Ferro, voi accompagnate me e il brigadiere; Cesarano, tu mettiti vicino ai due zampognari e non ti muovere, li sentiamo dopo. E tu, Camarda, ti metti al portone, non voglio vedere nessuno entrare nel palazzo, nemmeno chi ci abita, finché non te lo dico io. Andiamo.
Per la biografia e la bibliografia completa dello scrittore rimandiamo i lettori alla pagina di Wikipedia dedicata a Maurizio De Giovanni.
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